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Ministri straordinari

1695.gifLa cena del Signore. Genesi e sviluppo del rito

Introduzione

La Chiesa custodisce due immense ricchezze, a lei affidate affinché possa essere nel mondo lu­ce di salvezza per ogni uomo: la Parola e l’Euca­ristia. Il Vangelo che rivela al mondo l’amore di Dio e che converte il cuore degli uomini e l’Eu­caristia, culmine dell’incontro salvifico con Dio attraverso il mistero pasquale e sorgente inesau­ribile di amore e di vita per l’umanità intera. Questi inestimabili doni la sostengono nel cam­mino della storia e, nel contempo, sono i sublimi strumenti con cui trasforma la vita del mondo ri­conducendola con la forza dello Spirito Santo, che la anima e la vivifica, verso la meta che è Cristo Signore.

Il cammino della Chiesa, pur essendo irto di difficoltà e di prove, di dolore e di sofferenze, è sempre ricolmo della gioia del Risorto: la luce incomparabile della Pasqua la illumina dall’inter­no nutrendola di luce gioiosa che promana in­cessantemente dall’Eucaristia, speranza e vita del mondo. Senza questo suo dono di grazia nessu­na comunità cristiana può sopravvivere, nessun battezzato può mantenersi fedele. La Chiesa vive della caritas, dell’amore che scorre con forza nelle sue membra attraverso la grazia che lo Spi­rito effonde e che, attraverso i sacramenti, pene­tra in profondità nel cuore dei battezzati. L’Euca­ristia rinsalda la Chiesa rendendola unico corpo, mistero di comunione e di amore, presenza lu­minosa del Risorto. Ogni comunità cristiana, così solidamente rafforzata nella sua profondità, vive nel mondo come segno di speranza, soprattutto per chi ha bisogno di quella forza, per chi vive nella sofferenza e nella necessità, per chi vive nella prova quotidiana della malattia e del dolo­re e che spesso vive tutto questo in un forzato isolamento, impossibilitato a vivere in comunio­ne tangibile con il resto della comunità cristiana.

Gli ammalati che trascorrono la loro vita nella solitudine della loro casa, i loro stessi parenti che ne condividono il dolore e che sono an­ch’essi costretti a trascurare la messa domenica­le, i momenti comunitari della preghiera, le gioie delle feste cristiane. La Chiesa non ha mai di­menticato l’importanza di essere vicini a tutti co­loro che, come battezzati, sono in comunione con la comunità, pur non potendo condividerne l’assemblea. Tra i suoi ministeri ha sempre tenu­to presente quelli che rispondono all’esigenza autentica di tutti coloro che, pur con i loro impedimenti, vogliono ugualmente partecipare all’Eu­caristia della comunità.

Il ministero straordinario della comunione ri­sponde proprio a questa esigenza e rappresenta la risposta amorosa della comunità cristiana a coloro che desiderano vivere la comunione nel­ l’unico Corpo e nell’unico Sangue del Signore. Le sue caratteristiche peculiari non devono però essere dimenticate e travisate.

Innanzitutto è un ministero, ovvero un com­pito per il bene comune, che la Chiesa affida ad alcuni battezzati. Come ogni ministero non è un diritto, ma un dono: nessun battezzato può arro­garsi il diritto di ricevere un ministero. La Chiesa discerne un carisma dello Spirito riconoscendo­ne l’autenticità e quindi conferisce un ministero corrispondente perché l’intera comunità possa fruire delle grazie di quel carisma. La parola mi­nistero ci ricorda inoltre che chi lo riceve è chia­mato ad amministrare beni di altri, non i propri, a essere sempre timoroso di vedersi affidare una ricchezza che non gli è propria e di cui dovrà rendere conto. Si tratta di vivere con amore il dono ricevuto e di gioire con gratitudine perché siamo chiamati a portare l’Eucaristia ai fratelli sofferenti e ad essere strumenti della comunione della Chiesa.

Inoltre è straordinario, cioè non è un mi­nistero ordinario della comunione, come succede per i vescovi, i presbiteri e i diaconi, ma è un ministero che straordinaria­mente viene conferito a coloro che collaborano con il parroco sovvenendo ad alcune specifi­che necessità della comunità cristiana, in spe­cial modo alla comunione dei battezzati malati. È una possibilità stupenda di vivere in profon­dità il nostro battesimo inserito nella ministe­rialità della Chiesa, amplificando i ministeri or­dinari attraverso l’esercizio di quello straordi­nario. Ciò significa che dove ci sono i ministri ordinari, quelli straordinari non agiscono, in quanto il loro compito è proprio quello di so­stituirli quando non ci sono o sono impediti dal poter esercitare il loro compito.

Infine è un ministero di comunione. Significa che con il suo esercizio la vita di comunione della Chiesa si accresce e si rafforza, significa che i Ministri straordinari della comunione sono custodi dell’amore e della comunione della loro comunità cristiana. Saranno modelli di fedeltà e di preghiera, saranno sempre disponibili a pacifi­care, congiungere, unire i cuori, colmare i dissi­di, dissipare le ombre. Essere ministri della co­munione significa essere coerenti con il mistero pasquale che celebriamo testimoniandolo con i nostri gesti. Le azioni di un ministro devono sempre mostrare, come in trasparenza, l’azione di Colui che rappresenta; portare ad un ammala­to l’Eucaristia significa essere presenza d’amore autentico ripetendo il gesto di Colui che ha dato la sua vita per noi.

Lo stile di vita del ministro deve dunque es­sere in consonanza con il ministero che esercita soprattutto per quanto riguarda lo spirito di pre­ghiera e la santificazione personale.

Il ministro è come una lampada posta sul lucernario che de­ve dare luce a tutta la casa. La sua vita, spirituale e familiare, deve essere un punto di riferimento per ogni battezzato che deve trovare in lui un fratello con cui condividere le difficoltà e le gio­ie della fede e soprattutto un sostegno su cui poggiare la propria debolezza fisica e spirituale.

Tutto ciò non deve scoraggiarci ma sicura­mente deve porci in un atteggiamento di prudenza e di rispetto nei confronti del sacramen­to che amministriamo. Il rispetto cristiano ver­so Dio e le sue cose viene chiamato “timore di Dio” che non significa paura di Dio, cosa impossibile dopo aver conosciuto il suo infinito amore per noi, ma rispetto filiale nei confronti di Colui che ci dona la sua grazia e ci chiede di amministrarla.

Viviamo con questo spirito il nostro ministero nella Diocesi di Frosinone – Veroli – Ferentino, questa meravigliosa co­munità cristiana in cui il Signore ci ha chiamati a servirlo.

Sentiamoci grati di essere stati chiama­ti dal Signore ad aiutare i fratelli delle nostre comunità parrocchiali, trasformiamo la nostra vita plasmandola ad immagine dell’Eucaristia che è affidata alle nostre mani, nella fede in Colui che ci ama donandoci la sua Vita.

Dentro questa prospettiva si capisce la normativa diocesana per il Ministero Straordinario della Comunione. Indicazioni preziose che intendono sostenere questo bellissimo servizio ecclesiale fornendo quell’aiuto e supporto che prende più idoneo il ministero affidato.

 

Genesi e sviluppo del rito della cena del Signore

Chi fosse abituato a una liturgia come quella dell’ultima cena, nel cenacolo, o a quella descritta nel libro VII delle Co­stituzioni apostoliche, farebbe fatica a ritrovarsi in una li­turgia come quella, ad esempio, del Pontificate di Gugliel­mo Durando. Effettivamente la liturgia eucaristica è diffe­rente a seconda dei vari secoli e delle differenti chiese. Biso­gna dunque riconoscere che se si vuole trattare della liturgia eucaristica è necessario fare un’opera storica.

Lungo i secoli la liturgia eucaristica non ha mai cammina­to da sola: è sempre stata accompagnata dalle interpretazio­ni che nelle varie epoche le sono state date, al punto che, talvolta, la celebrazione è stata trasformata per corrispondere meglio all’interpretazione. L’interpretazione, ossia la teolo­gia sacramentaria, nasce dal rito, ma, trasformatasi nel tem­po, si riflette sul rito e lo riforma. Non si può trattare della liturgia eucaristica senza affrontare contemporaneamen­te l’interpretazione che ne è stata data lungo i secoli. Per questo motivo dobbiamo accostarci sia al dato liturgico, sia alla sua interpretazione nella storia ossia la teologia eucaristica.

