La cena del Signore. Genesi e sviluppo del rito
IntroduzioneLa Chiesa custodisce due immense ricchezze, a lei affidate affinché possa essere nel mondo luce di salvezza per ogni uomo: la Parola e l’Eucaristia. Il Vangelo che rivela al mondo l’amore di Dio e che converte il cuore degli uomini e l’Eucaristia, culmine dell’incontro salvifico con Dio attraverso il mistero pasquale e sorgente inesauribile di amore e di vita per l’umanità intera. Questi inestimabili doni la sostengono nel cammino della storia e, nel contempo, sono i sublimi strumenti con cui trasforma la vita del mondo riconducendola con la forza dello Spirito Santo, che la anima e la vivifica, verso la meta che è Cristo Signore.
Il cammino della Chiesa, pur essendo irto di difficoltà e di prove, di dolore e di sofferenze, è sempre ricolmo della gioia del Risorto: la luce incomparabile della Pasqua la illumina dall’interno nutrendola di luce gioiosa che promana incessantemente dall’Eucaristia, speranza e vita del mondo. Senza questo suo dono di grazia nessuna comunità cristiana può sopravvivere, nessun battezzato può mantenersi fedele. La Chiesa vive della caritas, dell’amore che scorre con forza nelle sue membra attraverso la grazia che lo Spirito effonde e che, attraverso i sacramenti, penetra in profondità nel cuore dei battezzati. L’Eucaristia rinsalda la Chiesa rendendola unico corpo, mistero di comunione e di amore, presenza luminosa del Risorto. Ogni comunità cristiana, così solidamente rafforzata nella sua profondità, vive nel mondo come segno di speranza, soprattutto per chi ha bisogno di quella forza, per chi vive nella sofferenza e nella necessità, per chi vive nella prova quotidiana della malattia e del dolore e che spesso vive tutto questo in un forzato isolamento, impossibilitato a vivere in comunione tangibile con il resto della comunità cristiana.
Gli ammalati che trascorrono la loro vita nella solitudine della loro casa, i loro stessi parenti che ne condividono il dolore e che sono anch’essi costretti a trascurare la messa domenicale, i momenti comunitari della preghiera, le gioie delle feste cristiane. La Chiesa non ha mai dimenticato l’importanza di essere vicini a tutti coloro che, come battezzati, sono in comunione con la comunità, pur non potendo condividerne l’assemblea. Tra i suoi ministeri ha sempre tenuto presente quelli che rispondono all’esigenza autentica di tutti coloro che, pur con i loro impedimenti, vogliono ugualmente partecipare all’Eucaristia della comunità.
Il ministero straordinario della comunione risponde proprio a questa esigenza e rappresenta la risposta amorosa della comunità cristiana a coloro che desiderano vivere la comunione nel l’unico Corpo e nell’unico Sangue del Signore. Le sue caratteristiche peculiari non devono però essere dimenticate e travisate.
Innanzitutto è un ministero, ovvero un compito per il bene comune, che la Chiesa affida ad alcuni battezzati. Come ogni ministero non è un diritto, ma un dono: nessun battezzato può arrogarsi il diritto di ricevere un ministero. La Chiesa discerne un carisma dello Spirito riconoscendone l’autenticità e quindi conferisce un ministero corrispondente perché l’intera comunità possa fruire delle grazie di quel carisma. La parola ministero ci ricorda inoltre che chi lo riceve è chiamato ad amministrare beni di altri, non i propri, a essere sempre timoroso di vedersi affidare una ricchezza che non gli è propria e di cui dovrà rendere conto. Si tratta di vivere con amore il dono ricevuto e di gioire con gratitudine perché siamo chiamati a portare l’Eucaristia ai fratelli sofferenti e ad essere strumenti della comunione della Chiesa.
Inoltre è straordinario, cioè non è un ministero ordinario della comunione, come succede per i vescovi, i presbiteri e i diaconi, ma è un ministero che straordinariamente viene conferito a coloro che collaborano con il parroco sovvenendo ad alcune specifiche necessità della comunità cristiana, in special modo alla comunione dei battezzati malati. È una possibilità stupenda di vivere in profondità il nostro battesimo inserito nella ministerialità della Chiesa, amplificando i ministeri ordinari attraverso l’esercizio di quello straordinario. Ciò significa che dove ci sono i ministri ordinari, quelli straordinari non agiscono, in quanto il loro compito è proprio quello di sostituirli quando non ci sono o sono impediti dal poter esercitare il loro compito.
Infine è un ministero di comunione. Significa che con il suo esercizio la vita di comunione della Chiesa si accresce e si rafforza, significa che i Ministri straordinari della comunione sono custodi dell’amore e della comunione della loro comunità cristiana. Saranno modelli di fedeltà e di preghiera, saranno sempre disponibili a pacificare, congiungere, unire i cuori, colmare i dissidi, dissipare le ombre. Essere ministri della comunione significa essere coerenti con il mistero pasquale che celebriamo testimoniandolo con i nostri gesti. Le azioni di un ministro devono sempre mostrare, come in trasparenza, l’azione di Colui che rappresenta; portare ad un ammalato l’Eucaristia significa essere presenza d’amore autentico ripetendo il gesto di Colui che ha dato la sua vita per noi.
Lo stile di vita del ministro deve dunque essere in consonanza con il ministero che esercita soprattutto per quanto riguarda lo spirito di preghiera e la santificazione personale.
