Corso d’Aggiornamento per i Ministri Straordinari della Comunione (2007)
La Liturgia della Parola e la sua teologia.
Per una mistagogia della Mensa della Parola:
- Perchè si legge in Chiesa?
- Liturgia della Parola nell’Antico Testamento
- Liturgia della Parola nel Nuovo Testamento
- Proclamazione come attualizzazione della Parola di Dio
- Omelia come complemento d’attualizzazione
- Preghiera dei fedeli come risposta supplichevole
- «Perla ritrovata»: ma come valorizzarla?
- Questionario di riflessione sulla Liturgia della Parola: per lo studio personale e per il lavoro di gruppo
1. Perché si legge in Chiesa?
Chi volesse soffermarsi a comparare tra loro le situazioni della celebrazione della Parola di Dio nella liturgia pre-conciliare e nella liturgia post-conciliare, non avrebbe difficoltà a riconoscere che sono intervenuti non pochi mutamenti in meglio. A titolo di esempio ricordiamo che prima tutte le letture spettavano di diritto al celebrante, il quale, pure nel caso di una Messa solenne con diacono e suddiacono, era tenuto a re-duplicarle personalmente «sottovoce». Ora invece il celebrante ha imparato ad ascoltare la proclamazione della Parola ogniqualvolta è presente un lettore idoneo a svolgere il proprio ministero; il che è indubbiamente segno di maturità da parte della Chiesa in preghiera.
Accanto a questa constatazione globalmente positiva va tuttavia rilevato un tratto debole nella pratica della nuova liturgia, che consiste nella frequente inidoneità di coloro che di fatto svolgono l’ufficio di lettore. Mi si consenta, a modo d’introduzione stimolante e pertanto senza ombra di polemica, di enumerare alcune tra le tante cose che un po’ a tutti e un po’ dovunque accade di notare.
A volte succede di vedere delle persone adulte che si precipitano a leggere animate da un irrefrenabile zelo, nel desiderio segreto forse di non lasciarsi sfuggire un’occasione propizia per figurare in pubblico. Chi ha una qualche esperienza sa che neppure gli uomini vanno esenti da siffatta tentazione. Altre volte vediamo andare a leggere, magari dopo un attimo d’esitazione, colui che per caso si trova in prossimità dell’ambone, «tanto - egli pensa - qualcuno dovrà pur leggere». Se poi si chiede all’aspirante lettore «Lei è abituato a leggere in chiesa?», quello si risente e subito esibisce i suoi titoli di studio, come se il ministero del lettore non richiedesse una formazione specifica. A volte viene portato all’ambone un lettore infante e suscita tenerezza vederlo compitare con fatica e diligenza testi che la sua età non gli permette di comprendere. Un’altra cosa poi che si nota con una frequenza allarmante è che, anche in presenza di un eventuale lettore idoneo, i fedeli sono portati a ignorarne del tutto la funzione. Essi infatti, attratti e distratti dai ben noti foglietti che vengono distribuiti a profusione, altro non fanno che re-duplicare privatamente le letture.
Per concludere questa rassegna esemplificativa delle tante cose che succedono, si può ancora menzionare il ricorso, soprattutto in celebrazioni ristrette, a letture ricavate da ritagli di cronaca, o da dichiarazioni di esponenti rappresentativi dell’odierna società, oppure da pagine di spiritualità esotica, testi indubbiamente significativi, ma estranei ai libri rivelati. Tale scelta viene motivata adducendo lo scarso impatto che il linguaggio biblico avrebbe sull’uomo contemporaneo. Se le intenzioni che presiedono a questi e ad altri analoghi comportamenti sono senza dubbio sincere, i fatti stessi lasciano perplessi e non mancano di porre al credente una serie di interrogativi incalzanti. Li proponiamo a modo di provocazione.
Perché si legge la Parola di Dio nelle nostre assemblee liturgiche? Se è vero che essa è una Parola difficile, messa per scritto in tempi assai lontani dal nostro, ha ancora un senso proporla tale e quale nelle nostre chiese? Non sarebbe forse pastoralmente più saggio parafrasarla liberamente, lasciando di conseguenza cadere tutto ciò che resiste alla comprensione immediata?
Un tempo pochi erano coloro che sapevano leggere; ma oggi che la nostra società è totalmente alfabetizzata e tutti hanno dimestichezza con la parola scritta, è ancora valido nel campo della fede l’assioma paolino della «fides ex auditu» (la fede dipende dall’ascolto) (Rm 10, 17)? Oppure, ammesso anche che si voglia rimanere nella dinamica dell’annuncio orale, che senso ha voler insistere ad ogni costo sulla figura del lettore all’ambone, quando sappiamo che sarebbe sufficiente inserire una cassetta e premere un pulsante per avere una lettura tecnicamente perfetta, al limite, una lettura audiovisiva?
Una chiara risposta a tutte queste domande emerge da quell’antica tradizione del leggere «in Chiesa», ossia del proclamare la Parola di Dio all’assemblea cultuale, che si è fissata nella Scrittura stessa. Esamineremo pertanto i due passi biblici, veterotestamentario l’uno e neotestamentario l’altro, che trattano specificamente della liturgia della Parola.
2. Una liturgia della Parola nell’Antico Testamento
La descrizione più articolata di una celebrazione veterotestamentaria della Parola di Dio è indubbiamente quella che si legge in Ne 7, 72b-8, 12. Di questa pericope ci limiteremo ad esaminare la porzione che ci riguarda più direttamente, ossia fino a 8, 8. La traduzione volutamente letterale che stiamo per darne, quasi un calco del testo ebraico, consentirà di cogliere non pochi dettagli che altrimenti passerebbero inosservati.
7, 72b Come giunse il settimo mese e i figli d’Israele [erano] nelle loro città,
8, 1 allora si radunò tutto il popolo come un sol uomo sulla piazza che [è] in faccia alla Porta delle Acque; e
dissero a Esdra, lo scriba, di portare lo scritto della Legge di Mosè che il Signore aveva comandato a Israele.