Prima vogliamo affrontare il tema riguardante l’origine e lo sviluppo dell’eucaristia e successivamente la teologia eucaristica a seconda dei vari autori, Padri della chiesa e medievali, che ho scelto co­me esponenti caratteristici delle maggiori tappe dello svilup­po del pensiero sull’eucaristia nella storia. Quando si sceglie di presentare il pensiero di un autore si sceglie di escluderne un altro: è fatale; mi rendo conto che ho dovuto escludere autori che sono di primo piano!
Che cos’è dunque l’eucaristia? L’eucaristia è imitazione dell’ultima cena, e questa è figura e annuncio della passione: si tratta di due dati costanti nelle preghiere eucaristiche della chiesa delle origini. Gli stessi dati hanno guidato la riflessione dei Padri della chiesa dei primi quattro secoli. In quest’epoca, dunque, la teologia si è mossa all’unisono con la liturgia, conservando le stesse concezioni e le stesse categorie interpretative. Qui la concezione dell’eucaristia è costantemente affermata come obbedienza al mandato di Cristo, «Fate questo in memoria di me», e imitazione del rito del cenacolo. Allo stesso modo, tutti gli elementi del rito saranno imitazione dei vari elementi presenti nella celebrazione del cenacolo: il pane, il vino, la preghiera eucaristica e il sacerdote stesso. Antitypa[1] è  il vocabolario che troviamo nelle più arcaiche liturgie per designare il pane e il vino della cena eucaristica. Per rendere ragione di questo dato e per comprendere questa terminologia è necessario elaborare un’interpretazione tipologica della cena eucaristica, dato che il termine antitypos, e il suo correlativo typos, hanno la loro origine nella tipologia che, nell’epoca delle origini cristiane e nell’epoca patristica, è il principale sistema di interpretazione delle Scritture. Questa terminologia viene utilizzata in due ambiti diversi ma strettamente collegati: nell’interpretazione delle Scritture e nella descrizione della liturgia.
L’uso di Antitypa per designare il pane e il vino dell’eucaristia significa che questi elementi hanno la loro corrispondenza nell’ultima cena che è concepita come modello[2]. Anche se la terminologia non è fissa ma fluttuante, l’ultima cena è il tipo mentre l’eucaristia della chiesa è l’antitipo: l’antitipo corrisponde al tipo. La nozione di imitazione (tipo-­antitipo) svilupperà quell’interpretazione dell’eucaristia che, facendo uso di categorie filosofiche, descriverà il valore on­tologico del sacramento del corpo e sangue di Cristo.
L’eucaristia come figura del corpo e del sangue di Cristo e come figura della sua morte, è al centro della trattazione patristica e viene passata alle epoche successive che mal comprenderanno il vocabolario della sacramentalità che era sta­to formulato in modo figurale e tipologico. Alla concezione figurale, ormai declassata ad allegoresi, succede una nuova concezione basata sulla nozione di presenza. Elaborata con ampiezza nel Medioevo, questa nozione è divenuta il modo per antonomasia di formulare la teologia dell’eucaristia. Il tema della presenza entra nel magistero della chiesa e ha il suo apice nel concilio di Trento.
Con il concilio Vaticano II è stata avviata una profonda riforma liturgica che ha attinto alle fonti di epoca patristica per preparare nuove preghiere eucaristiche da inserire nel Mes­sale. Contemporaneamente, per interpretare il «sacrificio» eucaristico è stata usata la categoria della repraesentatio che, però, pare essere solo una variante della nozione di praesen­tia, applicata agli eventi della redenzione.
La domanda finale, ci porremo, è se il cristianesimo di oggi può comprendere l’eucaristia in base alle categorie figurali e tipologiche delle origini cristiane, con­servando loro la stessa accezione di allora: typos-antitypos, figura corporis, similitudo sanguinis, figura mortis eius, sa­cramentum, ecc. La risposta è positiva: nonostante il diver­so ambiente culturale, e la differente cultura filosofica di ri­ferimento, la ricerca biblica è arrivata a interpretare l’ultima cena come figura e annuncio della passione, dando a questa concezione un valore ontologico non diverso da quello dell’epoca patristica, anche se viene espresso in modo molto di­verso senza ricorrere alle categorie dell’epoca patristica.

I. Sacrifici dell’Antico Testamento e pasto rituale

Per illustrare l’eucaristia cristiana, l’Antico Testamento può essere utilizzato in più modi, che sono riconducibili a due dif­ferenti metodi: il metodo tipologico e il metodo storico.
Con il metodo tipologico si illustra come l’antica legge sia figura della nuova, e, di conseguenza, in che modo abbia il suo compimento nelle realtà neotestamentarie. In questa ot­tica anche la celebrazione eucaristica si presenterà come rea­lizzazione dei tipi anticotestamentari, come Melchisedech, la manna e i vari tipi di sacrificio. Questo metodo è particolar­mente adatto per illustrare l’eucaristia nel suo valore salvi­fico[3].

Con il metodo storico si mettono in luce i rapporti tra la liturgia neotestamentaria e i riti anticotestamentari, cercan­do di mostrare come la liturgia cristiana derivi da quella giu­daica, con quali forme e strutture rituali, attraverso quali vie e con quali trasformazioni.

L’eucaristia cristiana nasce dall’ultima cena di Gesù, che è tributaria del quadro rituale delle cene giudaiche. Anzitut­to dovremo esaminare quale sia l’origine del pasto rituale giu­daico, poi metteremo in evidenza il legame della liturgia del pasto giudaico con la liturgia della cena del Signore. Il pun­to di partenza, dunque, sarà il rito giudaico del pasto, lascian­do da parte la teologia che gli viene attribuita, dato che il nesso è tra le due strutture rituali, e questo nesso è indipen­dente da considerazioni teologiche. L’indagine sul pasto ri­tuale giudaico e sulla sua origine ci mette in contatto con l’a­rea dei sacrifici giudaici, e quindi dovremo anzitutto occu­parci di questi ultimi.

1. Abbattimento degli animali in Dt 12, 15
Fino al Deuteronomio ogni abbattimento di animali ave­va carattere rituale e quindi rientrava nell’area del sacrificio; solo dopo Dt 12, 20-25 abbiamo la distinzione tra l’abbatti­mento per il sacrificio e l’abbattimento per la semplice man­ducazione. L’abbattimento rituale si compie sull’altare[4].

La seconda parte del libro del Deuteronomio si divide in quattro sezioni:

1) il culto (12, 1 – 16, 17);

2) l’organizzazione dello Stato (16, 18 – 20, 20);

3) il diritto familiare (21, 1 – 23, 1);

4) leggi di purità, leggi sociali e diverse.

Questo insieme si chiama Codice deuteronomistico e costituisce un’unità che fa corpo con il resto del libro. Le leggi sono impiantate su motivazioni teologiche, come: il dono del paese di Canaan, la benedizione promessa a Israele, la liberazione dall’Egitto. Se l’impianto teologico è molto ben fatto, la determinazione e la qualità giuridica delle leggi è molto approssimativa, da­to che non si tratta di un codice e neanche di una costituzio­ne, nel senso odierno dei termini. Forse è meglio dire che que­sto codice, «come il resto del libro, è una catechesi, ma orien­tata verso le applicazioni pratiche»[5] che, conseguentemen­te, comportano anche una valenza giuridica. A prima vista il Deuteronomio sembra parlare in astratto per un’epoca in­determinata ma, a ben vedere, la collocazione storica è pre­cisa: Israele è uno Stato a base nazionale come tutti quelli che apparvero in Siria-Palestina alla fine del II millennio: Edom, Moab, Ammon, Fenicia, Aram, ecc. Questi Stati si presentano caratterizzati da un vivo sentimento nazionale e da un’organizzazione democratica. Lo Stato è monarchico e tende a centralizzare la vita religiosa e civile del paese: tutto ciò che è legato al nomadismo tende a sparire, soppiantato dalle istituzioni della sedentarietà. Il Deuteronomio riflette questa situazione di passaggio propria del tempo in cui, ad esempio, l’evoluzione verso la centralizzazione del culto non è ancora terminata (12, 8-12; 18, 1-8). L’ideale di questo pro­getto del Deuteronomio può essere riassunto in due voci: fe­deltà all’alleanza e unità. In questa prospettiva, il progetto diventa concreto col cercare di colmare il fossato che separa l’Israele religioso dall’Israele politico. Infatti gli Stati di Giuda e di Israele non hanno più molto in comune con la lega di tribù alla quale si indirizzavano le alleanze e le leggi. Il Co­dice deuteronomistico deve assumere le varie istituzioni civi­li e metterle al servizio del suo ideale jahwista, ossia di tutta la storia del popolo di Dio. Il Codice approva nuove istitu­zioni che aumentano il potere dello Stato a danno delle anti­che autonomie locali, con lo scopo di rafforzare l’unità del popolo e farne una nazione solida e organizzata.