Il ministro è come una lampada posta sul lucernario che deve dare luce a tutta la casa. La sua vita, spirituale e familiare, deve essere un punto di riferimento per ogni battezzato che deve trovare in lui un fratello con cui condividere le difficoltà e le gioie della fede e soprattutto un sostegno su cui poggiare la propria debolezza fisica e spirituale.
Tutto ciò non deve scoraggiarci ma sicuramente deve porci in un atteggiamento di prudenza e di rispetto nei confronti del sacramento che amministriamo. Il rispetto cristiano verso Dio e le sue cose viene chiamato “timore di Dio” che non significa paura di Dio, cosa impossibile dopo aver conosciuto il suo infinito amore per noi, ma rispetto filiale nei confronti di Colui che ci dona la sua grazia e ci chiede di amministrarla.
Viviamo con questo spirito il nostro ministero nella Diocesi di Frosinone – Veroli – Ferentino, questa meravigliosa comunità cristiana in cui il Signore ci ha chiamati a servirlo.
Sentiamoci grati di essere stati chiamati dal Signore ad aiutare i fratelli delle nostre comunità parrocchiali, trasformiamo la nostra vita plasmandola ad immagine dell’Eucaristia che è affidata alle nostre mani, nella fede in Colui che ci ama donandoci la sua Vita.
Dentro questa prospettiva si capisce la normativa diocesana per il Ministero Straordinario della Comunione. Indicazioni preziose che intendono sostenere questo bellissimo servizio ecclesiale fornendo quell’aiuto e supporto che prende più idoneo il ministero affidato.
Genesi e sviluppo del rito della cena del Signore
Chi fosse abituato a una liturgia come quella dell’ultima cena, nel cenacolo, o a quella descritta nel libro VII delle Costituzioni apostoliche, farebbe fatica a ritrovarsi in una liturgia come quella, ad esempio, del Pontificate di Guglielmo Durando. Effettivamente la liturgia eucaristica è differente a seconda dei vari secoli e delle differenti chiese. Bisogna dunque riconoscere che se si vuole trattare della liturgia eucaristica è necessario fare un’opera storica.
Lungo i secoli la liturgia eucaristica non ha mai camminato da sola: è sempre stata accompagnata dalle interpretazioni che nelle varie epoche le sono state date, al punto che, talvolta, la celebrazione è stata trasformata per corrispondere meglio all’interpretazione. L’interpretazione, ossia la teologia sacramentaria, nasce dal rito, ma, trasformatasi nel tempo, si riflette sul rito e lo riforma. Non si può trattare della liturgia eucaristica senza affrontare contemporaneamente l’interpretazione che ne è stata data lungo i secoli. Per questo motivo dobbiamo accostarci sia al dato liturgico, sia alla sua interpretazione nella storia ossia la teologia eucaristica.
Prima vogliamo affrontare il tema riguardante l’origine e lo sviluppo dell’eucaristia e successivamente la teologia eucaristica a seconda dei vari autori, Padri della chiesa e medievali, che ho scelto come esponenti caratteristici delle maggiori tappe dello sviluppo del pensiero sull’eucaristia nella storia. Quando si sceglie di presentare il pensiero di un autore si sceglie di escluderne un altro: è fatale; mi rendo conto che ho dovuto escludere autori che sono di primo piano!
Che cos’è dunque l’eucaristia? L’eucaristia è imitazione dell’ultima cena, e questa è figura e annuncio della passione: si tratta di due dati costanti nelle preghiere eucaristiche della chiesa delle origini. Gli stessi dati hanno guidato la riflessione dei Padri della chiesa dei primi quattro secoli. In quest’epoca, dunque, la teologia si è mossa all’unisono con la liturgia, conservando le stesse concezioni e le stesse categorie interpretative. Qui la concezione dell’eucaristia è costantemente affermata come obbedienza al mandato di Cristo, «Fate questo in memoria di me», e imitazione del rito del cenacolo. Allo stesso modo, tutti gli elementi del rito saranno imitazione dei vari elementi presenti nella celebrazione del cenacolo: il pane, il vino, la preghiera eucaristica e il sacerdote stesso. Antitypa[1] è il vocabolario che troviamo nelle più arcaiche liturgie per designare il pane e il vino della cena eucaristica. Per rendere ragione di questo dato e per comprendere questa terminologia è necessario elaborare un’interpretazione tipologica della cena eucaristica, dato che il termine antitypos, e il suo correlativo typos, hanno la loro origine nella tipologia che, nell’epoca delle origini cristiane e nell’epoca patristica, è il principale sistema di interpretazione delle Scritture. Questa terminologia viene utilizzata in due ambiti diversi ma strettamente collegati: nell’interpretazione delle Scritture e nella descrizione della liturgia.
L’uso di Antitypa per designare il pane e il vino dell’eucaristia significa che questi elementi hanno la loro corrispondenza nell’ultima cena che è concepita come modello[2]. Anche se la terminologia non è fissa ma fluttuante, l’ultima cena è il tipo mentre l’eucaristia della chiesa è l’antitipo: l’antitipo corrisponde al tipo. La nozione di imitazione (tipo-antitipo) svilupperà quell’interpretazione dell’eucaristia che, facendo uso di categorie filosofiche, descriverà il valore ontologico del sacramento del corpo e sangue di Cristo.