8, 2 Allora portò Esdra, il sacerdote, la Legge in faccia alla Chiesa, [composta a partire] dall’uomo fino alla
donna e a ogni capace-di-intendere [in rapporto] all’ascolto, nel primo giorno del settimo mese.
8, 3 E proclamò in esso in faccia alla piazza, che [è] in faccia alla Porta delle Acque, [a partire] dalla luce fino al mezzo del giorno, in presenza degli uomini e delle donne e dei capaci-di-intendere; e gli orecchi li tutto il popolo [erano] allo scritto della Legge.
8, 4 E stava Esdra, lo scriba, sopra un pulpito di legno, che avevano fatto per la Parola, e stavano al suo fianco: Mattitia e Sema e Anaia e Uria e Chelkia e Maaseia, alla sua destra; e alla sua sinistra: Pedaia e Misael e Malchia e Casum e Casbaddàna, Zaccaria, Mesullàm.
8, 5 E aprì Esdra lo scritto agli occhi di tutto il popolo, poiché era al di sopra di tutto il popolo; e come lo ebbe aperto, tutto il popolo stette [in piedi].
8, 6 E benedisse Esdra il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose «Amen, Amen!», levando le mani; e si
inchinarono e si prostrarono al Signore, il viso contro terra.
8, 7 E Giosuè e Bani e Serebia, Iamin, Akkub, Sabbetài, Odia, Maaseia, Kelita, Azaria, Iozabàd, Canàn, Pelaia, [che erano] leviti, facevano intendere al popolo la Legge; e il popolo [stava] al suo posto.
8, 8 E si proclamò nello scritto della Legge di Dio ciò che era diviso in sezioni; e si diede l’interpretazione e
intesero la proclamazione.
Prendendo avvio dalla menzione del raduno liturgico, il racconto precisa che è l’intero popolo dei reduci dalla deportazione a convenire «come un sol uomo» nello stesso giorno e nello stesso luogo. Sotto gli stimoli intensi di una fame spirituale, durata quanto è durato l’esilio, e persuasi che solo la Parola di Dio è in grado di colmare la loro attesa, i convenuti si rivolgono a colui che della Parola è il depositario ufficiale. Il termine «scriba» (sofèr), con cui nel testo ebraico viene qualificata la funzione di Esdra, è da intendere in rapporto all’espressione «lo scritto (sèfer) della Legge». Dall’originario significato di funzionario regio incaricato di «narrare [per scritto]» (safàr) gli annali della dinastia, il termine «scriba» è passato nel periodo post-esilico, cui appartiene il nostro testo, a significare il predicatore della Torà [legge] o, se vogliamo, il «narratore» qualificato delle imprese divine. Ritengo importante in una traduzione di studio mantenere il rapporto «scriba-scritto», al fine di cogliere in contesto liturgico l’intimo nesso che corre tra il lettore e il libro della Parola di Dio.
Richiesto di intervenire secondo la specificità del suo ministero, lo scriba Esdra porta il rotolo della Legge davanti alla Chiesa radunata sulla piazza. La dimensione cultuale di questa è sottolineata tanto dall’ebraico qahàl quanto dal greco ekklesìa (8, 2). Per due volte ne viene elencata la composizione, prima attraverso una serie di singolari collettivi (8, 2) e poco dopo attraverso normali termini plurali (8, 3). E interessante notare come in entrambi i casi siano nominati in primo luogo gli uomini, quindi le donne e infine la componente giovane. La designazione di quest’ultima è affidata al verbo ebraico bin, che connota le nozioni di «separare, distinguere, discernere, rendersi conto della differenza, prestare attenzione, comprendere». L’espressione ebraica assai concisa, che rendiamo con la perifrasi «capaci-di-intendere [in rapporto] all’ascolto», è dunque comprensiva di quanti sono in grado di soppesare l’entità teologica della Parola di Dio, distinguendola dalle parole comuni. A questi destinatari della Parola si rivolge il ministero di Esdra.
In 8, 3 viene descritta per anticipazione la durata della lettura. Quella di Esdra non è certo una lettura breve e frettolosa, fatta tanto per ottemperare alla rubrica che la prescrive. Essendo la ragione stessa del raduno, essa è una lettura ampia e solenne, che sa darsi il tempo necessario e non teme di occupare metà della giornata. Il verbo che traduciamo abitualmente con leggere è in ebraico qarà’. Esso corrisponde assai bene al latino clamare [gridare ad alta voce] e all’italiano pro-clamare [gridare davanti a un’assemblea]. Ciò significa che la lettura liturgica va intesa come proclamazione, ossia come una lettura eminentemente finalizzata all’assemblea che ascolta. Nel momento cultuale non v’è infatti posto per la lettura privata o personale; neppure per quella che spesso oggi nelle nostre chiese ognuno è tentato di fare sul «suo» foglietto. Alla proclamazione di Esdra i presenti reagiscono con la tensione di tutta la persona, che si manifesta nella partecipazione dei sensi. Il lettore funge da mediatore tra «gli orecchi di tutto il popolo» e «lo scritto della Legge». Senza la mediazione del lettore gli orecchi resterebbero incapaci di ascolto e lo scritto privo di destinatari.
In 8, 4 è menzionato il palco ligneo, che avevano costruito appositamente laddabàr, ossia «per la Parola» oppure «per la circostanza». Su questo podio, che funge da supporto visibile della Parola di Dio, prende posto il lettore, e con lui una folta schiera di notabili che lo assistono nell’esercizio delle sue funzioni, Sono elencati distintamente i nomi dei sei che stanno alla destra di Esdra e dei sette che sono alla sua sinistra. Purtroppo, nell’adattare la nostra pericope all’uso liturgico, i redattori del nuovo Lezionario si sono premurati di sopprimere 8, 4b, nella convinzione che le assemblee moderno-occidentali si infastidirebbero davanti a una simile lista di nomi. Poiché con la Sacra Scrittura siamo in contesto orientale, mi si consenta, a proposito di 8, 4b, di aprire una digressione «orientale».
