
Oggi la cultura vorrebbe emarginare la morte, mentre la tradizione cristiana vi riserva un intero mese, per pregare, meditare e ricordarci che la nostra vita non termina su questa terra…
Non un giorno, il 2 novembre, ma tutto un mese è dedicato ai defunti. E’ un affluire nei cimiteri, sono ricordi più vivi accompagnati da preghiera e gratitudine.
Sovente, nell’arco della nostra vita, ci interroghiamo sul senso della morte e del suo rapporto con la vita. E il pensiero si perde nelle riflessioni, nella meditazione, nei ricordi. Che cosa è la morte? Perché la morte? Che cosa è la vita eterna? Cosa rappresentano per noi i defunti e quale rapporto instauriamo con loro?
Innanzitutto: la morte che per i non credenti costituisce semplicemente il termine di una esistenza oltre la quale non esiste che il nulla, per noi cristiani rappresenta una meta e un inizio. E’ l’interruzione della vita terrena con la separazione da tutto ciò che ci legava ad essa, e l’inizio di un’altra vita, quella eterna. “Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata” ci fa pregare la Chiesa (cf. Canone Messa dei defunti). Sarà una vita diversa, che prende avvio al momento della morte, come sostengono molti teologi tra cui Barth (cf. 1Cor 13). Quale immagine più eloquente e illuminante della morte di quella relativa alla nascita di un bambino? Quando, terminato il periodo della gestazione, egli deve liberarsi della placenta che lo aveva avvolto e protetto per mesi e separarsi dal grembo materno, viene catapultato nel nostro mondo. Inizia un nuovo cammino attraverso tappe di sviluppo e di crescita. Passa dall’essere dipendente “in toto” dalla madre ad avere una vita autonoma. Sarà neonato, fanciullo, adolescente, giovane, adulto, anziano; stabilirà e maturerà relazioni cognitive e affettive, si proietterà e sarà impegnato nel mondo del lavoro e nella costruzione della società.
Chi non ha sperimentato nell’arco della sua vita l’esperienza della morte? Quante volte ci siamo ribellati ad essa, forse perché inconsciamente l’abbiamo considerata come uno sprofondare nel nulla o nell’ignoto, e forse perché non abbiamo accettato che venissero spezzati i vincoli di affetto e di amicizia che avevamo coltivato per anni.
Ma quando l’abbiamo considerata come la vittoria dello spirito che si svincola dal corpo fisico, e abbiamo compreso che essa segna l’inizio di una nuova vita, quella spirituale che ci immerge in quella eterna, il sorriso è ritornato sulle nostre labbra, una nuova pace ha inondato il nostro cuore, e abbiamo iniziato a intessere una relazione diversa, più spirituale con le persone defunte.
Nella “Dichiarazione sull’esistenza della vita eterna” del 1979, beato Giovanni Paolo II ricordava che l’anima è spirituale e quindi non morirà mai, e che con la morte corporale l’anima entra nell’eternità.
“Gli uomini pii vivono beati nell’altra vita” aveva scritto Omero. E Shakespeare in uno dei suoi scritti ebbe a dire: “Raccomando la mia anima al mio Creatore, sperando e fermamente credendo che io sarò ammesso a partecipare alla vita immortale”.
La vita eterna è una realtà da credere e sperare. “Coloro che non sperano nella vita futura sono morti anche per la vita presente” scrisse il grande scrittore Goethe. Essa ci attende; nessuno può venir meno al suo appuntamento. E sarà tanto più luminosa quanto più conosciamo e sperimentiamo il Cristo qui, nella vita terrena. La promessa di Gesù agli apostoli: “Vado a prepararvi un posto” è valida anche per noi, come è stata valida per quanti sono vissuti prima di noi.
Vita presente e vita futura: due tempi e aspetti di una stessa realtà; se la prima si conclude con la morte, la seconda inizia da essa un nuovo percorso che ha il suo compimento nella beatificazione e glorificazione.
Sperare e credere nella vita eterna costituisce un’ipoteca per il nostro futuro, allorché si spengono le luci della ribalta terrena. Chi chiude l’accesso della sua mente e del suo cuore ad essa, orienta la propria esistenza ai beni caduchi, al soddisfare unicamente gli istinti e gli interessi materiali, calpestando spesso i diritti e la dignità altrui. Chi vive credendo che oltre la morte ci attende una vita beata, promessa dallo stesso Cristo, orienta i suoi interessi e le sue attività al bene.
Assenti o presenti?
Il beato Giovanni Paolo Il, alla vigilia della sua morte ripeteva spesso: “Non piangete, sono alla vigilia di una grande festa. La vera vita non è questa terrena, la quale passa velocemente, ma è quella che c’è dopo la morte del corpo, poiché quella è eterna, non avrà mai fine”. E Santa Teresa di Lisieux, riferendosi alla morte che stava per sperimentare, ebbe a dire: “Entro nella vita...”. E poi soggiunse che in Cielo avrebbe passato il tempo a fare del bene sulla terra.