L’eucaristia come figura del corpo e del sangue di Cristo e come figura della sua morte, è al centro della trattazione patristica e viene passata alle epoche successive che mal comprenderanno il vocabolario della sacramentalità che era stato formulato in modo figurale e tipologico. Alla concezione figurale, ormai declassata ad allegoresi, succede una nuova concezione basata sulla nozione di presenza. Elaborata con ampiezza nel Medioevo, questa nozione è divenuta il modo per antonomasia di formulare la teologia dell’eucaristia. Il tema della presenza entra nel magistero della chiesa e ha il suo apice nel concilio di Trento.
Con il concilio Vaticano II è stata avviata una profonda riforma liturgica che ha attinto alle fonti di epoca patristica per preparare nuove preghiere eucaristiche da inserire nel Messale. Contemporaneamente, per interpretare il «sacrificio» eucaristico è stata usata la categoria della repraesentatio che, però, pare essere solo una variante della nozione di praesentia, applicata agli eventi della redenzione.
La domanda finale, ci porremo, è se il cristianesimo di oggi può comprendere l’eucaristia in base alle categorie figurali e tipologiche delle origini cristiane, conservando loro la stessa accezione di allora: typos-antitypos, figura corporis, similitudo sanguinis, figura mortis eius, sacramentum, ecc. La risposta è positiva: nonostante il diverso ambiente culturale, e la differente cultura filosofica di riferimento, la ricerca biblica è arrivata a interpretare l’ultima cena come figura e annuncio della passione, dando a questa concezione un valore ontologico non diverso da quello dell’epoca patristica, anche se viene espresso in modo molto diverso senza ricorrere alle categorie dell’epoca patristica.
I. Sacrifici dell’Antico Testamento e pasto rituale
Per illustrare l’eucaristia cristiana, l’Antico Testamento può essere utilizzato in più modi, che sono riconducibili a due differenti metodi: il metodo tipologico e il metodo storico.
Con il metodo tipologico si illustra come l’antica legge sia figura della nuova, e, di conseguenza, in che modo abbia il suo compimento nelle realtà neotestamentarie. In questa ottica anche la celebrazione eucaristica si presenterà come realizzazione dei tipi anticotestamentari, come Melchisedech, la manna e i vari tipi di sacrificio. Questo metodo è particolarmente adatto per illustrare l’eucaristia nel suo valore salvifico[3].
Con il metodo storico si mettono in luce i rapporti tra la liturgia neotestamentaria e i riti anticotestamentari, cercando di mostrare come la liturgia cristiana derivi da quella giudaica, con quali forme e strutture rituali, attraverso quali vie e con quali trasformazioni.
L’eucaristia cristiana nasce dall’ultima cena di Gesù, che è tributaria del quadro rituale delle cene giudaiche. Anzitutto dovremo esaminare quale sia l’origine del pasto rituale giudaico, poi metteremo in evidenza il legame della liturgia del pasto giudaico con la liturgia della cena del Signore. Il punto di partenza, dunque, sarà il rito giudaico del pasto, lasciando da parte la teologia che gli viene attribuita, dato che il nesso è tra le due strutture rituali, e questo nesso è indipendente da considerazioni teologiche. L’indagine sul pasto rituale giudaico e sulla sua origine ci mette in contatto con l’area dei sacrifici giudaici, e quindi dovremo anzitutto occuparci di questi ultimi.
1. Abbattimento degli animali in Dt 12, 15
Fino al Deuteronomio ogni abbattimento di animali aveva carattere rituale e quindi rientrava nell’area del sacrificio; solo dopo Dt 12, 20-25 abbiamo la distinzione tra l’abbattimento per il sacrificio e l’abbattimento per la semplice manducazione. L’abbattimento rituale si compie sull’altare[4].
La seconda parte del libro del Deuteronomio si divide in quattro sezioni:
1) il culto (12, 1 – 16, 17);
2) l’organizzazione dello Stato (16, 18 – 20, 20);
3) il diritto familiare (21, 1 – 23, 1);
4) leggi di purità, leggi sociali e diverse.
Questo insieme si chiama Codice deuteronomistico e costituisce un’unità che fa corpo con il resto del libro. Le leggi sono impiantate su motivazioni teologiche, come: il dono del paese di Canaan, la benedizione promessa a Israele, la liberazione dall’Egitto. Se l’impianto teologico è molto ben fatto, la determinazione e la qualità giuridica delle leggi è molto approssimativa, dato che non si tratta di un codice e neanche di una costituzione, nel senso odierno dei termini. Forse è meglio dire che questo codice, «come il resto del libro, è una catechesi, ma orientata verso le applicazioni pratiche»[5] che, conseguentemente, comportano anche una valenza giuridica. A prima vista il Deuteronomio sembra parlare in astratto per un’epoca indeterminata ma, a ben vedere, la collocazione storica è precisa: Israele è uno Stato a base nazionale come tutti quelli che apparvero in Siria-Palestina alla fine del II millennio: Edom, Moab, Ammon, Fenicia, Aram, ecc. Questi Stati si presentano caratterizzati da un vivo sentimento nazionale e da un’organizzazione democratica. Lo Stato è monarchico e tende a centralizzare la vita religiosa e civile del paese: tutto ciò che è legato al nomadismo tende a sparire, soppiantato dalle istituzioni della sedentarietà. Il Deuteronomio riflette questa situazione di passaggio propria del tempo in cui, ad esempio, l’evoluzione verso la centralizzazione del culto non è ancora terminata (12, 8-12; 18, 1-8). L’ideale di questo progetto del Deuteronomio può essere riassunto in due voci: fedeltà all’alleanza e unità. In questa prospettiva, il progetto diventa concreto col cercare di colmare il fossato che separa l’Israele religioso dall’Israele politico. Infatti gli Stati di Giuda e di Israele non hanno più molto in comune con la lega di tribù alla quale si indirizzavano le alleanze e le leggi. Il Codice deuteronomistico deve assumere le varie istituzioni civili e metterle al servizio del suo ideale jahwista, ossia di tutta la storia del popolo di Dio. Il Codice approva nuove istituzioni che aumentano il potere dello Stato a danno delle antiche autonomie locali, con lo scopo di rafforzare l’unità del popolo e farne una nazione solida e organizzata.