Alla Costa Est del Madagascar, accanto alla struttura politico-amministrativa ufficiale, sussiste tuttora, a livello ufficioso ma con potere reale, l’antica struttura clanica facente capo al re. L’etimologia stessa del termine «re» nella lingua malgascia - come pure nelle lingue neolatine - dice che il re è colui che porta il popolo, ossia lo regge e lo sorregge in ogni circostanza.
Nella vita della collettività non è difficile constatare come la figura del re sia interamente relazionata al popolo, che egli di fatto «regge» con la sua parola. Ci si aspetta dunque che il re parli. Ma, stranamente, alla Costa-Est del Madagascar il re non parla. Così recita un detto di sapienza ancestrale: «Il re è santo quanto alla bocca; per questo non parla». Tuttavia, se è vero che nel quadro di un’adunanza ufficiale nella «Casa degli Antenati», ossia nella sua casa, il re materialmente non proferisce sillaba, né in alcun caso andrà mai ad arringare personalmente il popolo, non per questo egli rimane muto, infatti il re è costantemente presente al popolo e gli parla per bocca del suo porta-parola. Tale ufficio è affidato a un uomo di grande esperienza, il quale diviene intimo del re, ne ascolta la parola e sua volta la trasmette al popolo.
A questo punto bisogna aggiungere che il porta parola, allorché porta al popolo il messaggio regale, non va mai solo. Egli è sempre accompagnato da alcuni notabili, almeno due, il cui numero è destinato a crescere in proporzione all’importanza del messaggio. Giunto in presenza del popolo, il porta-parola inizia il discorso dicendo: «Così dice il re…». A partire da quel momento tutti sanno che, anche se è materialmente il tale che parla, quelle sono di fatto le parole del re. Quello, anzi, è il re che sta attualmente parlando al suo popolo. Siccome «il re non può parlare, a causa della santità della sua bocca», il porta parola presta di fatto la propria bocca al re e lo fa parlare al popolo. I notabili che lo attorniano danno onore alla parola del re, fungendo in pari tempo da testimoni e garanti dell’autenticità del messaggio.
Si potrebbe affermare che il porta-parola del re svolga una funzione analoga a quella dello scriba Esdra, la quale a sua volta è analoga a quella spesso menzionata nei racconti di vocazione dei profeti.
Nel racconto della chiamata di Isaia, Dio è raffigurato come un re seduto nella magnificenza della sua dimora, attorniato dalla vociferante corte angelica che ne proclama senza posa la santità. All’udire l’acclamazione, Isaia avverte uno smarrimento esistenziale e, convinto della propria profanità, grida: «Ohi a me! Sono perduto...» (Is 6, 5). All’istante, sulla base del riconoscimento sacrale della sua incapacità a stare dinanzi a Dio, il veggente viene purificato. Ma a questo punto si ode un’altra voce che, come smarrita, dice: «Chi manderò e chi andrà per noi?» (Is 6, 8). In tutta la corte celeste non si trova alcuno in grado di andare e parlare a nome di Dio all’infuori del povero Isaia, il quale, cosciente di essere divenuto indispensabile, esclama: «Eccomi, manda me!». Quindi Dio notifica al suo porta-parola il messaggio che dovrà proclamare (cf. Is 6, 9-13).
Questo racconto veterotestamentario illustra bene la teologia sia del profeta sia del lettore. Il Signore è il grande re, colui che ci ha creati, ci ha fatto le mani, i piedi, la bocca. Egli ha tante cose da dirci, poiché è un re che sa reggere il suo popolo, tanto nel momento della prosperità quanto, e soprattutto, nel tempo della prova. Ma Dio Padre non ha bocca per parlare. Qui interviene il ruolo insostituibile del profeta, che timidamente lo rassicura e - come si legge nella versione della Bibbia greca di Is 6, 8 gli dice: «Ecco, ci sono io, manda me!». In tal modo il profeta presta la sua bocca a Dio.
Nel racconto della vocazione di Geremia, Dio tocca la bocca del profeta e gli dice: «Ecco, ho posto le mie parole nella tua bocca!» (Ger 1, 9); e lo manda a portare una parola di cui Geremia sperimenterà più volte l’amarezza e il peso (cf. Ger 20, 8). Così ancora, nel racconto della vocazione di Ezechiele, Dio esprime la sua presenza premurosa agli esuli mostrandosi nelle sembianze di un re seduto sul trono-carro, e manda loro Ezechiele dicendo: «[Tu] parlerai loro le mie parole!» (Ez 2, 7). Tale sembra dunque essere in Ne 7, 72b-8, 12 la funzione del lettore Esdra e dei notabili che, intimamente associati alla sua persona, gli fanno corona là sul podio di legno.
In 8, 5 è ripreso il tema della partecipazione dei sensi. Dopo aver fatto intervenire in 8, 3 «gli orecchi di tutto il popolo», il narratore menziona qui «gli occhi di tutto il popolo». Oggetto dell’attenzione è «lo scritto», la cui apertura ripetutamente sottolineata va ben oltre la materialità del gesto. Questo «aprire lo scritto» è denso di dimensione teologica, dal momento che il lettore sta effettivamente per prestare la propria bocca a Dio, ponendolo quindi in condizione di parlare al suo popolo.
La ricorrenza del verbo «benedire» in 8, 6 attesta che il racconto della liturgia di Esdra già si colloca nell’ambito della standardizzazione della liturgia giudaica in genere e della liturgia sinagogale in specie. Infatti l’impiego tecnico del verbo «benedire» significa pronunziare una formula benedizionale, che nel caso presente è la «benedizione per il dono della Legge».
Non possiamo pretendere di stabilire con esattezza quale formula benedizionale si pronunziasse al tempo di Esdra; ma è lecito supporre che essa doveva essere press’a poco del tenore seguente: "Benedetto sei tu, Signore Dio nostro, re del mondo, che ci eleggesti tra tutti i popoli e ci desti la Legge. Benedetto sei tu, Signore, datore della Legge!".
Alla benedizione preliminare del lettore il popo1o risponde acclamando «Amen». Quest’altro particolare conferma ulteriormente lo stretto nesso che corre tra la liturgia di Esdra e la liturgia sinagogale.