Sin dall’antichità gli uomini hanno coltivato il culto dei defunti. Per essi hanno costruito tombe e cimiteri; in loro onore hanno dedicato monumenti e pagine poetiche, sia per esprimere la gratitudine per il bene ricevuto o da essi compiuto, e sia per non interrompere quel vincolo d’amore che li aveva legati in vita.
Tuttavia anche chi afferma di non credere in una vita futura, chi si dichiara materialista e ateo, non dimentica i “suoi morti”, si affida a loro nei momenti di difficoltà, ne canta le glorie.
Per noi cristiani che crediamo nella vita eterna, il ricordo dei defunti è accompagnato dalla fede nelle parole di Gesù: “Chi crede in me non morirà, ma avrà la vita eterna”; “Vado a prepararvi un posto”. Nasce da questa fede il bisogno della preghiera, la visita al cimitero, l’adornare di fiori la tomba delle persone care, la celebrazione eucaristica in loro suffragio.
Il ricordo e il culto verso i defunti non può e non deve limitarsi al momento della morte o in occasione di un anniversario particolare, perché i vincoli esistiti durante questa vita non possono essere riposti in un dimenticatoio e neppure essere annullati.
Certamente, quanto più questi vincoli sono stati profondi in vita, tanto più il ricordo è duraturo. E con il ricordo cresce la riconoscenza per il bene ricevuto, e il bisogno di pregare il Dio della vita perché le persone care possano godere sempre più intensamente e profondamente del gaudio eterno e possano continuare ad aiutarci.
La gratitudine di coloro che abbiamo aiutato a raggiungere la felicità piena attraverso la nostra preghiera e le opere buone, si riverserà sulla nostra vita. E si tramuterà in una presenza che si esprime in luce, gioia, serenità, abbandono ai piani provvidenziali di Dio.
Santa Teresa di Lisieux aveva promesso: “Passerò il mio tempo in cielo a fare del bene sulla terra”. Come lei, i nostri amici, parenti e benefattori, coloro che hanno condiviso con noi parte del cammino e delle esperienze, coloro che abbiamo beneficato e/o da cui siamo stati beneficati, non ci lasciano soli, soprattutto nei momenti di difficoltà. E spesso fanno sentire la loro presenza. Se li invochiamo, essi rispondono. Tra noi e loro si forma una catena di solidarietà. Più è intenso il ricordo, più è vero e disinteressato l’amore che ci lega a loro, maggiore è la percezione della loro presenza.
Vincoli profondi…
I vincoli di amicizia, di parentela e di affetto con le persone che sono vissute con noi non possono essere riposti in un dimenticatoio e neppure essere annullati allorché la morte ci sorprende e ci separa. Quanto più questi vincoli sono stati profondi in vita, tanto più il ricordo è vivo e duraturo. E con il ricordo cresce la riconoscenza per il bene ricevuto, e il bisogno di pregare il Dio della vita perché possano godere sempre più intensamente e profondamente del gaudio eterno e possano continuare ad intercedere per noi.
Quanto grande, e spesso struggente, è il desiderio di rivedere le persone con le quali abbiamo condiviso la vita e il lavoro, dialogare con loro come quando vivevano con noi! Se ciò ci è precluso, se non sono visibili ai nostri occhi e non possiamo udirli con il nostro udito, la loro è una presenza vera. Possiamo affermare che è una assenza-presenza. Forse, è più presenza che assenza.
Ma quando l’abbiamo considerata come la vittoria dello spirito che si svincola dal corpo fisico, e abbiamo compreso che essa segna l’inizio di una nuova vita, quella spirituale che ci immerge in quella eterna, il sorriso è ritornato sulle nostre labbra, una nuova pace ha inondato il nostro cuore, e abbiamo iniziato a intessere una relazione diversa, più spirituale con le persone defunte.
Nella “Dichiarazione sull’esistenza della vita eterna” del 1979, beato Giovanni Paolo II ricordava che l’anima è spirituale e quindi non morirà mai, e che con la morte corporale l’anima entra nell’eternità.
“Gli uomini pii vivono beati nell’altra vita” aveva scritto Omero. E Shakespeare in uno dei suoi scritti ebbe a dire: “Raccomando la mia anima al mio Creatore, sperando e fermamente credendo che io sarò ammesso a partecipare alla vita immortale”.
La vita eterna è una realtà da credere e sperare. “Coloro che non sperano nella vita futura sono morti anche per la vita presente” scrisse il grande scrittore Goethe. Essa ci attende; nessuno può venir meno al suo appuntamento. E sarà tanto più luminosa quanto più conosciamo e sperimentiamo il Cristo qui, nella vita terrena. La promessa di Gesù agli apostoli: “Vado a prepararvi un posto” è valida anche per noi, come è stata valida per quanti sono vissuti prima di noi.