Ecco la prospettiva che regge la nuova legislazione del culto che, a causa di questa, dovrà essere accuratamente control­lato e centralizzato. Gli antichi santuari locali ove si è lenta­mente manifestato e imposto il jahwismo cesseranno di esse­re riconosciuti e il culto «legittimo» potrà essere celebrato solo nel santuario centrale. Il santuario è legittimo per due caratteristiche:
a) è stato scelto da Jhwh;
b) è unico.

A parti­re da Ezechia il santuario unico non poteva essere che quello di Gerusalemme, ma il Deuteronomio resta nel vago, forse per non ratificare il grande ruolo che la dinastia davidica si è dato. La riforma di Ezechia non può spiegarsi che per l’e­sistenza di una precedente tradizione già parzialmente codi­ficata (2Re 18, 4-22; 2Cr 31, 1). Dall’VIII secolo a.C. esiste una corrente di pensiero, della quale sono portatori alcuni profeti, decisamente favorevole all’unicità del santuario (Am 4, 4-5; Os 4, 13-15) con l’esplicita condanna degli altri luoghi di culto. Questa lunga premessa è stata necessaria per poter comprendere l’evoluzione dell’organismo sacrificale in Israele.

Nella concezione della liturgia propria del Deuteronomio, il sacrificio tipo è il «sacrificio di comunione», costituito dal­ l’uccisione della vittima, dalla sua dissezione in varie parti.
Alcune di queste verranno bruciate sull’altare, altre date ai sacerdoti e altre ancora verranno date agli offerenti perché ne mangino in un «pasto sacro» familiare, all’insegna della gioia e dell’azione di grazie[6]; la parte che spetta agli offe­renti è la più consistente.

Questi dati hanno un’importanza non solo di tipo teologi­co, ma soprattutto di tipo storico. Il sacrificio di comunio­ne, con la sua ritualità, è il modo usuale per praticare l’abbattimento degli animali, ma con la centralizzazione del luogo di culto inizia un nuovo periodo della storia del sacrificio giudaico: compare l’abbattimento non rituale degli animali.
Ecco la norma del Deuteronomio: «Guardati bene dall’offrire i tuoi olocausti in qualunque luogo avrai visto. Offrirai, invece, i tuoi olocausti nel luogo che il Signore avrà scelto in una delle tue tribù: la farai quanto ti comando. Ogni volta, però, che ne sentirai bisogno, potrai uccidere animali e mangiarne la carne in tutte le tue città, secondo la benedizione che il Signore ti avrà elargito» (12, 13-15). In questo testo possiamo vedere come e perché l’abbattimento del bestiame diventa un fatto profano, lecito in ogni circostanza, senza bisogno dei riti sacrifi­cali; indirettamente, questo testo trasmette anche un’altra in­formazione: prima del Deuteronomio ogni abbattimento di bestiame, anche a scopo puramente alimentare, era un atto sacro, retto da norme liturgiche. Nelle società nomadi non si poteva uccidere un animale domestico e mangiarlo senza un atto liturgico. Ogni macellazione era un sacrificio[7].
Il ri­to consisteva essenzialmente nell’offrire il sangue, simbolo della vita (12, 24), in una effusione sull’altare o anche sulla pietra[8].

Con il Deuteronomio il santuario è unico: ne sarebbe se­guito che ogni famiglia, bisognosa di carne per il pasto, avreb­be dovuto recarsi in pellegrinaggio al santuario e lì uccidere ritualmente l’animale. La cosa sarebbe stata veramente im­proponibile. Le possibili soluzioni erano due:

a) proibire di mangiare carne al di fuori dei sacrifici del santuario legitti­mo, così come decide il Codice di Santità in Lv 17, 3-4;

b) ammettere la macellazione come atto profano.
Il Deutero­nomio sceglie questa seconda possibilità riconoscendo così l’autonomia del mondo profano e facendo recedere la men­talità nomade che, a quel tempo, era ormai anacronistica. Dopo che il rito di macellazione è stato trasformato in atto profano, viene ribadita la stretta sacralità di altre azioni che, invece, possono essere compiute solo al santuario[9]. Util­mente si può vedere anche il testo di Dt 12, 20-27 che ripren­de, con un linguaggio più evoluto, i due passi precedenti sull’abbattimento degli animali e sull’offerta delle primizie e dei voti al luogo di culto.

2. Pasto giudaico come pasto rituale

2.1. Pasto rituale è un sacrificio?

Nel regime di abbattimento rituale degli animali, ogni pa­sto è un fatto religioso ed è in qualche modo legato al sacri­ficio: solo la norma sull’abbattimento profano degli animali differenzia nettamente l’ambiente del sacrificio con il suo pa­sto sacro, da quello del pasto cosiddetto profano, preso sem­plicemente per il nutrimento. Tuttavia il rendere profano l’abbattimento degli animali non comporta la perdita della reli­giosità propria di quest’area, l’alimentazione, così importante dal punto di vista antropologico. L’aspetto religioso non viene cancellato ma solo trasferito: reso profano il rito dell’abbat­timento, viene reso religioso il pasto[10]. In tal modo nasce la liturgia specifica del pasto rituale giudaico che viene fatta risalire al comando divino di Dt 8, 10: «Mangerai, sarai sazio e benedirai il Signore, tuo Dio, a causa della buona terra che ti avrà dato». Di qui emerge che non è la preghiera a santificare il pasto, ma che, al contrario, è il pasto stesso, in quanto espressione del dono divino della terra, ad avere una sua sacralità che esige la presenza della preghiera. Non si prega per trasformare la cena in «pasto sacro», ma si prega come riconoscimento del dono di Dio. Al pasto si benedice Dio, non il pasto. Dato che ogni pasto, in quanto tale, proviene dal dono divino, ne segue che tutti i pasti dovranno essere celebrati nella preghiera.
Dato che il pasto rituale nasce all’interno della storia del sacrificio giudaico, possiamo affermare che c’è un nesso tra il sacrificio e la liturgia del pasto giudaico; tuttavia, nello stesso tempo, dobbiamo negare che il pasto abbia un qualsivoglia carattere sacrificale, dato che nasce dalla riforma dell’abbattimento degli animali, quando si instaura la distinzione tra l’abbattimento profano e l’abbattimento sacrificale.
In conclusione, il pasto rituale giudaico è una delle tappe in cui si articola la storia dei sacrifici anticotestamentari, ma non si può dire che il pasto rituale, nemmeno a causa della liturgia che lo accompagna[11], sia un sacrificio o abbia carat­tere sacrificale.

2.2. Preghiera fondamentale del pasto giudaico

I rabbini hanno colto molto bene il rapporto tra il pasto e la preghiera di azione di grazie che lo conclude, e si sono chiesti da dove provenga l’obbligo di recitare una tale pre­ghiera. La risposta viene trovata in Dt 8, 10 che viene presen­tato come il comando divino che istituisce la «cena» giudaica. Da questa istituzione divina scaturisce la teologia e l’ob­bligazione giuridica della preghiera alla fine dei pasti; que­sta preghiera è la Birkat ha-mazon[12].