Ecco la prospettiva che regge la nuova legislazione del culto che, a causa di questa, dovrà essere accuratamente controllato e centralizzato. Gli antichi santuari locali ove si è lentamente manifestato e imposto il jahwismo cesseranno di essere riconosciuti e il culto «legittimo» potrà essere celebrato solo nel santuario centrale. Il santuario è legittimo per due caratteristiche:
a) è stato scelto da Jhwh;
b) è unico.
A partire da Ezechia il santuario unico non poteva essere che quello di Gerusalemme, ma il Deuteronomio resta nel vago, forse per non ratificare il grande ruolo che la dinastia davidica si è dato. La riforma di Ezechia non può spiegarsi che per l’esistenza di una precedente tradizione già parzialmente codificata (2Re 18, 4-22; 2Cr 31, 1). Dall’VIII secolo a.C. esiste una corrente di pensiero, della quale sono portatori alcuni profeti, decisamente favorevole all’unicità del santuario (Am 4, 4-5; Os 4, 13-15) con l’esplicita condanna degli altri luoghi di culto. Questa lunga premessa è stata necessaria per poter comprendere l’evoluzione dell’organismo sacrificale in Israele.
Nella concezione della liturgia propria del Deuteronomio, il sacrificio tipo è il «sacrificio di comunione», costituito dal l’uccisione della vittima, dalla sua dissezione in varie parti.
Alcune di queste verranno bruciate sull’altare, altre date ai sacerdoti e altre ancora verranno date agli offerenti perché ne mangino in un «pasto sacro» familiare, all’insegna della gioia e dell’azione di grazie[6]; la parte che spetta agli offerenti è la più consistente.
Questi dati hanno un’importanza non solo di tipo teologico, ma soprattutto di tipo storico. Il sacrificio di comunione, con la sua ritualità, è il modo usuale per praticare l’abbattimento degli animali, ma con la centralizzazione del luogo di culto inizia un nuovo periodo della storia del sacrificio giudaico: compare l’abbattimento non rituale degli animali.
Ecco la norma del Deuteronomio: «Guardati bene dall’offrire i tuoi olocausti in qualunque luogo avrai visto. Offrirai, invece, i tuoi olocausti nel luogo che il Signore avrà scelto in una delle tue tribù: la farai quanto ti comando. Ogni volta, però, che ne sentirai bisogno, potrai uccidere animali e mangiarne la carne in tutte le tue città, secondo la benedizione che il Signore ti avrà elargito» (12, 13-15). In questo testo possiamo vedere come e perché l’abbattimento del bestiame diventa un fatto profano, lecito in ogni circostanza, senza bisogno dei riti sacrificali; indirettamente, questo testo trasmette anche un’altra informazione: prima del Deuteronomio ogni abbattimento di bestiame, anche a scopo puramente alimentare, era un atto sacro, retto da norme liturgiche. Nelle società nomadi non si poteva uccidere un animale domestico e mangiarlo senza un atto liturgico. Ogni macellazione era un sacrificio[7].
Il rito consisteva essenzialmente nell’offrire il sangue, simbolo della vita (12, 24), in una effusione sull’altare o anche sulla pietra[8].
Con il Deuteronomio il santuario è unico: ne sarebbe seguito che ogni famiglia, bisognosa di carne per il pasto, avrebbe dovuto recarsi in pellegrinaggio al santuario e lì uccidere ritualmente l’animale. La cosa sarebbe stata veramente improponibile. Le possibili soluzioni erano due:
a) proibire di mangiare carne al di fuori dei sacrifici del santuario legittimo, così come decide il Codice di Santità in Lv 17, 3-4;
b) ammettere la macellazione come atto profano.
Il Deuteronomio sceglie questa seconda possibilità riconoscendo così l’autonomia del mondo profano e facendo recedere la mentalità nomade che, a quel tempo, era ormai anacronistica. Dopo che il rito di macellazione è stato trasformato in atto profano, viene ribadita la stretta sacralità di altre azioni che, invece, possono essere compiute solo al santuario[9]. Utilmente si può vedere anche il testo di Dt 12, 20-27 che riprende, con un linguaggio più evoluto, i due passi precedenti sull’abbattimento degli animali e sull’offerta delle primizie e dei voti al luogo di culto.
2.1. Pasto rituale è un sacrificio?
Dato che il pasto rituale nasce all’interno della storia del sacrificio giudaico, possiamo affermare che c’è un nesso tra il sacrificio e la liturgia del pasto giudaico; tuttavia, nello stesso tempo, dobbiamo negare che il pasto abbia un qualsivoglia carattere sacrificale, dato che nasce dalla riforma dell’abbattimento degli animali, quando si instaura la distinzione tra l’abbattimento profano e l’abbattimento sacrificale.