In 8, 7 troviamo elencati altri tredici personaggi, qualificati come leviti, con l’incarico di «far intendere la Legge al popolo». Analogamente all’anticipazione narrativa segnalata in 8, 3, qui pure il redattore anticipa l’azione che i leviti svolgeranno a proclamazione iniziata, ossia un’azione d’appoggio al lettore.
Solo a questo punto, cioè dopo che ognuno è stato accuratamente posto nel ruolo che gli compete, ha inizio la lettura. In 8, 8 il redattore, che precedentemente non ha avuto timore di dilungarsi prestando attenzione a numerosi dettagli, riassume con una descrizione estremamente parsimoniosa lo svolgimento dei diversi ruoli, da quello del lettore che proclama, a quello dei notabili che assistono, a quello dei leviti che traducono e fanno intendere, a quello infine dell’assemblea che ascolta e intende.
Il risultato di questo largo concorso di ministeri è molto confortante, poiché - come confermano le reazioni descritte in 8, 9 - tutti «intesero la proclamazione». Si erano radunati per «intendere l’ascolto» della Legge. Ecco dunque che «intendono» pienamente quella Parola in vista della quale si sono radunati.
3. Una liturgia della Parola nel Nuovo Testamento
Un’importanza tutta particolare assume per noi la celebrazione della Parola narrata in Lc 4, 16-22, poiché in essa è Gesù stesso che interviene come lettore. Anche di questo testo diamo una traduzione a modo di calco dell’originale greco.
16 E venne a Nazareth, dove era stato allevato; ed entrò, com’era suo solito nel giorno di sabato, nella sinagoga, e si alzò per leggere.
17 E gli fu dato il volume del profeta Isaia e, dopo aver srotolato il volume, trovò il luogo ove era scritto:
18 «Lo Spirito del Signore è su di me, perché mi ha-fatto-cristo per evangelizzare i poveri; mi ha mandato per annunciare ai prigionieri la libertà e ai ciechi il ritorno alla vista, per rimandare gli oppressi in libertà,
19 per annunciare l’anno di benevolenza del Signore».
20 E avendo arrotolato il volume e avendolo dato all’inserviente, si sedette; e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fortemente tesi a lui.
21 Allora cominciò a dire loro: «Oggi è-giunta-a-pienezza questa Scrittura nei vostri orecchi!».
22 E tutti testimoniavano per lui e si meravigliavano per le parole di grazia che uscivano dalla sua bocca, e dicevano: «Non è forse Bar-Yosèf costui?».
Premetto che non si dovrà cercare in questo brano di Luca il racconto organico della successione dei singoli momenti rituali. Qui, come altrove, gli evangelisti non intendono descrivere ciò che tutti sanno; ma piuttosto, a partire da una circostanza specifica, si propongono di annunziare il loro messaggio, limitandosi a sottolineare questo o quel particolare. Ora, il messaggio del nostro testo afferma che Gesù, data la sua condizione unica di Verbo di Dio, quando funge da lettore si identifica a tal punto nella Parola che annuncia, da portarla a compimento in una maniera che, pur non discostandosi qualitativamente da quella di ogni lettore cultuale, si configura in rapporto ad essa come eminente ed esemplare.
L’affermazione al v. 16 che Gesù in giorno di sabato era solito intervenire al raduno attesta come, in epoca neotestamentaria, la proclamazione cultuale della Parola alla sinagoga avesse ormai collaudato da tempo i suoi ritmi ebdomadari. L’annotazione «entro... nella sinagoga», pur significando immediatamente il materiale ingresso di Gesù e dei suoi compaesani nella «casa del raduno» (synagoghè), contiene sottesa la nozione di raduno teologico; cosicché parafrasando potremmo dire che in quel giorno Gesù e i Nazaretani si costituirono «in Sinagoga», ovvero «in Chiesa».
L’evangelista passa quindi a menzionare l’ufficio che Gesù viene a svolgere come lettore. Dicendo che egli si alzò per leggere, Luca non intende affermare che Gesù vi andò di sua iniziativa. In base alle conoscenze che abbiamo della prassi sinagogale dobbiamo convenire che fu invitato, prima a leggere e successivamente a prendere la parola, dal capo della sinagoga, cui incombeva il compito di presiedere la celebrazione, di vegliare sul suo svolgimento (cf. Lc 13, 14) e di designare lettori e omileti (cf. At 13, 15).
Il verbo greco che traduciamo abitualmente con leggere è anaginòskein, nel quale la preposizione anà- conferisce alla forma verbale il significato di «conoscere tornandoci su, conoscere di nuovo, ri-conoscere, conoscere esattamente, in profondità». Tale verbo ricorre nella grecità classica per designare, in contesto forense, la lettura di un documento di pubblico interesse da parte dell’ufficiale competente. Nella Bibbia greca il verbo traduce abitualmente l’ebraico qarsà’. Nel Nuovo Testamento indica perlopiù la lettura veterotestamentaria, e in contesto specifico designa la proclamazione cultuale.
Da questa considerazione semantica è lecito ritenere che il lettore, allorché proclama in assemblea cultuale, non può improvvisare la sua lettura, dal momento che è chiamato a «ri-conoscere» nel testo che legge ciò che già in antecedenza, attraverso una preparazione sia remota sia prossima, ha conosciuto.
I vv. 17.19 attirano l’attenzione sulla dignità del libro sacro, sottolineando ripetutamente i gesti della consegna e dello srotolamento del volume, prima della lettura, e del successivo arrotolamento e riconsegna, a lettura terminata. Tali annotazioni, che non sono circoscritte alla pura materialità delle azioni, rispondono ad una precisa intenzione teologica.
