Andare a Messa di don Pietro Jura
Parte II: L'Eucaristia:
- della domenica;
- radunarsi nella propria parrocchia;
- la convocazione di tutti i battezzati;
- il sacerdote, garante di Cristo;
- riferimento a ciò che compie Gesù;
- la preghiera del popolo d’Israele;
- le due liturgie;
- un rituale millenario;
- l’unità della Messa.
1. Andare a Messa
Quella certa domenica esitate a muovervi per andare a messa. Finalmente, vi decidete. Dite piuttosto che è Dio che vi ha fatto decidere. Dio fa uscire ciascuno dalla propria solitudine e dal proprio isolamento per formare un popolo che vive di fede e la cui unità è in Cristo. Ogni volta che andate per la Messa, pensate a quelle parole della Sapienza (Proverbi 9, 5) che risuonano nelle parole di Gesù pronunziate nella sinagoga di Cafarnao: «Venite, mangiate il mio pane; bevete il vino che ho preparato» (Gv 6). Questa Sapienza personificata che «ha imbandito la tavola» e che «proclama il suo invito sui punti più alti della città», questa Sapienza fatta carne, è il Verbo di Dio che ci invita al suo banchetto.
E’ la Chiesa che celebra l’Eucaristia. I cristiani vi sono convocati da Cristo. Lo Spirito Santo li raduna per formare un solo Corpo e rendere grazie a Dio Padre.
2. La messa della domenica
Questa è la prima riflessione che propongo per aiutarvi a vivere meglio la Messa. Insisto di nuovo su questo punto. Temo che molti oggi siano sfasati nel loro comportamento religioso dall’abitudine del «self-service» e dalla comodità del «supermercato» o dei centri commerciali. Soprattutto nelle grandi città, dove le chiese sono numerose. Mi spiego: le grandi superfici urbane offrono i più larghi orari di apertura; presentano gli articoli più ricercati e si adattano ai gusti dei più. E ciò per soddisfare, adescare e conservare i loro «praticanti» (ossia la loro «clientela»). Allo stesso modo alcuni si aspettano di poter trovare ad ogni momento nelle chiese gli articoli di consumo religioso conformi alla domanda di ciascuno, conformi ai desideri dei «praticanti». Ebbene, questo paragone è falso. I «praticanti» non sono una «clientela», né la messa è una «prestazione» modificabile al gusto delle indicazioni del «marketing».
Noi non andiamo a Messa per soddisfare la nostra sensibilità religiosa, né perché il tal giorno e alla tale ora ne abbiamo voglia o bisogno. Noi partecipiamo alla Messa la domenica (che comincia il sabato sera secondo l’antica usanza liturgica), perché il Signore Gesù ci convoca, lo Spirito Santo ci raduna e Dio nostro Padre ci ha donati come di discepoli al Figlio suo.
Certo, questa affermazione urta di fronte a quelli e a quelle che dicono: «Oggi vado a messa nella tale chiesa perché quella mi piace», oppure: «Non vado più a messa? La colpa è dei preti o della Chiesa». Simili affermazioni mostrano quale progresso nella fede devono fare questi discepoli di Cristo per diventare pienamente cattolici.
In effetti, Dio ci convoca così, di domenica in domenica, per rendere visibile il suo popolo e costituirlo mediante il sacramento dell’Eucaristia.
Noi vi riceviamo la grazia destinata ai figli di Dio. In effetti, è nostra dignità, è nostra vocazione rendere gloria al Padre «in Cristo, con Lui e per mezzo di Lui». Dobbiamo considerare come una grazia di Dio l’essere stati «scelti» per far parte del Popolo di Dio, «per compiere alla sua presenza il servizio sacerdotale» (Preghiera eucaristica II), per essere radunati nella Chiesa, il Corpo di Cristo, il Tempio dello Spirito.
3. Radunasi nella propria parrocchia
Ed ecco una seconda riflessione: la Messa parrocchiale mette in luce il carattere specifico di questo raduno di ogni domenica che struttura la vita della chiesa.