Ovunque c’è un pasto, purché di consistenza superiore a un’oliva di medie dimensioni, c’è la Birkat ha-mazon.
È molto difficile stabilire il tenore esatto della Birkat ha­-mazon dato che non è mai esistito un testo unico, normati­vo, al quale tutti dovessero conformarsi. Nella regolamenta­zione della preghiera giudaica ogni tipo di preghiera deve es­sere recitato a partire da uno schema: all’interno del model­lo, l’orante è libero di dare forma alla sua preghiera, crean­done il testo che, quindi, risulterà improvvisato al momen­to. Di conseguenza risulta difficile avere testimonianze pre­cise sul testo della Birkat ha-mazon. Tra l’altro esistevano precisi divieti di trasmettere le preghiere per iscritto[13].
Dai non molti testi a noi pervenuti, si è cercato di ricostruire un testo che possa servire da schema generale della Birkat ha-mazon. Ecco il testo proposto da Finkelstein[14]:

a) Benedetto tu Signore, Dio nostro, re dell’universo, che nutre l’universo mondo con bontà, benignità e misericordia. Benedetto tu, Signore, che nutri l’universo.

b) Ti rendiamo grazie, Signore, Dio nostro, che ci hai da­to in eredità una terra desiderabile affinché mangiamo dei suoi frutti e ci nutriamo della sua bontà. Benedetto tu Signore, Dio nostro, per la terra e per il cibo.

c) Abbi pietà, Signore Dio nostro, di Israele tuo popolo e di Gerusalemme tua città e di Sion sede della tua gloria e del tuo altare e del tuo santuario. Benedetto tu Signore che edifichi Gerusalemme.
Bisogna tener presente che questo schema è una ricostru­zione operata da Finkelstein, che la presenta come una sorta di modello-base. Questo testo come tale non è mai esistito, e quindi non può essere adoperato se non con estrema cautela. Purtroppo molti fanno riferimento a questo schema, senza occuparsi dei testi realmente esistiti che, invece, sono molto più interessanti a causa dei paralleli che presentano con la successiva rielaborazione cristiana. Tra gli altri testi, è di par­ticolare importanza la Birkat ha-mazon del Libro dei Giubi­lei (22, 6-9), scritto nel 100 a.C. circa: «(6) Ed egli mangiò, bevve e benedì il Dio eccelso che aveva creato il cielo e la ter­ra, aveva fatto tutto il grasso della terra e lo aveva dato ai figli dell’uomo perché mangiassero, bevessero e benedicessero­ il loro Creatore. (7) "Ed anche ora io ti ringrazio, mio Dio, perché mi hai fatto vedere questo giorno. Ecco, sono di centosettantacinque anni, vecchio, completo di tempo e tutti i miei giorni sono stati buona salute. (8) La spada del nemico non mi ha vinto in tutto quel che hai fatto a me ed ai miei figli, ogni tempo della mia vita, fino ad oggi. (9) Sia, o mio Dio, la Tua benevolenza sul Tuo servo e sulla discendenza ­dei suoi figli, affinché Ti sia popolo eletto ed eredità fra tutti i popoli della terra, da oggi fino a tutto il tempo del­le generazioni della terra, per tutti i secoli"»[15].
La Birkat ha-mazon esprime il senso che il pasto ha nel giudaismo. La terra è stata data da Jhwh al popolo ebraico come pegno dell’alleanza. Nel rito di stipula o di rinnova­mento dell’alleanza, la manducazione dei prodotti del paese è, per ciò stesso, accettazione dell’alleanza; nella Birkat ha-­mazon alla fine dei pasti vengono ripresi proprio questi temi e, quindi, possiamo concludere che, in ogni pasto, il pio israe­lita celebra e fa memoria del dono della terra che è pegno dell’alleanz[16].

II. All’origine dell’eucaristia cristiana 

1. Ultima cena

L’origine dell’eucaristia cristiana è nell’ultima cena: Gesù prese il pane, benedisse Dio, spezzò il pane e lo diede ai suoi discepoli dicendo che lo prendessero e ne mangiassero perché quello era il suo corpo; allo stesso modo, dopo aver ce­nato, prese il calice, rese grazie, lo diede ai suoi discepoli dicendo che lo prendessero e ne bevessero tutti perché quello era il calice dell’alleanza nel suo sangue. Alla fine egli disse: Fate questo in memoria di me. Con questa azione egli pose un modello affinché noi facessimo altrettanto, ossia affinché facessimo ciò che egli stesso aveva fatto. Ecco che cos’è l’eucaristia: obbedire al comando di Cristo e fare ciò che egli stesso ha fatto.

Il pane e il vino, gli elementi di questa cena rituale, sono specificati dalle due preghiere che li accompagnano: la bene­dizione per il pane, e il rendimento di grazie per il calice.

Queste preghiere che Gesù recitò alla cena sono l’origine e il modello della preghiera eucaristica, o anafora, della chiesa. Infatti a partire da quei due testi di rendimento di grazie nac­que uno sviluppo testuale molto complesso che ci conduce fino ai testi anaforici che si trovano oggi nel Messale della Chiesa romana.
Dobbiamo dire dunque che i testi di oggi sono estremamente fedeli alla tradizione che ebbe origine nel cenacolo. Per usare un’espressione di sapore giornalistico, possiamo dire che l’eucaristia di oggi resta in presa diretta con l’eucaristia di Gesù nel cenacolo[17].
2. Importanza della preghiera eucaristica

Nell’ultima cena ci sono stati due tipi di elementi che han­no caratterizzato il rito celebrato da Gesù, e lo hanno reso differente da ogni altro analogo rito e da ogni altra cena, co­mune o profana o religiosa, a base di pane e vino. Si tratta sia delle parole esplicative sul pane e sul calice, sia delle va­rie preghiere di benedizione e di azione di grazie recitate da Gesù nel cenacolo.
I discepoli di Cristo hanno ricevuto dal maestro il coman­do: Fate questo in memoria di me, e con fedeltà hanno ini­ziato a celebrare una cena simile a quella celebrata dal mae­stro. Fin dalle prime testimonianze questa liturgia viene chia­mata eucaristia, termine greco che significa azione di grazie e che designa sia la preghiera di azione di grazie che viene recitata a imitazione di quella di Gesù, sia il pane e il vino che sono gli elementi costitutivi di questa cena rituale[18].
Dato che la messa è obbedienza al comando di Gesù e imi­tazione[19] della sua cena nel cenacolo, ne segue che la pre­ghiera eucaristica è ciò che determina la natura stessa dell’eucaristia della chiesa.
Come la preghiera eucaristica è imitazione dell’azione di grazie di Gesù nel cenacolo, allo stesso modo gli elementi costitutivi di quella cena, il pane e il vino, saranno come il pane e il vino di Gesù nel cenacolo, ossia, per usare il termine tecnico, somiglianza[20] del pane e del vino del cenacolo, e quindi del corpo e sangue di Cristo.

3. Conformità all’ultima cena
Il comando di Gesù nell’ultima cena riguarda tutto ciò che egli ha compiuto nella cena rituale; egli ha riassunto tutti que­sti elementi nel dimostrativo «questo»: Fate «questo» in memoria di me.

Tuttavia si deve rilevare che l’eucaristia della chiesa è ben diversa dal rito dell’ultima cena; infatti l’ultima cena è anche un pasto a tutti gli effetti, nel quale i partecipanti si nu­trono come in ogni altro pasto, mentre nella messa, già dal II secolo, non c’è più alcun rapporto con la cena e il rito eucaristico è separato dal pasto. Inoltre nella cena di Gesù ci sono due preghiere di azione di grazie ben distinte e separa­te, una per il pane e una per il calice, mentre nella messa ce n’è una sola, la preghiera eucaristica o anafora, che vale tanto per il pane quanto per il calice, dato che il rito del pane è completamente fuso con il rito del calice.