Parimenti teologico può essere considerato al v. 17 il ritrovamento del passo scritturistico che Gesù si appresta a leggere. A questo proposito va tuttavia fatto notare che l’interpretazione teologica presuppone l’interpretazione immediata, la quale non può prescindere dalla tecnica relativa alla lettura su rotolo. Questa infatti comportava la preliminare preparazione del rotolo da parte dell’inserviente, al fine di evitare al lettore all’ambone il disagio non indifferente di svolgere lui stesso un rotolo di vari metri di lunghezza per trovare il passo previsto dai cicli di letture e peraltro non facilmente reperibile nella disposizione grafica del rotolo. I termini tecnici «srotolare» e «arrotolare», riferiti al lettore, significano che questi, prima della lettura, si limitava a distanziare e, a lettura terminata, a riavvicinare i due cilindri su cui l’inserviente aveva avvolto le estremità del rotolo, in maniera tale da far trovare già pronta la pericope prevista. Pertanto, a livello immediato, l’espressione lucana può essere intesa nel senso di «trovò [preparato] il luogo ove era scritto».
Il racconto di Luca parla unicamente di una lettura tratta dai Profeti. Da altre testimonianze sappiamo invece che questa dovette essere preceduta dalla lettura di una pericope della Legge, ossia tratta dal Pentateuco. Così pure, la lettura di Isaia fatta da Gesù in quel giorno di sabato dovette avere una consistenza maggiore di quella che l’evangelista, ai fini della sua catechesi, si è di fatto limitato a riprodurre. Lo stesso dicasi per l’omelia che Gesù fece immediatamente dopo. Non è verosimile ritenere che si sia limitato a pronunciare una sola frase. Diciamo piuttosto che della lettura e dell’omelia Luca riproduce nel suo vangelo «il nucleo essenziale». Ora, nel leggere la pericope isaiana, Gesù dice: «Lo Spirito del Signore è su di me, perché mi ha-unto (= mi ha-fatto cristo/messia) per evangelizzare ecc.».
Per il fatto stesso che è proclamazione cultuale della Parola di Dio, la lettura è già attualizzazione. Prestando la sua bocca a Dio, il lettore Gesù, al pari di ogni altro lettore, ne attualizza la Parola, nel senso che lo pone in condizione di parlare attualmente alla comunità radunata. Il caso singolare per i destinatari del vangelo di Luca e per noi - come del resto per i Nazaretani - è che in quel giorno di sabato fu la Parola stessa a far parlare Dio Padre.
Nell’omelia Gesù non ha altro da fare che esplicitare l’attualizzazione avvenuta. Dicendo: «Oggi è-giunta-a-pienezza questa Scrittura nei vostri orecchi», egli riafferma in termini ancor più perentori il messaggio attuale della lettura. Parafrasando l’esplicitazione omiletica di Gesù, potremmo dire: «Oggi lo Spirito del Signore mi ha costituito messia per evangelizzare i poveri. Sì, proprio oggi questa Parola, prefigurativamente detta nei confronti dell’unto Isaia, è giunta a pienezza nei confronti dell’Unto che sono io e dei poveri che siete voi».
Nella liturgia della sinagoga di Nazaret la partecipazione dei sensi è eloquente. Se gli occhi di tutta la «Sinagoga» - ossia gli occhi di tutta quanta la «Chiesa radunata» - sono fortemente tesi a lui, sono gli orecchi che verificano il compimento della Scrittura. Occhi e orecchi sono tutta la comunità cultuale in atteggiamento di tensione relazionale a Dio che sta effettivamente parlando.
Il v. 22 esprime il consenso finale. Prescindendo dalla tematica del rifiuto con cui termina amaramente la grande pericope della venuta di Gesù a Nazaret (vv. 16-30), la constatazione del v. 22, soprattutto nella mente dell’evangelista, è assolutamente positiva e denota un’adesione incondizionata. I Nazaretani si scoprono positivamente sorpresi nel constatare l’identità personale tra questo predicatore che parla «parole di grazia» e il loro compaesano Bar-Yosèf. Il primo verbo «testimoniavano» (martyrèin) dice infatti tutta la carica di convinzione che è nel teste allorché, di sua iniziativa, si porta garante della veridicità di un fatto. Il secondo verbo «si meravigliavano» (thaumàzein) dice la reazione estatica dell’uomo dinanzi a quel prodigio (thàuma) che è la rivelazione del divino.
4. La proclamazione come attualizzazione della Parola di Dio
A ben considerare i vari modi di presenza della Parola di Dio, dobbiamo riconoscere che questa non esiste in pienezza se non nel momento della sua proclamazione cultuale in chiesa, o meglio davanti alla Chiesa. Infatti la Parola scritta esiste come documento, oggetto di conservazione, di studio e di riflessione personale; ma la Parola proclamata in assemblea cultuale esiste come Parola relazionale, come Parola viva, poiché proprio in quel momento esce dalla bocca di Dio, grazie appunto al ministero del lettore, per giungere agli orecchi e al cuore del popolo radunato.
Senza timore di entrare in conflitto con il numero settenario dei sacramenti, è possibile prospettare la lettura cultuale come attualizzazione quasi-sacramentale della Parola di Dio, e riguardare di conseguenza il ministero del lettore come segno efficace di una realtà salvifica che indubbiamente si compie. Nel momento in cui il lettore apre bocca, viene posta in atto una duplice presenza dinamica: attraverso l’efficacia del segno noi veniamo infatti ripresentati all’eterno presente di Dio che parla, e in pari tempo Dio viene calato nel nostro oggi, ricevendone un volto umano, il nostro volto. In tal modo tutto il peso teologico di quell’eterna Parola, che storicamente ha nutrito generazioni e generazioni di credenti, viene relazionato a noi e ricade nell’oggi in cui essa effettivamente ci nutre. Per questo diciamo che tale Parola di fatto non esiste, se non in rapporto ai nostri orecchi che la sentono uscire dalla bocca di Dio.