La parrocchia? Non voglio qui addentrarmi nei suoi problemi di funzionamento e di organizzazione. Prendo la parrocchia così come l’ha forgiata l’esperienza pressoché bimillenaria del popolo cristiano. Gli uomini e le donne che vi si radunano, non si sono scelti tra di loro. Dio li ha scelti mediante il loro battesimo. Essi si trovano uniti dalla vicinanza fisica, concreta dell’esistenza. Essi sono già «vicini» (fisicamente) in ragione delle necessità quotidiane della loro condizione di vita. Essi devono farsi «prossimi» (evangelicamente) gli uni agli altri (Lc 10, 36-37).
La Messa parrocchiale è celebrata a porte spalancate; essa è accessibile ad ogni cristiano, anche se la Chiesa riconosce ad una comunità monastica o religiosa il diritto di chiudere le sue porte, se ad essa non è fatto carico di un servizio pubblico dei fedeli. Una volta, per soddisfare, come si diceva, al «precetto festivo» (cioè al dovere, per i cattolici, di andare a Messa la domenica), si doveva assistere alla Messa in una chiesa parrocchiale. Forse vi domandate dov’ la differenza.
La Messa è sempre la Messa, sicuramente. Ma la comunità che la celebra, non è senza significato. La Messa della domenica, è un atto pubblico della Chiesa. Questa si raduna attorno al suo vescovo e ai preti che l’assistono nella sua missione di accogliere tutti i fedeli. Ogni domenica, ogni «chiesa particolare» (per parlare come il Vaticano II, intendete «diocesi») rende visibile l’unità cattolica del popolo di Dio. Ogni parrocchia celebra l’Eucaristia in comunione con il proprio vescovo e con il Papa. Il vescovo è il servitore e il garante di questa comunione cattolica aperta a tutti i popoli e a tutti gli uomini.
Ricordate la parabola degli invitati al banchetto di nozze del Figlio del Re (Mt 22, lss). Cristo l’ha raccontata poco tempo prima della sua passione. Il padrone di casa manda a chiamare gli invitati; questi declinano l’invito. Allora egli dice ai servitori: «Andate ai crocicchi delle strade, e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». Così è della Messa domenicale. Tutti vi hanno diritto, quali che siano le differenze sociali, etniche ecc. Tutti hanno gli stessi diritti. Perché tutti si ritrovano davanti a nostro Signore e Padrone di casa che si è fatto servitore di tutti.
L’assemblea eucaristica non è selettiva secondo criteri umani. A chi si presenta alla porta, non si domanda: sei ricco o povero? Che lingua parli? Quali sono i tuoi gusti, qual è la tua sensibilità? Quali sono le tue preferenze? La condizione richiesta per potervi partecipare è di essere conformati a Cristo; essere stati immersi, mediante la grazia del Battesimo, nella sua morte e risurrezione.
4. La convocazione di tutti i battezzati
Ed ecco ciò che introduce la mia terza riflessione. Per partecipare a questa assemblea, è necessario aver ricevuto «l’abito nuziale», secondo l’immagine della stessa parabola. La Messa è un’assemblea aperta a chiunque, senza selezione, assolutamente. Ma è l’assemblea dei battezzati.
L’Eucaristia, anche se è pubblica, e benché possano essere presenti anche dei non credenti, è prima di tutto il sacramento dei battezzati. Essa è destinata agli uomini e alle donne che sono entrati nel mistero di Cristo mediante i sacramenti dell’iniziazione cristiana, della Nuova Alleanza. Solamente i battezzati possono entrare «in comunione» con questo «mistero» di misericordia e di grazia che è l’Eucaristia: il Cristo che si dona ai suoi fratelli, per unirli al suo sacrificio. È per questo che, una volta, i «catecumeni» non assistevano che all’inizio della celebrazione dell’Eucaristia. Sono detti catecumeni - ancora oggi - quelli che vogliono diventare cristiani e hanno già fatto il primo passo. Il vescovo li ha chiamati e iscritti tra i membri della Chiesa che desiderano ricevere il battesimo, a cui si preparano e che sarà loro conferito quando saranno pronti.