In conclusione, il pasto rituale giudaico è una delle tappe in cui si articola la storia dei sacrifici anticotestamentari, ma non si può dire che il pasto rituale, nemmeno a causa della liturgia che lo accompagna[11], sia un sacrificio o abbia carattere sacrificale.
2.2. Preghiera fondamentale del pasto giudaico
I rabbini hanno colto molto bene il rapporto tra il pasto e la preghiera di azione di grazie che lo conclude, e si sono chiesti da dove provenga l’obbligo di recitare una tale preghiera. La risposta viene trovata in Dt 8, 10 che viene presentato come il comando divino che istituisce la «cena» giudaica. Da questa istituzione divina scaturisce la teologia e l’obbligazione giuridica della preghiera alla fine dei pasti; questa preghiera è la Birkat ha-mazon[12].
Ovunque c’è un pasto, purché di consistenza superiore a un’oliva di medie dimensioni, c’è la Birkat ha-mazon.
È molto difficile stabilire il tenore esatto della Birkat ha-mazon dato che non è mai esistito un testo unico, normativo, al quale tutti dovessero conformarsi. Nella regolamentazione della preghiera giudaica ogni tipo di preghiera deve essere recitato a partire da uno schema: all’interno del modello, l’orante è libero di dare forma alla sua preghiera, creandone il testo che, quindi, risulterà improvvisato al momento. Di conseguenza risulta difficile avere testimonianze precise sul testo della Birkat ha-mazon. Tra l’altro esistevano precisi divieti di trasmettere le preghiere per iscritto[13].
Dai non molti testi a noi pervenuti, si è cercato di ricostruire un testo che possa servire da schema generale della Birkat ha-mazon. Ecco il testo proposto da Finkelstein[14]:
a) Benedetto tu Signore, Dio nostro, re dell’universo, che nutre l’universo mondo con bontà, benignità e misericordia. Benedetto tu, Signore, che nutri l’universo.
b) Ti rendiamo grazie, Signore, Dio nostro, che ci hai dato in eredità una terra desiderabile affinché mangiamo dei suoi frutti e ci nutriamo della sua bontà. Benedetto tu Signore, Dio nostro, per la terra e per il cibo.
c) Abbi pietà, Signore Dio nostro, di Israele tuo popolo e di Gerusalemme tua città e di Sion sede della tua gloria e del tuo altare e del tuo santuario. Benedetto tu Signore che edifichi Gerusalemme.
Bisogna tener presente che questo schema è una ricostruzione operata da Finkelstein, che la presenta come una sorta di modello-base. Questo testo come tale non è mai esistito, e quindi non può essere adoperato se non con estrema cautela. Purtroppo molti fanno riferimento a questo schema, senza occuparsi dei testi realmente esistiti che, invece, sono molto più interessanti a causa dei paralleli che presentano con la successiva rielaborazione cristiana. Tra gli altri testi, è di particolare importanza la Birkat ha-mazon del Libro dei Giubilei (22, 6-9), scritto nel 100 a.C. circa: «(6) Ed egli mangiò, bevve e benedì il Dio eccelso che aveva creato il cielo e la terra, aveva fatto tutto il grasso della terra e lo aveva dato ai figli dell’uomo perché mangiassero, bevessero e benedicessero il loro Creatore. (7) "Ed anche ora io ti ringrazio, mio Dio, perché mi hai fatto vedere questo giorno. Ecco, sono di centosettantacinque anni, vecchio, completo di tempo e tutti i miei giorni sono stati buona salute. (8) La spada del nemico non mi ha vinto in tutto quel che hai fatto a me ed ai miei figli, ogni tempo della mia vita, fino ad oggi. (9) Sia, o mio Dio, la Tua benevolenza sul Tuo servo e sulla discendenza dei suoi figli, affinché Ti sia popolo eletto ed eredità fra tutti i popoli della terra, da oggi fino a tutto il tempo delle generazioni della terra, per tutti i secoli"»[15].
La Birkat ha-mazon esprime il senso che il pasto ha nel giudaismo. La terra è stata data da Jhwh al popolo ebraico come pegno dell’alleanza. Nel rito di stipula o di rinnovamento dell’alleanza, la manducazione dei prodotti del paese è, per ciò stesso, accettazione dell’alleanza; nella Birkat ha-mazon alla fine dei pasti vengono ripresi proprio questi temi e, quindi, possiamo concludere che, in ogni pasto, il pio israelita celebra e fa memoria del dono della terra che è pegno dell’alleanz[16].
1. Ultima cena
L’origine dell’eucaristia cristiana è nell’ultima cena: Gesù prese il pane, benedisse Dio, spezzò il pane e lo diede ai suoi discepoli dicendo che lo prendessero e ne mangiassero perché quello era il suo corpo; allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice, rese grazie, lo diede ai suoi discepoli dicendo che lo prendessero e ne bevessero tutti perché quello era il calice dell’alleanza nel suo sangue. Alla fine egli disse: Fate questo in memoria di me. Con questa azione egli pose un modello affinché noi facessimo altrettanto, ossia affinché facessimo ciò che egli stesso aveva fatto. Ecco che cos’è l’eucaristia: obbedire al comando di Cristo e fare ciò che egli stesso ha fatto.