5. L’omelia come complemento d’attualizzazione
Nella sinagoga di Nazaret Gesù attualizza la Parola allorché interviene come lettore (cf. Lc 4, 16-22). E’ in quell’istante che lo Spirito del Signore è su di lui e lo costituisce Messia. Nell’omelia Gesù si limita ad esplicitare l’attualizzazione avvenuta. Compresa in tal modo, l’omelia non sminuisce l’importanza teologica delle letture, ma si dispone accanto ad esse come loro possibile e normale complemento, ossia come l’esplicitazione di un’effettiva attualizzazione. In caso contrario, bisognerebbe concludere che una celebrazione della Parola senza omelia rimane priva di dimensione attualizzante. Se così fosse, l’omelia dovrebbe aver luogo sempre. Ora, sappiamo che dall’omelia in determinate circostanze si può prescindere, senza che per questo sia compromessa la dinamica teologica della celebrazione stessa. Invece, dalla proclamazione della Scrittura non si può prescindere mai, poiché quella, e solo quella, è Parola attualizzante.
6. La preghiera dei fedeli come risposta supplichevole
A Dio, che ha parlato attraverso il ministero del lettore, l’assemblea risponde levandosi in piedi e supplicando con la preghiera comune, più nota come preghiera dei fedeli o preghiera universale. Si tratta di un elemento liturgico di primaria importanza.
Il riferimento obbligato per la preghiera dei fedeli è la testimonianza di Giustino, il quale ne parla, prima nel quadro di una liturgia battesimale, e subito dopo nella descrizione della liturgia che ha luogo la domenica. Nella prima descrizione precisa che, dopo il battesimo, «noi facciamo comuni suppliche con tensione per noi stessi e per l’illuminato». Nella seconda informa che, dopo le letture e l’omelia, «ci alziamo insieme ed eleviamo suppliche». E’ importante notare che in entrambi i casi la preghiera dei fedeli viene qualificata come suppliche (in greco: euchài), cioè preghiere di domanda.
Agostino parla spesso della preghiera dei fedeli e la descrive con svariate espressioni, quali «preghiere della Chiesa» (orationes Ecclesiae), «preghiere quotidiane» (quotidianae orationes), «preghiere che la Chiesa ebbe e sempre avrà dai suoi inizi fino alla fine del mondo» (orationes quas semper habuit et habebit Ecclesia). Con quest’ultima affermazione Agostino di Ippona faceva una profezia che, se non fosse intervenuta la riforma liturgica del Vaticano II, rischiava proprio di non avverarsi.
La preghiera dei fedeli, pur essendo partita a gonfie vele agli inizi della Chiesa, conobbe nella prassi romana una lunga eclissi. Mutuando il linguaggio del sogno di Faraone, diciamo che ai cinque secoli di «vacche grasse e spighe piene» successero quindici secoli di «vacche magre e spighe vuote», che divorarono (cf. Gen 41) la gloriosa prassi della preghiera dei fedeli, al punto che praticamente scomparve dalla liturgia romana. Sopravvissero due significative eccezioni: mentre la liturgia ufficiale la prevedeva solo più al Venerdì santo, la tradizione popolare di alcune regioni quali la Francia, la Polonia, la Germania e la stessa Italia - la prolungò attraverso quelle suppliche che vanno sotto il nome tecnico di prières du prône, cioè preghiere che si fanno dopo il sermone. A parte queste due sopravvivenze - ufficiale l’una e ufficiosa l’altra -, a cominciare dal VI secolo la preghiera dei fedeli svanì nel nulla.
Felicemente ripristinata dalla costituzione Sacrosanctum Concilium n. 53, essa è stata paragonata a «una perla che era andata perduta e che ora era stata ritrovata in tutto il suo splendore». Se nella liturgia romana è doveroso parlare di «ritrovamento», bisogna dare atto che nelle liturgie orientali tale elemento non è mai venuto meno.
7. La «perla ritrovata»: ma come valorizzarla?
Un documento della riforma liturgica del 1966 delinea le caratteristiche della preghiera dei fedeli nei seguenti termini: «Questa preghiera è come il frutto dell’azione della Parola di Dio nell’anima dei fedeli: da essa istruiti, stimolati e rinnovati, tutti insieme si alzano in piedi ed elevano la preghiera per le necessità di tutta la Chiesa e del mondo. Perciò, come la comunione sacramentale è la conclusione e, per quanto riguarda la partecipazione del popolo, il culmine della Liturgia eucaristica, così la preghiera comune, secondo antichissime testimonianze, si presenta come la conclusione e, dal punto di vista della partecipazione dei fedeli, il culmine di tutta la Liturgia della Parola… Tuttavia, sotto un certo aspetto, può essere considerata come il cardine tra le due parti della messa; infatti conclude la Liturgia della Parola, nella quale sono state ricordate le opere mirabili di Dio e la vocazione dei fedeli; e nello stesso tempo conduce per mano alla Liturgia eucaristica, esprimendo alcune fra quelle intenzioni sia universali sia particolari per le quali deve essere offerto il sacrificio».
Esistono oggi numerosi prontuari di preghiere dei fedeli elaborate per essere in consonanza con le letture dei cicli liturgici. La produzione editoriale degli ultimi anni conferma che si tratta di sussidi molto richiesti. Se però i sussidi sono richiesti, non dimentichiamo che la loro redazione non può essere affidata a libere mode innovative, ma deve attenersi alla costante tradizione dell’eucologia d’Oriente e d’Occidente.
Quali saranno i criteri che devono presiedere ad una corretta formulazione della preghiera dei fedeli? Domandiamoci anzitutto chi sia il destinatario, se cioè la si debba rivolgere al Padre oppure al Figlio. A tale quesito risponde il detto antico che recita: «Cum altari assistitur, semper ad Patrem dirigatur oratio»; ciò significa che la preghiera dell’altare, ovvero la preghiera liturgica, dev’essere sempre rivolta al Padre. Invece l’improvvisazione odierna ci mette di fronte, con una frequenza che vorrebbe divenire norma, a preghiere dei fedeli troppo spesso indirizzate ali Figlio.