Posto questo, è evidente che la chiesa delle origini ha fat­to un’operazione di reinterpretazione a proposito del dimostrativo «questo». Il rito dell’ultima cena è stato reinterpretato dalla chiesa apostolica in modo da mettere in luce quali fossero gli elementi normativi e quali no. Ossia, in altri termini, quali fossero gli elementi essenziali perché la cena rituale della chiesa si configurasse come esecuzione fedele del comando: Fate «questo» in memoria di me, e lo fosse effet­tivamente. Questa reinterpretazione dell’ultima cena è già compiuta quando viene redatto il Nuovo Testamento. La cena infatti non è stata narrata con tutti i dettagli rituali, come in una cronaca, bensì in prospettiva liturgica, ossia come «il modello» lasciato da Gesù affinché facessero altrettanto.

L’ultima cena non è solo un modello rituale, ma ha un ruolo suo proprio, nella vita di Gesù, sia come sintesi della sua ope­ra, sia come annuncio «in atto» della passione e della croce. A questo punto della nostra trattazione bisogna fermare l’at­tenzione sull’ultima cena come modello della celebrazione del­la chiesa, perché è in questa prospettiva che il Nuovo Testa­mento costruisce e trasmette il racconto dell’istituzione. Nei racconti neotestamentari vengono descritte le azioni di Gesù che la chiesa deve eseguire, e sono le seguenti:

1) prese il pa­ne, 2) rese grazie, 3) lo spezzò, 4) lo diede, 5) dicendo...;
6) prese il calice,7) rese grazie,8) lo diede,9) dicendo...

Perché sia obbedienza al comando di Cristo, dunque, la celebrazione della chiesa deve comportare tutte queste azio­ni che appartengono al rito che Gesù ha dato come modello. Di conseguenza sono queste le parti che vanno giudicate co­me essenziali e costitutive del rito della chiesa.

Infatti l’eucaristia della chiesa è «conforme» e «corrispon­dente» al rito compiuto da Gesù nel cenacolo proprio per­ché è costituita dalla serie di azioni che abbiamo appena elen­cato. Nel linguaggio della patristica il rito compiuto da Gesù nell’ultima cena è traditio mysteriorum, e, di conseguenza, typos (= modello) della celebrazione la quale si chiamerà mi­stero, antitypos e, con una parola più vicina a noi, sacra­mento. 
4. Rito dell’ultima cena

4.1. Due tradizioni sull’ultima cena
Il Nuovo Testamento ha quattro narrazioni dell’ultima cena, appartenenti a due diverse tradizioni, indipendenti l’una dall’altra: da un lato abbiamo la tradizione di Marco[21] e Matteo[22] e dall’altro abbiamo Luca[23] e Paolo[24]. A questi si aggiunge una terza tradizione attestata da una frase del vangelo di Giovanni che riporta soltanto le parole di Gesù sul pane[25]. Dal punto di vista letterario il testo di Paolo è il più antico, redatto probabilmente nella primavera del 54[26], ma la tradizione paolina sull’eucaristia si sarebbe formata prima, dato che Paolo fa riferimento a «ciò che io vi ho trasmesso», e ciò è verosimilmente accaduto nell’autunno del 49, all’inizio della sua attività missionaria a Corinto. Paolo dice inoltre che ciò che egli trasmette è ciò che ha ricevuto. Ma quando lo ha ricevuto? Forse alla sua conversione! I contatti tra la redazione paolina, quella lucana e quella giovan­nea suggeriscono che Paolo riproduce la tradizione ellenisti­ca del racconto dell’ultima cena in uso nella comunità antiochena. Questo rapporto viene confermato anche dalla vicinanza che c’è tra la struttura del racconto dell’ultima cena di Lc 22, 17-20 e la struttura dell’eucaristia testimoniata in 1Cor 10, 16-17 e Didachè 9-10.

La redazione lucana è più primitiva di quella di Paolo e, secondo Jeremias, risale agli anni 40.
Prima di Luca ci sarebbe stata la redazione di Marco, un testo pieno di semitismi che, linguisticamente, è più vicino alla primigenia redazione aramaica/ebraica dell’ultima cena, mentre la redazione di Matteo non è che una variante che grecizza Marco[27]. Dal punto di vista linguistico Marco riflette più fedelmente la tradizione semitica e, di conseguen­za, la data di composizione sarebbe anteriore a quella di Luca, e andrebbe collocata nella prima decade dopo la morte di Cristo[28].
Abbiamo visto la questione cronologica dei racconti dell’ultima cena, che è stata determinata con argomenti fondati prevalentemente sulla forma letteraria del testo e sulla sua evoluzione. Tuttavia, in ordine al nostro problema sulla mi­glior conoscenza dei fatti dell’ultima cena, dobbiamo negare che Marco, rappresentando la più antica redazione, sia un testo da privilegiare. Sarebbe da privilegiare se fosse esistito un racconto originario unico (Urtexte) dell’ultima cena, e se da questa unica fonte avessero avuto origine le altre narra­zioni giunte fino a noi. In questo caso, e solo in questo caso, il testo letterariamente più arcaico è in grado di dare garanzie migliori che gli altri testi. L’ultima cena, come ben sap­piamo, è stata narrata dalle varie tradizioni a seconda del kerygma delle varie chiese e a seconda della loro usanza litur­gica. La forma della narrazione, oltre che ai bisogni del ke­rygma, serve anche all’uso liturgico, ossia serve a costruire il racconto dell’ultima cena in modo da rendere ragione dello svolgimento della liturgia cristiana. Luca è un testo forte­mente grecizzato, ma ciò non toglie che sia un testo molto arcaico. Agli argomenti di tipo linguistico e letterario bisogna aggiungere gli argomenti liturgici, con particolare atten­zione alla struttura dei riti che compongono l’ultima cena[29].
Per sapere quale sia la narrazione che meglio corrisponde agli eventi dell’ultima cena dobbiamo percorrere una via differente dalle considerazioni puramente linguistiche; dobbiamo considerare soprattutto i dati rituali, ossia dobbiamo prendere in esame il costume della cena rituale giudaica, e valutare quali siano i dati neotestamentari che sono meglio com­patibili con questo uso. È in base a questi argomenti che il racconto lucano acquista un’importanza tutta particolare per delineare la storia dell’eucaristia nelle sue prime battute. Al seguito di Heinz Schürmann[30] ritengo che il testo di Luca vada considerato la redazione più primitiva dell’ultima cena.

4.2. Cena pasquale o non pasquale
Per i vangeli sinottici l’ultima cena fu una cena pasquale, mentre per il vangelo di Giovanni non si trattò di una cena pasquale. Secondo Giovanni, infatti, la morte di Cristo sarebbe avvenuta alla vigilia di Pasqua, nello stesso momento in cui venivano uccisi gli agnelli al tempio e una cena senza agnello pasquale, e fatta prima di Pasqua, non avrebbe po­tuto essere una cena pasquale. Dato che i vangeli sinottici si presentavano come più attendibili sul piano storico, mentre il vangelo di Giovanni era meglio caratterizzato sul piano simbolico, la preferenza andava alla cronologia sinottica della passione piuttosto che alla cronologia giovannea; erano i sinottici che meritavano fiducia e, dunque, l’ultima cena era una cena pasquale. Crescendo il livello di comprensione del simbolismo del vangelo di Giovanni si è visto che anche Giovanni aveva interesse per i dati storici e che, pertanto, anche la cronologia giovannea della passione meritava attenzione[31].
Oggi i critici si muovono su di un altro piano, privilegiando la cronologia giovannea della passione, in base alla quale l’ultima cena non è una cena pasquale[32]. Per impostare correttamente la questione del carattere pasquale dell’ultima cena dobbiamo distinguere tra il valore teologico dell’ultima cena, e il suo valore rituale e storico. Dal punto di vista storico e dal punto di vista rituale nel cenacolo non si tenne una celebrazione pasquale; tuttavia i sinottici si resero conto che l’ultima cena era l’attuazione tipologica della Pasqua ebraica e, di conseguenza, conferirono all’ultima cena un preciso carattere pasquale, organizzandole attorno una cronologia che ponesse l’ultima cena nel momento stesso della Pasqua ebraica. In questa cronologia c’è quindi un’intenzione teologica. La stessa intenzione teologica che si trova nel vangelo di Giovanni che mette la morte di Cristo in contemporanea con l’uccisione dell’agnello pasquale.
Giovanni dà un’interpretazione pasquale alla morte di Cristo, mentre i sinottici rendono pasquale la cena. Anche Paolo è attivo in quest’opera di pasqualizzazione e interpreta in modo pasquale la persona stessa di Cristo, in quanto tale: “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità” (1Cor 5, 7-8)[33]. Il Carattere pasquale dunque è un dato teologico che viene applicato agli eventi della passione e che nel tempo ha pervaso la teologia e la spiritualità della chiesa[34].