Il pane e il vino, gli elementi di questa cena rituale, sono specificati dalle due preghiere che li accompagnano: la benedizione per il pane, e il rendimento di grazie per il calice.
Queste preghiere che Gesù recitò alla cena sono l’origine e il modello della preghiera eucaristica, o anafora, della chiesa. Infatti a partire da quei due testi di rendimento di grazie nacque uno sviluppo testuale molto complesso che ci conduce fino ai testi anaforici che si trovano oggi nel Messale della Chiesa romana.Dobbiamo dire dunque che i testi di oggi sono estremamente fedeli alla tradizione che ebbe origine nel cenacolo. Per usare un’espressione di sapore giornalistico, possiamo dire che l’eucaristia di oggi resta in presa diretta con l’eucaristia di Gesù nel cenacolo[17].
2. Importanza della preghiera eucaristica
Nell’ultima cena ci sono stati due tipi di elementi che hanno caratterizzato il rito celebrato da Gesù, e lo hanno reso differente da ogni altro analogo rito e da ogni altra cena, comune o profana o religiosa, a base di pane e vino. Si tratta sia delle parole esplicative sul pane e sul calice, sia delle varie preghiere di benedizione e di azione di grazie recitate da Gesù nel cenacolo.
I discepoli di Cristo hanno ricevuto dal maestro il comando: Fate questo in memoria di me, e con fedeltà hanno iniziato a celebrare una cena simile a quella celebrata dal maestro. Fin dalle prime testimonianze questa liturgia viene chiamata eucaristia, termine greco che significa azione di grazie e che designa sia la preghiera di azione di grazie che viene recitata a imitazione di quella di Gesù, sia il pane e il vino che sono gli elementi costitutivi di questa cena rituale[18].
Dato che la messa è obbedienza al comando di Gesù e imitazione[19] della sua cena nel cenacolo, ne segue che la preghiera eucaristica è ciò che determina la natura stessa dell’eucaristia della chiesa.
Come la preghiera eucaristica è imitazione dell’azione di grazie di Gesù nel cenacolo, allo stesso modo gli elementi costitutivi di quella cena, il pane e il vino, saranno come il pane e il vino di Gesù nel cenacolo, ossia, per usare il termine tecnico, somiglianza[20] del pane e del vino del cenacolo, e quindi del corpo e sangue di Cristo.
Il comando di Gesù nell’ultima cena riguarda tutto ciò che egli ha compiuto nella cena rituale; egli ha riassunto tutti questi elementi nel dimostrativo «questo»: Fate «questo» in memoria di me.
Tuttavia si deve rilevare che l’eucaristia della chiesa è ben diversa dal rito dell’ultima cena; infatti l’ultima cena è anche un pasto a tutti gli effetti, nel quale i partecipanti si nutrono come in ogni altro pasto, mentre nella messa, già dal II secolo, non c’è più alcun rapporto con la cena e il rito eucaristico è separato dal pasto. Inoltre nella cena di Gesù ci sono due preghiere di azione di grazie ben distinte e separate, una per il pane e una per il calice, mentre nella messa ce n’è una sola, la preghiera eucaristica o anafora, che vale tanto per il pane quanto per il calice, dato che il rito del pane è completamente fuso con il rito del calice.
Posto questo, è evidente che la chiesa delle origini ha fatto un’operazione di reinterpretazione a proposito del dimostrativo «questo». Il rito dell’ultima cena è stato reinterpretato dalla chiesa apostolica in modo da mettere in luce quali fossero gli elementi normativi e quali no. Ossia, in altri termini, quali fossero gli elementi essenziali perché la cena rituale della chiesa si configurasse come esecuzione fedele del comando: Fate «questo» in memoria di me, e lo fosse effettivamente. Questa reinterpretazione dell’ultima cena è già compiuta quando viene redatto il Nuovo Testamento. La cena infatti non è stata narrata con tutti i dettagli rituali, come in una cronaca, bensì in prospettiva liturgica, ossia come «il modello» lasciato da Gesù affinché facessero altrettanto.
L’ultima cena non è solo un modello rituale, ma ha un ruolo suo proprio, nella vita di Gesù, sia come sintesi della sua opera, sia come annuncio «in atto» della passione e della croce. A questo punto della nostra trattazione bisogna fermare l’attenzione sull’ultima cena come modello della celebrazione della chiesa, perché è in questa prospettiva che il Nuovo Testamento costruisce e trasmette il racconto dell’istituzione. Nei racconti neotestamentari vengono descritte le azioni di Gesù che la chiesa deve eseguire, e sono le seguenti:
1) prese il pane, 2) rese grazie, 3) lo spezzò, 4) lo diede, 5) dicendo...;6) prese il calice,7) rese grazie,8) lo diede,9) dicendo...
Perché sia obbedienza al comando di Cristo, dunque, la celebrazione della chiesa deve comportare tutte queste azioni che appartengono al rito che Gesù ha dato come modello. Di conseguenza sono queste le parti che vanno giudicate come essenziali e costitutive del rito della chiesa.