Una volta, dunque, prima che cominciasse la preghiera eucaristica propriamente detta (a partire dall’offertorio), i catecumeni lasciavano l’assemblea. Così pure i grandi «penitenti», in attesa della loro riconciliazione. Questi cristiani, in rottura con la comunione della Chiesa a causa dei loro peccati, non cessano pertanto di appartenere alla comunità dei credenti, ma non possono partecipare all’Eucaristia. Questa pratica della penitenza «pubblica», è scomparsa dalla vita della Chiesa da un millennio. Oggi, parrebbe poco accettabile alla nostra sensibilità che dei cristiani si ritirino durante la Messa per ragioni di coscienza. Ma tuttavia possiamo riconoscervi un insegnamento: coloro che hanno coscienza di trovarsi in peccato grave e non hanno ricevuto il perdono; coloro anche che si trovano in una situazione durevole di opposizione nei confronti della volontà di Dio, non devono,
ciò nonostante, rompere con la comunità cristiana. Essi non devono rinunziare alla Messa, anche se non possono comunicarsi. Al contrario, la preghiera e l’amore della Chiesa sono necessari per la loro prova. Anche se si astengono dal ricevere il Corpo di Cristo, possono tuttavia unirsi, come peccatori che sperano misericordia, all’Eucaristia, la preghiera perfetta della Chiesa. Essi devono avere la loro parte della gioia - fosse pure tinta di segreta tristezza - di questa fraternità che costituisce anche l’assemblea cristiana.
5. Il sacerdote, garante di Cristo
Infine, quarta riflessione, non c’è assemblea eucaristica senza il ministero di un sacerdote. Con il sacramento dell’Ordine, il sacerdote partecipa dell’incarico degli Apostoli, le dodici colonne della Chiesa. Perché il suo ministero è necessario per l’Eucaristia? Il ministro ordinato - vescovo, successore degli Apostoli, o sacerdote - dona al popolo radunato da Dio nella Chiesa la possibilità di ricevere Cristo stesso che, per bocca del sacerdote, agisce in questo sacramento come Capo del suo Corpo. Mediante il suo ministero, l’assemblea dei battezzati, in ciascuna celebrazione dell’Eucaristia, non cessa di riconoscersi e di accogliersi come Corpo di Cristo. Egli è il garante necessario alla Chiesa per donarle la certezza che la sua celebrazione eucaristica è quella di Cristo, che la parola che essa annunzia è donata da Cristo, che la sua unità è quella di Cristo che perdona e ama i suoi fratelli.
6. Riferimento a ciò che compie Gesù
Ogni domenica entriamo in chiesa per partecipare alla Messa. In chiesa, il «programma» è sempre il medesimo, anche se, nel corso dei secoli, le forme sono cambiate. In definitiva: perché lo svolgimento della liturgia è relativamente fisso?
Quando noi entriamo in una sala per vedere uno spettacolo o in una sala da pranzo per una festa di famiglia, un incontro tra amici, ciò che colpisce la nostra attenzione e ci fa trascorrere un momento lieto, è la novità, la sorpresa distraente.
A Messa, succede il contrario. Non che la ripetitività o la noia siano di regola. Ma noi sappiamo che, a dispetto delle trasformazioni verificatesi nel corso della storia, troveremo una liturgia formalmente fissa: la celebrazione eucaristica è un atto «codificato» per via del suo riferimento a Gesù, non solamente nell’intenzione, ma fin nei gesti, atteggiamenti e parole.
Come scrive san Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi (11, 23-25): «Io infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio Corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: "Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me"».
La celebrazione dell’Eucaristia rende presente a un’assemblea di discepoli di Cristo ciò che Gesù stesso ha fatto. Non si tratta di ripetere continuamente delle parole come si sciorina una lezione a dei monelli. Si tratta di permettere a queste parole di Gesù di realizzarsi in mezzo a uomini e donne radunati in suo Nome, qui e ora.
Nella Chiesa, mediante i suoi ministri ordinati, Gesù dona a noi, oggi, ciò che ha donato ai Dodici duemila anni fa. Gesù dona a noi, oggi, ciò che già ci ha donato domenica scorsa, un mese fa, un anno fa; ciò che ha donato alle generazioni che ci hanno preceduto; ciò che donerà a coloro che verranno dopo di noi, ovunque e sempre, fino a quando ritornerà.
Ciò che ha compiuto una volta per sempre, in un giorno del tempo, Gesù non cessa di compierlo tra di noi, per noi, e ci associa a questo unico atto. Quando noi celebriamo l’Eucaristia in questo scorcio di secondo millennio, noi non siamo lontani da Gesù né più né meno di quanto lo era ai suoi inizi la chiesa di Roma o di Antiochia. Non è il tempo trascorso che misura la distanza, e nemmeno il legame dei cristiani a Cristo, ma la fedeltà e la fede dei cristiani a ciò che Cristo compie oggi nella sua Chiesa.