Quanto al modo di formulare le intenzioni, è bene ricordare che le intenzioni diaconali sono di per sé propositive, nel senso cioè che il diacono - o chi lo sostituisce - si limita a proporre all’assemblea le intenzioni per cui pregare. Tale formulazione, ben rappresentata da pressoché tutti i formulari contenuti nell’Orazionale allegato al Messale italiano del 1983, distingue chiaramente tra proposta d’intenzione e supplica vera e propria. Da questa configurazione delle intenzioni si discosta la redazione delle intenzioni della preghiera dei fedeli che figura nell’ufficio delle Lodi e dei Vespri , adottata per venire incontro alle esigenze della recita individuale; ma non dobbiamo dimenticare che si tratta di una deroga alla norma.
Il rapporto tra le intenzioni diaconali e i successivi interventi dell’assemblea è analogo al rapporto che corre tra i due interventi del presidente, cioè tra la monizione introduttiva e l’orazione conclusiva. Mentre la monizione introduttiva e le intenzioni diaconali invitano ad innalzare la preghiera, questa si concretizza e prende corpo negli interventi oranti che l’assemblea eleva a Dio e che la colletta finale riassume.
In altri termini: il presidente, collegandosi possibilmente con la tematica delle letture, invita l’assemblea a pregare; quindi il diacono propone le intenzioni di preghiera (a) per le necessità della Chiesa, (b) per i governanti e la salvezza del mondo, (c) per quanti si trovano in difficoltà, (d) per la comunità locale, e le conclude generalmente con l’espressione «Preghiamo!» rivolta all’assemblea; questa risponde ad ogni invito con una formula di supplica; interviene in fine il presidente che, rivolgendosi a Dio Padre, chiude la preghiera.
Come rispondere all’invito diaconale? Dalle testimonianze antiche risulta che la risposta dell’assemblea - detta spesso, ma impropriamente, «ritornello» era nella Chiesa antica il Kyrie eleison.
La pellegrina Egeria, nel raccontare lo svolgimento dell’ufficio vespertino che si teneva a Gerusalemme, nella basilica della Risurrezione, annota: «... mentre [il diacono] pronunzia i nomi legati alle singole intenzioni, vi sono sempre moltissimi piccini, che rispondono sempre "Kyrie eleison", che noi traduciamo: "Miserere Domine"; le loro voci Sono infinite».
E’ verosimile immaginare che, nel IV secolo, i mistagoghi della Chiesa di Gerusalemme tenessero ai piccoli press’a poco questo discorso: «Quando si faranno le letture, voi non potrete andare a leggere, perché siete "piccini". Non dovrete neppure preoccuparvi di comprendere, perché le letture dei profeti, e specialmente quelle di san Paolo, sono difficili. Pazientate, in attesa che finiscano. Ovviamente presterete attenzione al vangelo, perché le parabole e i racconti dei miracoli sono più facili. Ma soprattutto state attenti a quando si alzerà il diacono N. [e ne dicevano il nome]; allora vi alzerete anche voi e, ogni volta che egli avrà finito di parlare, gridate con le vostre voci squillanti "Kyrie eleison"».
Era questo un discorso facile, ben inculturato nelle menti dei piccoli, un discorso pastoralmente valido, che si traduceva nella proiezione delle loro voci all’infinito, quella proiezione che Egeria si compiace di annotare.
Parallelamente alla testimonianza di Egeria, le Costituzioni Apostoliche sottolineano la risposta corale dei bambini alle intenzioni diaconali nel quadro della prima messa presieduta da un vescovo neo-consacrato. Leggiamo: «Quando [il vescovo] avrà terminato il sermone dottrinale mentre tutti si alzano in piedi, il diacono in un luogo elevato proclami: "Nessuno dei simpatizzanti rimanga! Nessuno degli infedeli!». E fattosi silenzio dica: "Pregate, catecumeni". E tutti i fedeli con attenzione preghino per loro, dicendo: "Kyrie eleison". Il diacono allora supplichi su di loro, dicendo: … [segue una lunga serie di invocazioni per i catecumeni]. In tutte quelle cose che il diacono proclama, come già abbiamo detto, il popolo risponda: "Kyrie eleison", e prima di tutti i bambini».
In rapporto all’intervento dei bambini e al ruolo specifico del Kyrie eleison, queste due antiche testimonianze, peraltro contemporanee, si confermano a vicenda.
Oggi sarebbe bello mantenere in determinate circostanze questo antico grido di supplica, vale a dire il Kyrie eleison, che alla luce della soggiacenza semitica significa: «Signore, da’ libero sfogo alle tue viscere paterne e materne in nostro favore», cioè «lasciati commuovere per noi». Al posto del Kyrie eleison si potrà dire «Ascoltaci, Signore!», oppure una di quelle numerose varianti che sono opportunamente proposte. Converrebbe però evitare formule troppo lunghe, che l’assemblea fatica a memorizzare. D’altronde si sa per esperienza che, quando ci impegniamo a memorizzarle, finiamo per non prestare attenzione alle singole proposte di intenzione.
Sfogliando taluni sussidi, si nota come, accanto a formule felici, ve ne siano altre del tutto anomale, giacché prive di riscontro nella tradizione eucologica. Ne citiamo alcune a modo di esempi da non imitare: «Sei tu, Signore, la nostra salvezza!»; «Noi confidiamo in te, Signore!»; «In te, Signore, noi speriamo!»; «Signore, tu hai parole di vita eterna!»; «Noi crediamo al tuo amore, o Padre!»; «Noi ti rendiamo grazie, Signore!»; «Forte e grande è il tuo amore per noi!»; «Eterna è la tua misericordia!»; «Tu sei la via, la verità e la vita!»; «Nella tua volontà è la nostra pace!»; «Mia forza e mio canto è il Signore!»; «Signore, tu sei la verità che ci fa liberi!».
Se Giustino e i mistagoghi della Chiesa antica ci dicono che la preghiera dei fedeli è una supplica, lasciamo che sia una supplica, e non trasformiamola né in una professione di fede, né in una effusione di sentimenti. A Dio che ha parlato attraverso il ministero del lettore, l’assemblea risponde supplicando. Impariamo a supplicare - in questo momento contentiamoci di supplicare! -, per chiedere a Dio Padre la grazia necessaria a tradurre in pratica, nel concreto della nostra esistenza e dei nostri impegni, quanto la sua Parola ci ha fatto comprendere.