Questo dato teologico è un prezioso filo d’oro che attraversa la storia, partendo dal Nuovo Testamento per arrivare fino ad oggi, ma ciò resta nel campo dell’interpretazione teologica. Il dato storico è che l’ultima cena non fu una celebrazione pasquale e che, di conseguenza, la sua liturgia non fu quella della Pasqua ebraica.

4.3. Svolgimento dell’ultima cena

In Marco e in Matteo viene descritto il rito dell’eucaristia, ma non abbiamo dati per dare una valutazione dell’ultima cena nel suo complesso. Marco ci dice soltanto che Gesù, mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi, prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti” (cf. Mc 14, 22-24). Matteo, dipendente da Marco, non dice di più.

Luca invece è molto più accurato e descrive il rito in modo da mettere in luce quale sia la struttura rituale dell’ultima cena. Nell’ultima cena ci sono tre parti:

- il rito di apertura,

- la cena vera e propria,

- il rito di chiusura.
L’apertura è costituita da due elementi: il rito del calice e il rito del pane, ciascuno accompagnato da parole esplicative[35]. Il rito del calice viene per primo ed è accompagnato da un discorso escatologico: «Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apo­stoli con lui, e disse loro: “Ho tanto desiderato man­giare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, per­ché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio”» (Lc 22, 14-18). A questo segue il rito del pane che è accompagnato sia dalle parole esplicative sia dal comando di reiterare il rito in memoria di Cristo: «Poi pre­se il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in me­moria di me”» (Lc 22, 19).
Le parole escatologiche, sul calice, stabiliscono la portata sia della cena pasquale sia del rito del calice che, per sined­doche, sta per l’intero rito col quale si apre la cena, costitui­to da calice e pane. Il «frutto della vite» non verrà più bevu­to e la Pasqua non verrà più mangiata finché giunga il compimento nel regno di Dio. Il presente con le sue tenebre im­minenti è già posto alla luce del futuro, cosicché nell’ultima cena viene racchiusa l’immagine del regno di Dio[36]. Nelle parole di Gesù questa cena, che per il suo valore teologico è pasquale, acquista valore «tipico» e diventa modello di quel­la futura, ossia del banchetto escatologico del regno ventu­ro. Con questo si intende dire che tra l’ultima cena e l’av­vento del regno di Dio non ci saranno ulteriori tappe. Le pa­role sul pane che, come all’inizio di ogni cena, viene spezza­to, stabiliscono un chiaro nesso di identità tra il pane e il corpo di Cristo: il pane che Gesù dà da mangiare ai discepoli è il suo corpo.

Terminato il rito di apertura, c’è la cena vera e propria al­la fine della quale, secondo il costume giudaico che abbiamo già illustrato, c’è la preghiera di azione di grazie, la Birkat ha-mazon, recitata tenendo in mano il calice che conclude il rito.
In Luca non si dice esplicitamente che l’ultimo calice fu accompagnato da una preghiera di azione di grazie; lo si desume dall’avverbio hosautos che, nel v. 20, si trova in po­sizione appositiva rispetto al calice: «fece lo stesso con il calice». Questo avverbio vuole dire che le azioni compiute precedentemente vengono compiute anche per il calice. Il calice è accompagnato dalle parole esplicative che dicono: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (Lc 22, 20). Qui termina il racconto della cena, senza che ci sia il comando della reiterazione che, invece, è stato collocato prima, alla fine delle parole sul pane. Questo fatto, unitamente alla maniera sbrigativa con la quale viene introdotto il v. 20 (fece lo stesso; vecchia traduzione: allo stesso modo), senza che si faccia riferimento alla preghiera di azione di grazie, fa ritenere che il v. 20 sia un’aggiunta che Luca ha introdotto successivamente, essendo un dato importante di una sua fonte, mentre lo stadio più antico del racconto di tradizione antiochena (Luca, Paolo) avrebbe comportato solo i vv. 17-19[37].

Possiamo dunque concludere che, secondo Luca, la liturgia celebrata da Gesù nell’ultima cena avrebbe avuto la seguente struttura:

- rito del calice,

- rito del pane,

- cena,

- rito finale del calice.

Ciascuno dei tre riti è stato accompagnato dalla preghiera di azione di grazie.

 