Infatti l’eucaristia della chiesa è «conforme» e «corrispondente» al rito compiuto da Gesù nel cenacolo proprio perché è costituita dalla serie di azioni che abbiamo appena elencato. Nel linguaggio della patristica il rito compiuto da Gesù nell’ultima cena è traditio mysteriorum, e, di conseguenza, typos (= modello) della celebrazione la quale si chiamerà mistero, antitypos e, con una parola più vicina a noi, sacramento.4. Rito dell’ultima cena
4.1. Due tradizioni sull’ultima cena
Il Nuovo Testamento ha quattro narrazioni dell’ultima cena, appartenenti a due diverse tradizioni, indipendenti l’una dall’altra: da un lato abbiamo la tradizione di Marco[21] e Matteo[22] e dall’altro abbiamo Luca[23] e Paolo[24]. A questi si aggiunge una terza tradizione attestata da una frase del vangelo di Giovanni che riporta soltanto le parole di Gesù sul pane[25]. Dal punto di vista letterario il testo di Paolo è il più antico, redatto probabilmente nella primavera del 54[26], ma la tradizione paolina sull’eucaristia si sarebbe formata prima, dato che Paolo fa riferimento a «ciò che io vi ho trasmesso», e ciò è verosimilmente accaduto nell’autunno del 49, all’inizio della sua attività missionaria a Corinto. Paolo dice inoltre che ciò che egli trasmette è ciò che ha ricevuto. Ma quando lo ha ricevuto? Forse alla sua conversione! I contatti tra la redazione paolina, quella lucana e quella giovannea suggeriscono che Paolo riproduce la tradizione ellenistica del racconto dell’ultima cena in uso nella comunità antiochena. Questo rapporto viene confermato anche dalla vicinanza che c’è tra la struttura del racconto dell’ultima cena di Lc 22, 17-20 e la struttura dell’eucaristia testimoniata in 1Cor 10, 16-17 e Didachè 9-10.
La redazione lucana è più primitiva di quella di Paolo e, secondo Jeremias, risale agli anni 40.
Prima di Luca ci sarebbe stata la redazione di Marco, un testo pieno di semitismi che, linguisticamente, è più vicino alla primigenia redazione aramaica/ebraica dell’ultima cena, mentre la redazione di Matteo non è che una variante che grecizza Marco[27]. Dal punto di vista linguistico Marco riflette più fedelmente la tradizione semitica e, di conseguenza, la data di composizione sarebbe anteriore a quella di Luca, e andrebbe collocata nella prima decade dopo la morte di Cristo[28].
Abbiamo visto la questione cronologica dei racconti dell’ultima cena, che è stata determinata con argomenti fondati prevalentemente sulla forma letteraria del testo e sulla sua evoluzione. Tuttavia, in ordine al nostro problema sulla miglior conoscenza dei fatti dell’ultima cena, dobbiamo negare che Marco, rappresentando la più antica redazione, sia un testo da privilegiare. Sarebbe da privilegiare se fosse esistito un racconto originario unico (Urtexte) dell’ultima cena, e se da questa unica fonte avessero avuto origine le altre narrazioni giunte fino a noi. In questo caso, e solo in questo caso, il testo letterariamente più arcaico è in grado di dare garanzie migliori che gli altri testi. L’ultima cena, come ben sappiamo, è stata narrata dalle varie tradizioni a seconda del kerygma delle varie chiese e a seconda della loro usanza liturgica. La forma della narrazione, oltre che ai bisogni del kerygma, serve anche all’uso liturgico, ossia serve a costruire il racconto dell’ultima cena in modo da rendere ragione dello svolgimento della liturgia cristiana. Luca è un testo fortemente grecizzato, ma ciò non toglie che sia un testo molto arcaico. Agli argomenti di tipo linguistico e letterario bisogna aggiungere gli argomenti liturgici, con particolare attenzione alla struttura dei riti che compongono l’ultima cena[29].
Per sapere quale sia la narrazione che meglio corrisponde agli eventi dell’ultima cena dobbiamo percorrere una via differente dalle considerazioni puramente linguistiche; dobbiamo considerare soprattutto i dati rituali, ossia dobbiamo prendere in esame il costume della cena rituale giudaica, e valutare quali siano i dati neotestamentari che sono meglio compatibili con questo uso. È in base a questi argomenti che il racconto lucano acquista un’importanza tutta particolare per delineare la storia dell’eucaristia nelle sue prime battute. Al seguito di Heinz Schürmann[30] ritengo che il testo di Luca vada considerato la redazione più primitiva dell’ultima cena.
4.2. Cena pasquale o non pasquale
Per i vangeli sinottici l’ultima cena fu una cena pasquale, mentre per il vangelo di Giovanni non si trattò di una cena pasquale. Secondo Giovanni, infatti, la morte di Cristo sarebbe avvenuta alla vigilia di Pasqua, nello stesso momento in cui venivano uccisi gli agnelli al tempio e una cena senza agnello pasquale, e fatta prima di Pasqua, non avrebbe potuto essere una cena pasquale. Dato che i vangeli sinottici si presentavano come più attendibili sul piano storico, mentre il vangelo di Giovanni era meglio caratterizzato sul piano simbolico, la preferenza andava alla cronologia sinottica della passione piuttosto che alla cronologia giovannea; erano i sinottici che meritavano fiducia e, dunque, l’ultima cena era una cena pasquale. Crescendo il livello di comprensione del simbolismo del vangelo di Giovanni si è visto che anche Giovanni aveva interesse per i dati storici e che, pertanto, anche la cronologia giovannea della passione meritava attenzione[31].