La preghiera dei fedeli avrà un futuro - e siamo certi che lo avrà - nella misura in cui, nel formularla, sapremo tenere vivo il collegamento con le letture. Oggi, purtroppo, le intenzioni risultano talvolta slegate da qualsiasi aggancio con la Parola di Dio appena proclamata. Spesso sono intenzioni che non riescono a prendere quota, proprio perché limitate a interminabili esposizioni di esperienze personali o di gruppo. I contenuti a dimensione orizzontale sono certo importanti; ma non possiamo dimenticare che, nel momento cultuale, essi vanno relazionati verticalmente a Dio.
Pertanto, se vorremo uscire da una prospettiva di preghiera dei fedeli fatta unicamente di esperienze orizzontali e di intenzioni che a volte favoriscono più la curiosità che non la preghiera e che ci stanno imponendo per assuefazione una stereotipia povera, se vorremo entrare in una prospettiva di preghiera dei fedeli intesa come culmine dinamico della liturgia della Parola, dovremo preoccuparci di fondarla sul messaggio appena recepito dalle letture. Solo allora la nostra preghiera sarà orizzontalmente e verticalmente equilibrata; solo allora essa sarà aderenza a Dio, che raduna e che parla, e in pari tempo aderenza all’uomo, che nel concreto del suo divenire non
può fare a meno della Parola e si raduna appositamente per ascoltarla.
In Costa-Est del Madagascar esiste il detto che dice: «Un discorso che non ottiene risposta sbatte a terra la santità di colui che l’ha fatto». Ora, a Dio che ci ha parlato attraverso la proclamazione delle letture noi dobbiamo assolutamente rispondere con il nostro discorso, un discorso orante, con il quale chiederemo che ci aiuti a mettere in pratica quanto ci ha fatto comprendere. Senza questa nostra risposta supplichevole il discorso di Dio è come se perdesse credito. Dobbiamo essere grati alla riforma liturgica che ci ha consentito finalmente di dare a Dio quella risposta che, nella liturgia della Chiesa d’Occidente, da mille e cinquecento anni pazientemente attendeva.
8. Questionario di riflessione sulla Liturgia della Parola: per lo studio personale e per il lavoro di gruppo
1. La Parola di Dio, pur essendo una sola e medesima Parola, ha in noi due risonanze qualitativamente diverse a seconda che la accostiamo individualmente attraverso la nostra lettura personale o nel momento liturgico. Che cosa rappresenta per i fedeli della tua comunità la Parola proclamata «in Chiesa», ossia proclamata ad una concreta assemblea cultuale?
2. I nostri cristiani - nelle loro rispettive sensibilità di laici, o di sacerdoti, o di religiosi, o di giovani, o di persone mature - riescono a comprendere la dinamica dei segni, dei gesti e dei sensi nel momento liturgico, oppure la ritengono valida solo per un’assemblea di persone semplici? Quali considerazioni potremmo fare a proposito di libro, di ambone, di lettore, di occhi intenti a guardare, di orecchi tesi ad ascoltare (cf. Ne 8, 3.5; Lc 4, 20-21)?
3. Nella tua parrocchia come si svolge la proclamazione delle letture? Chi legge? Da dove legge? Legge sul lezionario o sul foglietto? Come legge? Come sta quando legge? Come annuncia la lettura? Dà l’impressione di essersi preparato? Sa assumere il giusto tono di voce? Sa servirsi del microfono? Quanti sono i lettori? Si fa ricorso a lettori-ragazzi, a lettori-infanti?
4. I foglietti della domenica cortocircuitano la ministerialità del lettore. Se la tua parrocchia o la tua comunità si serve di questi sussidi, li utilizza per quello che realmente possono dare? S’insegna ai fedeli a servirsene, non durante la celebrazione, ma eventualmente lungo la settimana per richiamare alla memoria quanto hanno ascoltato in chiesa?
5. La tua comunità ha mai sentito parlare di lettori istituiti? Che cosa pensi in proposito? E lettori di fatto… sono preparati sufficientemente?
6. Nella tua chiesa l’ambone e rispettato quale segno sacrale della Parola di Dio? E’ ben visibile? E’ disposto secondo le direttive della riforma liturgica? E’ un ambone fisso, o un semplice leggio mobile?
7. La tua comunità parrocchiale sa cantare il salmo responsoriale e l’Alleluia, oppure li sa solo leggere come se fossero delle letture?
8. Cosa ne pensi a riguardo dell’omelia? Il tuo parroco possiede un’appropria la tecnica omiletica, che aiuta i fedeli a trasformare l’ascolto della Parola di Dio in risoluzioni di vita? Si ricorda che l’omelia non è né una lezione di esegesi, né un fervorino moraleggiante, né tanto meno un’analisi socio-politica?
9. Dopo aver ricordato che l’omelia deve consistere nella spiegazione «di qualche aspetto delle letture della sacra Scrittura», la normativa rubricale aggiunge: «o di un altro testo dell’Ordinario [della Messa]» (OGMR 65). Come reagisci all’idea di un’omelia mistagogica, ossia di un’omelia «per ritus et preces»? Quali richieste e quali suggerimenti daresti a un sacerdote disposto a proporre, in determinati tempi e momenti, questo genere di omelia?
10. Nella tua chiesa si fa abitualmente la preghiera dei fedeli, oppure ci si contenta di farla unicamente di domenica, quasi si trattasse di un lusso festivo?
11. Nella tua parrocchia ci si preoccupa della qualità delle intenzioni e della qualità della risposta orante? Oppure si pensa che in chiesa tutto va bene?
12. Le intenzioni della preghiera dei fedeli vengono lette, oppure sono improvvisate sul momento? Da chi vengono pronunciate? L’invocazione proposta viene scelta con cura, in modo che si adatti a tutte le intenzioni di preghiera?
13. Che cosa si potrebbe proporre per valorizzare al meglio questa perla preziosa, che nella liturgia romana è andata perduta per quindici secoli, e che la riforma liturgica (cf. SC 53) ci ha ridonato in tutto il suo splendore?