[1] Ad esempio: «Ancora ti rendiamo grazie, Padre nostro, per il prezioso sangue di Gesù Cristo, versato per noi, e per il prezioso corpo, di cui noi portiamo a compimento questi “antitipi”, avendoci ordinato egli stesso di annunciare la sua morte. Per mezzo suo a te la gloria nei secoli. Amen» (Costituzioni apostoliche, 7, 25, 4). Nelle primitive testimonianze delle liturgie in lingua latina, troviamo il termine “figura” che svolge lo stesso ruolo di “antitypos”.
[2] Nel cristianesimo la tipologia biblica viene applicata alla lettura dell’Antico Testamento per garantire la sua unità con il Nuovo. In tal modo si ottiene un’unica economia di salvezza e un unico salvatore, il Cristo. Questo metodo è usato anche da Paolo in 1Cor 10, 1-4. Per riuscire a creare quest’unità bisogna far emergere dal Nuovo testamento o, nel caso, dalla liturgia, delle analogie o corrispondenze con i fatti del Nuovo Testamento. Ciò comporta l’uso del metodo allegorico, in modo che il testo dell’Antico Testamento parli veramente dei fatti del Nuovo, come afferma Gesù in Lc 24, 44: «Poi disse: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”». Solo perché compimento delle promessa antica, gli eventi neotestamentari possono essere qualificati come eventi salvifici autenticati da Dio: infatti solo così corrispondono agli eventi anticotestamentari che, in Israele, sono la salvezza in quanto tale. In questa concezione i fatti e gli accadimenti dell’Antico Testamento acquistano una funzione particolare, quella di paradigma della salvezza. Per avere funzione paradigmatica, tali eventi debbono avere subito un processo di standardizzazione che ha posto in evidenza i caratteri nei quali si è espressa l’opera di Dio intesa come salvezza. In epoche successive saranno salvifici quei fatti che avranno una certa corrispondenza con i paradigmi degli eventi anticotestamentari. Questa è l’interpretazione figurale o tipologica delle Scritture, che è stata applicata anche ai riti liturgici dando origine a una vera e propria teoria (nel senso patristico del termine) e interpretazione della liturgia in senso salvifico. C’è una certa differenza tra la semplice tipologia biblica e la tipologia applicata alla liturgia; nel caso della liturgia infatti viene accentuato il carattere paradigmatico delle figure bibliche fino ad attribuire loro la funzione di modello della celebrazione liturgica. Per modello si intendono due cose: 1) il rito tanto per il suo contenuto quanto per il suo aspetto esteriore, ossia per la successione delle varie unità rituali; anche per la successione di varie unità rituali il rito dell’ultima cena è modello o tipo dell’eucaristia della chiesa; 2) il carattere salvifico che, descritto in modo autentico nelle Scritture, è riconosciuto anche all’azione liturgica della chiesa (Melchisedech e la sua offerta di pane e di vino, sono riconosciuti come tipo di Cristo e dell’eucaristia cristiana; non solo Mechisedech, ma anche il dono della manna nel deserto, e anche, tra gli altri casi, Davide con i pani di proposizione). Nei testi evangelici hanno valore tipico, e quindi di modello dell’eucaristia, sia i vari racconti della moltiplicazione dei pani, sia i pasti con il Risorto; in questi casi si tratta non tanto di un modello rituale (anche se alcuni elementi rituali ci sono effettivamente), quanto di fatti paradigmatici in ordine alla salvezza; il nesso con l’eucaristia sta nel fatto che questi episodi, legati alla salvezza, sono connessi con il rito del pasto. Sulla tipologia biblica la bibliografia è molto ampia, mi limito a segnalare alcuni studi classici come: J. Daniélou, Sacramentum futuri. Études sur les origines de la typologie biblique, Beauchesne, Paris 1950; H. De Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’écriture, Aubier, Paris 1959; J. Pépin, La tradition de l’allégorie. De Philon d’Alexandrie à Dante, Études historiques, Paris 1987. Sulla tipologia applicata alla liturgia cf. C. Jacob, Arkandisziplin, Allegorese, Mystagogie: ein neuer Zugang zur Teologie des Ambrosius von Mailand, Hain, Frankfurt 1990; Idem., Zur krise der Mystagogie in der Alten Kirche, in Teologie und Philosophie, 66(1991), 75-89; E. Mazza, Les raisons et la méthode des catéchèses mystagogiques de la fin du quatrième siècle, in A. M. Triacca - A. Pistoia (a cura di), La prédication liturgique et les com­mentaires de la liturgie (Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia, 65), CLV, Roma 1992, 154-176; R. N. Fragomeni, Wounded in Extraor­dinary Depths: Towards a Contemporary Mystagogy, in M. Downey - R. N. Fra­gomeni (a cura di), A Promise of Presence. Studies in Honor of David N. Power, The Pastoral Press, Washington D. C. 1992, 115-137; P.M. Gy, La mystagogie dans la liturgie ancienne et dans la pensée liturgique d’aujourd’hui, in A.M. Triacca - A. Pistoia (a cura di), Mystagogie: pensée liturgique d’aujourd’hui et liturgie ancienne (Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia, 70), CLV, Roma 1993, 137-143; D. Sartore, Mistagogia ieri e oggi: alcune pubblicazioni recenti, in Ecclesia orans, 11(1994), 181-199. 
[3] Non entro in questa trattazione. Rimando alle caratteristiche di que­sto metodo: E. Mazza, L’interpretazione del culto nella chiesa antica, in Associa­zione Professori di Liturgia (a cura di), Celebrare il mistero di Cristo. Manuale di litur­gia, v. I, (Ephemerides litur­gicae. Subsidia, 73 - Studi di liturgia. Nuova serie 25), CLV, Roma 1993, 229-279.
[4] Es 20, 24-26 autorizza come materiali per l’altare sia le pietre sia i mattoni che, essendo crudi, sono equiparati alla terra.
[5] P. Buis - J. Leclercq, Le Deutéronome (Sources Bibliques), Gabalda, Paris 1963, 99.
[6] Il sacrificio di comunione era il più frequente nel periodo più antico; è il sa­crificio tipico dei clan nelle loro varie ricorrenze (1Sam 20, 6-28 ecc.). Inoltre esso è offerto in occasione di pellegrinaggi che, come sappiamo, erano il modo per rag­giungere i luoghi di culto ove celebrare le grandi feste (cf. 1Sam 1, 21; 2, 19). Que­sto tipo di sacrificio era un sacrificio gioioso che accomunava in un unico banchet­to sia il sacerdote, sia l’offerente, sia il popolo, ciascuno per la sua parte. Il san­gue, invece, veniva sparso completamente mentre il grasso bruciava sull’altare. Anche di questo sacrificio abbiamo pochi dati per descriverne il rituale. Possiamo dire che l’animale veniva ucciso fuori dall’altare; la vittima è divisa in varie parti; alcune vengono poste sull’altare e bruciate, ossia offerte a Dio, mentre altre parti vanno ai fedeli per la consumazione del pasto che segue il sacrificio. Il maggior interesse dei racconti biblici riguarda l’osservanza o la non osservanza delle regole di divi­sione della vittima tra quanti avevano diritto di partecipare; a Silo, ad esempio, i figli di Eli vengono rimproverati per non aver osservato le regole; essi mandarono il loro servo a pescare con una forchetta nel recipiente ove cuoceva la carne e, inol­tre, pretesero una parte della carne cruda da arrostire prima che il grasso fosse sta­to offerto a Jhwh (1Sam 2, 12-17). In 1Sam 9, 23-24 Samuele, dopo aver sacrifica­to, offre a Saul la coscia e la coda, mentre in Lv 7, 32 la coscia sarà attribuita al sacerdote e, in Lv 3, 9, la coda sarà bruciata per Jhwh. Il sacrificio di comunione è specificato dal carattere gioioso ed è cosi diffuso che, nei libri storici, sovente è indicato solo con zebah, come se fosse il sacrificio per antonomasia. Di per sé questo termine designa ogni sacrificio cruento che comporta un pasto religioso; ze­bah è applicato anche al sacrificio pasquale. Il sacrificio di olocausto, eccezionale nei tempi antichi, è divenuto il sacrificio regolare nel tempio, mentre i sacrifici di comunione sono divenuti sempre più rari. L’olocausto è principalmente un atto di omaggio che si esprime in un dono. In tal modo è divenuto il tipo del sacrificio perfetto, dell’omaggio fatto a Dio per un dono totale, il qorbân, ossia l’offerta per eccellenza (Lv l). Nell’olocausto esiste il rito del sangue (Lv 1, 4), al quale è stato attribuito un valore espiatorio come, d’altronde, al rito del sangue di ogni altro sacrificio (Lv 17, 11) (cf. R. De Vaux, Les sacrifices de l’Ancien Testament, Ca­hiers de la Revue biblique l, Gabalda, Paris 1964).
[7] In breve: per poter mangiare la carne era necessario uccidere l’animale, e ciò non poteva essere fatto se non in modo rituale; il rito liturgico dell’uccisione era l’unica via per avere la carne per il pasto.
[8] «In quel giorno essi batterono i Filistei da Micmas fino ad Aialon e il popolo era sfinito. Il popolo si gettò sulla preda e presero pecore, buoi e vitelli e li macellarono per terra e li mangiarono con il sangue. La cosa fu annunziata a Saul: “Ec­co, il popolo pecca contro il Signore, mangiando con il sangue”. Rispose: “Avete prevaricato! Rotolate subito qui una grande pietra”. Saul soggiunse: “Passate tra il popolo e dite loro che ognuno mi conduca qua il suo bue e il suo montone e li macellerete su questa pietra e ne mangerete; cosi non peccherete contro il Signore, mangiando il sangue” . E tutto il popolo condusse nella notte ciascuno il bestiame che aveva e là lo macellò. Saul innalzò un altare al Signore. Fu questo il primo altare che egli edificò al Signore» (1Sam 14, 31-35). Sulle implicazioni del culto sacrificale in Israele, cf. C.B. Costecalde, Aux origines du sacré biblique, Letouzey & Ané, Paris 1986.