Oggi i critici si muovono su di un altro piano, privilegiando la cronologia giovannea della passione, in base alla quale l’ultima cena non è una cena pasquale[32]. Per impostare correttamente la questione del carattere pasquale dell’ultima cena dobbiamo distinguere tra il valore teologico dell’ultima cena, e il suo valore rituale e storico. Dal punto di vista storico e dal punto di vista rituale nel cenacolo non si tenne una celebrazione pasquale; tuttavia i sinottici si resero conto che l’ultima cena era l’attuazione tipologica della Pasqua ebraica e, di conseguenza, conferirono all’ultima cena un preciso carattere pasquale, organizzandole attorno una cronologia che ponesse l’ultima cena nel momento stesso della Pasqua ebraica. In questa cronologia c’è quindi un’intenzione teologica. La stessa intenzione teologica che si trova nel vangelo di Giovanni che mette la morte di Cristo in contemporanea con l’uccisione dell’agnello pasquale.
Giovanni dà un’interpretazione pasquale alla morte di Cristo, mentre i sinottici rendono pasquale la cena. Anche Paolo è attivo in quest’opera di pasqualizzazione e interpreta in modo pasquale la persona stessa di Cristo, in quanto tale: “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità” (1Cor 5, 7-8)[33]. Il Carattere pasquale dunque è un dato teologico che viene applicato agli eventi della passione e che nel tempo ha pervaso la teologia e la spiritualità della chiesa[34].
Questo dato teologico è un prezioso filo d’oro che attraversa la storia, partendo dal Nuovo Testamento per arrivare fino ad oggi, ma ciò resta nel campo dell’interpretazione teologica. Il dato storico è che l’ultima cena non fu una celebrazione pasquale e che, di conseguenza, la sua liturgia non fu quella della Pasqua ebraica.
4.3. Svolgimento dell’ultima cenaIn Marco e in Matteo viene descritto il rito dell’eucaristia, ma non abbiamo dati per dare una valutazione dell’ultima cena nel suo complesso. Marco ci dice soltanto che Gesù, mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi, prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti” (cf. Mc 14, 22-24). Matteo, dipendente da Marco, non dice di più.
Luca invece è molto più accurato e descrive il rito in modo da mettere in luce quale sia la struttura rituale dell’ultima cena. Nell’ultima cena ci sono tre parti:
- il rito di apertura,
- la cena vera e propria,
- il rito di chiusura.
L’apertura è costituita da due elementi: il rito del calice e il rito del pane, ciascuno accompagnato da parole esplicative[35]. Il rito del calice viene per primo ed è accompagnato da un discorso escatologico: «Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio”» (Lc 22, 14-18). A questo segue il rito del pane che è accompagnato sia dalle parole esplicative sia dal comando di reiterare il rito in memoria di Cristo: «Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”» (Lc 22, 19).
Le parole escatologiche, sul calice, stabiliscono la portata sia della cena pasquale sia del rito del calice che, per sineddoche, sta per l’intero rito col quale si apre la cena, costituito da calice e pane. Il «frutto della vite» non verrà più bevuto e la Pasqua non verrà più mangiata finché giunga il compimento nel regno di Dio. Il presente con le sue tenebre imminenti è già posto alla luce del futuro, cosicché nell’ultima cena viene racchiusa l’immagine del regno di Dio[36]. Nelle parole di Gesù questa cena, che per il suo valore teologico è pasquale, acquista valore «tipico» e diventa modello di quella futura, ossia del banchetto escatologico del regno venturo. Con questo si intende dire che tra l’ultima cena e l’avvento del regno di Dio non ci saranno ulteriori tappe. Le parole sul pane che, come all’inizio di ogni cena, viene spezzato, stabiliscono un chiaro nesso di identità tra il pane e il corpo di Cristo: il pane che Gesù dà da mangiare ai discepoli è il suo corpo.
Terminato il rito di apertura, c’è la cena vera e propria alla fine della quale, secondo il costume giudaico che abbiamo già illustrato, c’è la preghiera di azione di grazie, la Birkat ha-mazon, recitata tenendo in mano il calice che conclude il rito.
In Luca non si dice esplicitamente che l’ultimo calice fu accompagnato da una preghiera di azione di grazie; lo si desume dall’avverbio hosautos che, nel v. 20, si trova in posizione appositiva rispetto al calice: «fece lo stesso con il calice». Questo avverbio vuole dire che le azioni compiute precedentemente vengono compiute anche per il calice. Il calice è accompagnato dalle parole esplicative che dicono: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (Lc 22, 20). Qui termina il racconto della cena, senza che ci sia il comando della reiterazione che, invece, è stato collocato prima, alla fine delle parole sul pane. Questo fatto, unitamente alla maniera sbrigativa con la quale viene introdotto il v. 20 (fece lo stesso; vecchia traduzione: allo stesso modo), senza che si faccia riferimento alla preghiera di azione di grazie, fa ritenere che il v. 20 sia un’aggiunta che Luca ha introdotto successivamente, essendo un dato importante di una sua fonte, mentre lo stadio più antico del racconto di tradizione antiochena (Luca, Paolo) avrebbe comportato solo i vv. 17-19[37].
Possiamo dunque concludere che, secondo Luca, la liturgia celebrata da Gesù nell’ultima cena avrebbe avuto la seguente struttura:
- rito del calice,
- rito del pane,
- cena,
- rito finale del calice.
Ciascuno dei tre riti è stato accompagnato dalla preghiera di azione di grazie.
[37] J. Jeremias, La dernière cène. Les paroles de Jésus, op. cit., 131.