7. La preghiera del Popolo d’Israele
Così, nell’Eucaristia, facciamo a nostra volta ciò che Gesù ha fatto. Ma bisogna risalire più in alto, andare più indietro nel tempo. In effetti, se Gesù stesso ha agito in questo modo, è perché già la sua preghiera - questa preghiera che Egli ci ha trasmesso - era la preghiera del popolo d’Israele, strutturata e nutrita di gesti e di parole, che sono presenza attuale nel suo popolo di ciò che Dio ha già compiuto in suo favore.
Al limite, noi non potremmo comprendere il nostro riferimento a Gesù, se non comprendendo il suo riferimento a Maria sua Madre. Figlia di Sion, ella gli ha insegnato a pregare in un modo determinato. Attraverso la storia del suo popolo, ella gli ha insegnato «i sentieri di Dio» e «i tesori del cielo» a lui, Gesù, che, Figlio di Dio e Figlio di Maria, è «la pienezza» (cf. Col 1, 19; Ef 1, 23), «l’erede» (cf. Mt 21, 38; Eb 1, 1; Gal 4, 1-7) e «il testimone fedele» (cf. Ap 1, 5).
Noi celebriamo dunque ciò che Gesù ha fatto, ma lui stesso celebra i riti liturgici e prega secondo la tradizione del popolo d’Israele. Questa tradizione diventa, in Gesù, la nostra propria maniera di pregare e di celebrare.
Così si dica del Padre nostro, la preghiera che i cristiani di tutte le lingue e di tutti i tempi dicono senza sempre ben comprendere né vederne la portata. Tuttavia, da due millenni, ripetiamo quelle parole, perché quelle sono le parole di Gesù. E la loro ricchezza sta anche nel fatto che esse dicono di più di ciò che noi siamo capaci di concepire e di esprimere. Noi entriamo nella preghiera stessa del Cristo: è quella la preghiera cristiana.
Gesù, nella preghiera del Padre nostro, riprende in modo personale e unico, condensandola, la preghiera rituale delle diciassette benedizioni imparata nella sua infanzia alla scuola della Vergine Maria.
Così ancora, durante l’ultima Cena, Gesù agisce secondo il rituale del pasto del sabato o della Pasqua.
8. Le due liturgie
La nostra celebrazione eucaristica riunisce, accomuna, in modo del tutto originale, due distinte liturgie a cui Gesù ha preso parte o che ha celebrato.
a) La prima è la liturgia della sinagoga.
Tutti i sabati, come è noto, essa raduna ogni comunità ebraica. Grosso modo, è l’equivalente di ciò che noi oggi, nella Messa, designiamo come «liturgia della Parola». Essa consiste nel canto di salmi, in preghiere di supplica e di benedizione e, fondamentalmente, nella lettura regolare della Parola di Dio ordinata secondo un ciclo determinato. Non si legge qualsiasi cosa, secondo l’umore del giorno. Si percorre la Parola di Dio come un’eredità preziosa e ci si nutre di essa con fervore.
I fedeli, raccolti su gradini in semicerchio o in quadrato, si guardano gli uni gli altri. Colui che presiede - c’è sempre qualcuno che presiede - dispone di un seggio sopraelevato. In capo a questa assemblea, il pulpito della lettura, l’ambone.
Un «tabernacolo», al posto d’onore, contiene i rotoli della Torah, la Parola di Dio. Pensate, se volete, alla struttura delle chiese siriache o, presso di noi, al coro dei monaci. Cosa avviene?
Ascoltiamo san Luca che ci riporta, in qualche modo, al modello della prima parte della messa, la liturgia della Parola: «Secondo il suo solito, in giorno di sabato, Gesù entra nella sinagoga di Nazareth. Quando giunge il suo turno di leggere la Scrittura, si alza e gli viene dato il rotolo del profeta Isaia. Apertolo, trovò il passo dove era scritto: "Lo Spirito del Signore è sopra di me: per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio...". Poi Gesù arrotola il volume, lo consegna all’inserviente, si siede e dice: "Oggi si è compiuta questa Scrittura per voi che l’ascoltate"» (Lc 4, 16-22).
Gesù pronuncia la Parola di Dio e ne annunzia il compimento.
b) L’altra forma di celebrazione è il pasto del sabato o, meglio ancora, più solenne, il pasto pasquale.