[9] «Non potrai mangiare entro le tue città le decima del tuo frumen­to, del tuo mosto, del tuo olio, né i primogeniti del tuo bestiame grosso e minuto, né ciò che avrai consacrato per voto, né le tue offerte spontanee, né quello che le tue mani avranno prelevato. Davanti al Signore, tuo Dio, nel luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto, mangerai tali cose tu, il tuo figlio, la tua figlia, il tuo schiavo, la tua schiava e il levita che abiterà le tue città; gioirai davanti al Signore, tuo Dio, di ogni cosa a cui avrai messo mano» (Dt 12, 17-18).
[10] In Israele è improprio parlare di «pasto sacro» cosi come, correlativamente, è improprio il concetto di «pasto profano». In Israele il pasto non è né sacro, né profano, ma religioso: in tal modo viene superata la categoria del sacro, per parla­re direttamente del rapporto con Dio. Per questo tipo di interpretazione del con­cetto del sacro e del profano cf. J.P. Audet, Le sacré et le profano. Leur situation en christianisme, in Nouvelle revue théologique, 79(1957), 33-61.
[11] Per spiegare l’origine della sacrificalità dell’eucaristia cristiana si è spesso fat­to ricorso al carattere sacrificale della preghiera di rendimento di grazie che accom­pagna i riti anticotestamentari e la celebrazione eucaristica cristiana; in questa li­nea si colloca Henri Cazelles (H. Cazelles, L’anaphore et l’Ancien Testament, in B. Botte - B. Bobrinskoy - R. Bomert - I.-H. Dalmais - A. Renoux, ecc. (a cura di), Eucharisties d’Orient et d’Occident, v. I, (Lex orandi, 46), Cerf, Paris 1970, 11-22; Idem., Eucharistie, bénédiction et socrifice dans l’Ancien Testament, in La Maison ­Dieu 123(1975), 7-28); questa linea interpretativa ha avuto uno sviluppo originale in C. Giraudo, La struttura letteraria della preghiera eucaristica. Saggio sulla genesi letteraria di una forma. Toda veterotestamentaria, Beraka giudaica, Anafora cristiana (Analecta biblica, 92), Biblical Institute Press, Roma 1981. Questi trova un nesso diretto tra la Toda e l’anafora cristiana: in tal modo ci sarebbe una precisa continuità tra i riti sacrificali (legati all’alleanza) che comportano una Toda e la celebrazione eucaristica (per una valutazione cf. La discussione sull’origine dell’a­nafora eucaristica: una messa a punto, in Rivista di pastorale liturgica, 182(1994), 42-54.
[12] Questa preghiera è presente anche nel rito della cena pasquale, nel rito del terzo calice che si presenta dotato di grande rilievo. Inoltre è presente nel rito dei sacrifici di comunione, come si evince dal racconto della morte di Abramo conte­nuto nel Libro dei Giubilei 22, 1-10. Anche qui deve avere un ruolo notevole, dato che la Birkat ha-mazon viene citata con ampiezza, come uno dei momenti più importanti degli avvenimenti della morte di Abramo così come viene narrata in questo apocrifo dell’Antico Testamento.
[13] Questa sarebbe la normativa e la teologia rabbinica della preghiera, tuttavia si deve rilevare che non sempre c’è coincidenza tra ciò che è stabilito dalle norme e ciò che viene effettivamente vissuto. Cf. in merito J. Heinemann, Prayer in the Talmud. Forms and patterns (Studia judaica, 9), Walter de Gruyter, Berlin - New York 1977.
[14] L. Finkelstein, The Birkat ha-mazon, in Jewish Quarterly Review, 19(1929), 211-262.
[15] P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, v. I (Classici delle reli­gioni), UTET, Torino 1981, 312-313. Sul genere letterario giudaico della Bera­kah (benedizione) cf. J.P. Audet, Literary Forms and Contents of a Normal Eu­charistia in the First Century, in K. Aland - F.L. Cross (a cura di), Studia Evangelica (Texte und Untersuchungen 18), Berlin 1959, 643-662; Idem., Esquisse du genre littéraire de la “bénédiction” juive et de l’eucharistie chrétienne, in Revue bibli­que, 65(1958), 371-399; T.J. Talley, De la «Berakah» à l’eucharistie. Une ques­tion à réexaminer, in La Maison-Dieu, 125(1976), 11-39; Idem., The Literary Structure of Eucharistic Prayer, in Worship, 58(1984), 404-420; Idem., Structures des anaphors anciennes et modernes, in La Maison-Dieu, 191(1992), 15-43.
[16] Alla benedizione divina che scende dal cielo, corrisponde nel cuore del pio israelita una risposta che ascende al cielo. È cosi che Dio salva il suo popolo, po­nendo sulle sue labbra la risposta benedicente.
[17] Nondimeno solo l’esperto riesce a vedere nel rito di oggi lo svolgimento del rito che Gesù celebrò nell’ultima cena, e riesce a scorgervi tutti gli elementi di cui era composto quel rito. Un fedele nella messa può vedere solo la messa, non il rito dell’ultima cena: se il fedele ha una buona base culturale potrà accorgersi che nella messa ci sono molti influssi culturali appartenenti a diverse epoche, e che ci sono le tracce delle decisioni o dei problemi che la chiesa ha affrontato lungo la storia, ma non lo sviluppo rituale dell’ultima cena di Gesù. Tuttavia resta il fatto che, no­nostante le apparenze, il rito dell’ultima cena è direttamente collegato all’eucari­stia della chiesa in modo che, nella messa, va visto e rivissuto ciò che fece Gesù nell’ultima cena e non qualcosa di diverso, foss’anche un antico e venerabile rito della chiesa.
[18] Cf. Didachè 9-10.
[19] I termini imitazione, somiglianza, figura, immagine, forma, obbedienza non vanno intesi nel senso odierno, ma secondo l’accezione patristica. Se dovessimo tra­durre questa accezione nel linguaggio di oggi, dovremmo usare il termine sacra­mento, e sarebbe un’ottima traduzione. Per il significato e l’uso di questa termino­logia cf. E. Mazza, L’interpretazione del culto nella chiesa antica, in Associazione Professori di Liturgia (a cura di), Celebrare il mistero di Cristo. Manuale di liturgia, v. I, (Ephemerides liturgicae. Subsidia­, 73 - Studi di liturgia, Nuova serie, 25), CLV, Roma 1993, 229-279.
[20] Del pane e del vino che nel cenacolo diede ai discepoli, Gesù disse che erano il suo corpo e il suo sangue; giustamente noi diciamo altrettanto del pane e del vino che sono sui nostri altari: diciamo infatti che sono il sacramento del suo corpo e del suo sangue. 
[21] «Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che versato per molti”» (Mc 14, 22-24).
[22] «Mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò­ e, mentre lo dava ai discepoli, disse: “Prendete, mangiate; questo è il mio corpo”. Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati”» (Mt 26, 26-28).
[23] «E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio”. Poi preso il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi”» (Lc 22, 17-20).
[24] «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria ­di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”» (1Cor 11, 23-25).
[25] «…il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6, 51c).
[26] J. Jeremias, La dernière cène. Les paroles de Jésus (Lectio divina, 75), Cerf, Paris 1967, 163.
[27] Ibid., 218.
[28] Ibid., 223.
[29] E. Mazza, L’anafora eucaristica. Studi sulle origini (Bibliotheca Ephemeri­des Liturgicae. Subsidia, 62), CLV, Roma 1992.
[30] H. Schürmann, Der Einsetzungsbericht Lk 22, 19-20, Münster 1955.
[31] Su questa base venne elaborata da Annie Jaubert una nuova ipotesi interpretativa basata sul doppio calendario in vigore nel Giudaismo. E dunque nessuna contraddizione tra le due cronologie che, essendo basate su due diversi calendari, potevano essere entrambe vere. Si è trattato di un’ipotesi ingegnosa che però non è mai stata dimostrata dato che non si può sapere se i due differenti calendari fossero egualmente diffusi al punto da essere contemporaneamente in vigore a Gerusalemme al tempo di Gesù.
[32] La questione è stata riassunta ed esposta da G. Visonà, al quale rimando: Pasqua quartodecimana e cronologia evangelica della passione, in Ephemerides liturgicae, 102(1988), 259-315.
[33] Cf. su tutto questo R. Cantalamessa, L’omelia “In S. Pascha” dello Pseudo-Ippolito. Ricerche sulla teologia dell’Asia minore nella seconda metà del II secolo, Vita e Pensiero, Milano 1967; Idem., La pasqua nella chiesa natica (Traditio christiana, 3), SEI, Torino 1978.
[34] Il culmine è stato raggiunto con il Concilio Vaticano II che mette la liturgia, nella sua totalità, in rapporto con la Pasqua. Ciò vale soprattutto per l’eucaristia che viene senz’altro considerata come mistero pasquale (Sacrosanctum Concilium, n. 5 e n. 61, ecc).
[35] In area germanica è prevalso l’uso di chiamare Deutewort le parole che accompagnano il calice e il pane e che hanno lo scopo di illustrare la natura e la funzione del pane e del vino dell’ultima cena. Queste parole, dal punto di vista letterario, hanno effettivamente una funzione esplicativa e nessun’altra. Dal punto di vista della teologia occidentale, invece, hanno anche un altro ruolo che viene detto “consacratorio”.
[36] K.H. Rengstorf, Il vangelo secondo Luca (Nuovo Testamento, 3), Ed. Paideia, Brescia 1980, 410.

[37] J. Jeremias, La dernière cène. Les paroles de Jésus, op. cit., 131.

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