Vita presente e vita futura: due tempi e aspetti di una stessa realtà; se la prima si conclude con la morte, la seconda inizia da essa un nuovo percorso che ha il suo compimento nella beatificazione e glorificazione.
Sperare e credere nella vita eterna costituisce un’ipoteca per il nostro futuro, allorché si spengono le luci della ribalta terrena. Chi chiude l’accesso della sua mente e del suo cuore ad essa, orienta la propria esistenza ai beni caduchi, al soddisfare unicamente gli istinti e gli interessi materiali, calpestando spesso i diritti e la dignità altrui. Chi vive credendo che oltre la morte ci attende una vita beata, promessa dallo stesso Cristo, orienta i suoi interessi e le sue attività al bene.
Assenti o presenti?
Il beato Giovanni Paolo Il, alla vigilia della sua morte ripeteva spesso: “Non piangete, sono alla vigilia di una grande festa. La vera vita non è questa terrena, la quale passa velocemente, ma è quella che c’è dopo la morte del corpo, poiché quella è eterna, non avrà mai fine”. E Santa Teresa di Lisieux, riferendosi alla morte che stava per sperimentare, ebbe a dire: “Entro nella vita...”. E poi soggiunse che in Cielo avrebbe passato il tempo a fare del bene sulla terra.
Sin dall’antichità gli uomini hanno coltivato il culto dei defunti. Per essi hanno costruito tombe e cimiteri; in loro onore hanno dedicato monumenti e pagine poetiche, sia per esprimere la gratitudine per il bene ricevuto o da essi compiuto, e sia per non interrompere quel vincolo d’amore che li aveva legati in vita.
Tuttavia anche chi afferma di non credere in una vita futura, chi si dichiara materialista e ateo, non dimentica i “suoi morti”, si affida a loro nei momenti di difficoltà, ne canta le glorie.
Per noi cristiani che crediamo nella vita eterna, il ricordo dei defunti è accompagnato dalla fede nelle parole di Gesù: “Chi crede in me non morirà, ma avrà la vita eterna”; “Vado a prepararvi un posto”. Nasce da questa fede il bisogno della preghiera, la visita al cimitero, l’adornare di fiori la tomba delle persone care, la celebrazione eucaristica in loro suffragio.
Il ricordo e il culto verso i defunti non può e non deve limitarsi al momento della morte o in occasione di un anniversario particolare, perché i vincoli esistiti durante questa vita non possono essere riposti in un dimenticatoio e neppure essere annullati.
Certamente, quanto più questi vincoli sono stati profondi in vita, tanto più il ricordo è duraturo. E con il ricordo cresce la riconoscenza per il bene ricevuto, e il bisogno di pregare il Dio della vita perché le persone care possano godere sempre più intensamente e profondamente del gaudio eterno e possano continuare ad aiutarci.
La gratitudine di coloro che abbiamo aiutato a raggiungere la felicità piena attraverso la nostra preghiera e le opere buone, si riverserà sulla nostra vita. E si tramuterà in una presenza che si esprime in luce, gioia, serenità, abbandono ai piani provvidenziali di Dio.
Santa Teresa di Lisieux aveva promesso: “Passerò il mio tempo in cielo a fare del bene sulla terra”. Come lei, i nostri amici, parenti e benefattori, coloro che hanno condiviso con noi parte del cammino e delle esperienze, coloro che abbiamo beneficato e/o da cui siamo stati beneficati, non ci lasciano soli, soprattutto nei momenti di difficoltà. E spesso fanno sentire la loro presenza. Se li invochiamo, essi rispondono. Tra noi e loro si forma una catena di solidarietà. Più è intenso il ricordo, più è vero e disinteressato l’amore che ci lega a loro, maggiore è la percezione della loro presenza.
Vincoli profondi…
I vincoli di amicizia, di parentela e di affetto con le persone che sono vissute con noi non possono essere riposti in un dimenticatoio e neppure essere annullati allorché la morte ci sorprende e ci separa. Quanto più questi vincoli sono stati profondi in vita, tanto più il ricordo è vivo e duraturo. E con il ricordo cresce la riconoscenza per il bene ricevuto, e il bisogno di pregare il Dio della vita perché possano godere sempre più intensamente e profondamente del gaudio eterno e possano continuare ad intercedere per noi.
Quanto grande, e spesso struggente, è il desiderio di rivedere le persone con le quali abbiamo condiviso la vita e il lavoro, dialogare con loro come quando vivevano con noi! Se ciò ci è precluso, se non sono visibili ai nostri occhi e non possiamo udirli con il nostro udito, la loro è una presenza vera. Possiamo affermare che è una assenza-presenza. Forse, è più presenza che assenza.