E’ un pasto di festa. Un pasto rituale. Nessuno spazio per l’improvvisazione. Tutto è preparato in modo minuzioso e regolato anticipatamente. Gesù lo sa bene, e i Vangeli ce lo mostrano: san Luca per esempio (22, 7-12s): «Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la vittima di Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: "Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare". Gli chiesero: "Dove vuoi che la prepariamo?". Ed egli rispose: "Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà e direte al padrone di casa: Il Maestro ti dice: Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e addobbata; là preparate"».
Le prescrizioni sono molto precise. La preparazione del pasto toccava sempre alla padrona di casa. E per questo che la pietà cattolica ha potuto pensare che Maria abbia assistito all’ultima Cena. Perché è compito della madre di famiglia non solamente preparare i piatti, ma anche disporre sulla tavola il vasellame e le coppe necessarie e di accendere i lumi, in conformità ad un rituale venerabile e immutabile, che ricorda la liberazione del popolo in Egitto, il memoriale della Pasqua. Oggi, nella nostra liturgia, ne leggiamo il racconto al capitolo 12 del libro dell’Esodo, durante la celebrazione della Cena del Signore, la sera del
Giovedì Santo.
9. Un rituale millenario
Questo rituale, già più che millenario al tempo di Cristo, è carico di emozione e di storia. Le parole erano sufficientemente precise e fisse, per cui le modifiche introdotte da Gesù risultano tanto più significative, veramente sorprendenti. Gesù non ha detto né fatto una cosa qualunque prendendo a caso un pezzo di pane sul tavolo.
Vero pasto con l’agnello pasquale sacrificato nel tempio, il rituale cominciava con la benedizione sul pane azzimo, a forma di grandi ostie, di 12 o 15 centimetri di diametro, utilizzate attualmente nelle celebrazioni importanti. D’altronde, questa forma di pane liturgico sussiste ancora oggi nelle comunità ebraiche dell’Africa del Nord. Essa è attestata anche dai modelli antichi ritrovati nel corso dei secoli.
Colui che presiede, il padre di famiglia o chi lo sostituisce, spezza questo pane azzimo e lo distribuisce a coloro che sono seduti attorno al tavolo. Egli pronuncia questa benedizione, sempre in uso nella celebrazione della Pasqua ebraica: «Questo è il pane dell’afflizione che i nostri padri hanno mangiato in Egitto». Gesù dirà: «Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi». Poi il pasto prosegue, mentre s’intonano preghiere, acclamazioni, azioni di grazie. Arriva infine la terza e ultima coppa, che evoca i sacrifici del Tempio. Su questa coppa di vino, il padre di famiglia pronuncia una benedizione prima di passarla ai convitati. Prendendo la coppa, Gesù renderà grazie al Padre suo e dirà: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’Alleanza versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt 26, 28).
Queste due benedizioni, Gesù le assume in modo del tutto singolare all’inizio e al termine del rituale del pasto pasquale. Insieme, esse formano il centro della preghiera eucaristica: la consacrazione.
10. L’unità della Messa
Ecco dunque, all’origine della celebrazione eucaristica, le due assemblee liturgiche giudaiche, distinte nel tempo e nello spazio, che Gesù stesso ha vissuto: da una parte la liturgia sinagogale della Parola nelle assemblee settimanali o quotidiane; d’altra parte, la liturgia familiare, settimanale del pasto sabbatico o annuale del pasto pasquale.
La liturgia cristiana, ossia venuta da Cristo, unisce in un solo momento, in una sola assemblea, in un solo e medesimo atto eucaristico - di rendimento di grazie - sia la celebrazione della Parola, sia la celebrazione del pasto. Detto altrimenti, nella prospettiva cristiana, l’ascolto della Sacra Scrittura e il banchetto sacramentale, la distribuzione della Parola di Dio e del Pane eucaristico non sono che un’unica realtà: è Gesù che ci offre la Parola ed è Lui stesso la Parola fatta carne.
C’è non solamente continuità, ma unità spirituale e sacramentale tra queste due parti della Messa. In verità, la liturgia della Parola è liturgia eucaristica e la liturgia eucaristica è liturgia della Parola. Perché è sempre Gesù che parlando a noi nel Vangelo, dice, per bocca del sacerdote: Questo è il mio Corpo. Questo è il mio Sangue».