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Ministri straordinari

agnus-deiLa comunione agli assenti
di don Pietro Jura

I racconti dell’istituzione, espliciti come in 1Cor 11, 23-26 o im­pliciti, come nelle riletture euca­ristiche di episodi del ministero pubblico pre-pasquale (cf. Lc 24, 30 e le narrazioni della moltiplicazione dei pani), incardina­no la narrazione su quattro verbi, tutti ri­presi nel racconto liturgico dell’istituzione (che si ispira alle fonti scritturistiche senza identificarsi ad verbum con alcuna di lo­ro). Le azioni rituali corrispondenti a tali verbi scandiscono la liturgia eucaristica: nella notte in cui veniva tradito il Signore Gesù prese il pane, pronunciò la benedi­zione, spezzò il pane, lo diede. Nella litur­gia eucaristica a questi verbi corrispondo­no i riti di presentazione dei doni (nei quali il sacerdote prende il pane riceven­dolo dalle mani dei fedeli), la preghiera eucaristica, la fractio panis, la distribuzio­ne della comunione ai fedeli. La distribu­zione della comunione è quindi uno dei momenti costitutivi della celebrazione, il momento in cui il mistero celebrato si fa nutrimento dei fedeli per trasformarli, “cristificarli” e reindirizzarli a una vita nuova, davvero eucaristica, la cui legge è l’amore di Cristo. Nella celebrazione lo Spirito Santo viene invocato sul pane e sul vino, ma anche sull’assemblea, e le due epiclesi sono intimamente congiunte: il pane e il vino sono consacrati per diveni­re cibo dei fedeli, affinché “su tutti noi che partecipiamo di questo altare, comu­nicando al santo mistero del corpo e san­gue del tuo Figlio, scenda la pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo” (Ca­none Romano), “per la comunione al cor­po e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo” (PE II).
Per questo la Chiesa ha sempre insisti­to su due elementi: l’imprescindibilità del­la celebrazione eucaristica domenicale per una vita cristiana dignitosa (fino ad arrivare alla disciplina del precetto dome­nicale e della comunione pasquale, che ­non va dimenticato - non costituisce l’ideale della vita cristiana, ma traccia sol­tanto la soglia bassa del “minimo sinda­cale”, del limite minimo perché una vita possa ancora definirsi con qualche plausi­bilità cristiana), e la possibilità, per quanti proprio non possono partecipare all’Euca­ristia domenicale, di ricevere comunque la comunione eucaristica, che nella presen­za del Signore in corpo, sangue, anima e divinità, racchiude il dono dello Spirito santificatore, la forza della Parola di Dio, la supplica orante della Chiesa.


Nel portare la comunione ai suoi membri assenti si attua il primo atto di ca­rità che nasce dall’Eucaristia: la comunità cristiana dopo il congedo non si disperde nei rivoli della quotidianità senza prima essersi assicurata che il dono eucaristico sia partecipato ai fratelli forzatamente as­senti, e, nella persona del ministro che re­ca la comunione, potremmo dire che la celebrazione si prolunga fino a entrare nella casa e nella stanza del fratello o del­la sorella impediti.
Non ci occuperemo qui di un proble­ma pastorale che pure interpella le comunità cristiane: coloro che, più che di rice­vere la comunione a casa, avrebbero biso­gno di essere messi in grado di partecipa­re all’Eucaristia (lavoratori residenti in paesi dove il cristianesimo è fortemente minoritario o dove le celebrazioni sono ostacolate e impedite, persone che non possono sottrarsi al lavoro festivo, ecc.). Rivolgiamo qui la nostra attenzione agli ammalati e agli anziani non autosufficien­ti, e al servizio di coloro che portano loro la comunione.
Assicurare la comunione agli infermi è innanzitutto dovere preciso dei sacerdoti in cura d’anime. Il can. 462§3 del Codi­ce Piano-benedettino inseriva il portare la comunione agli infermi tra le functiones parocho reservatae; il vigente Codice di Diritto Canonico (can. 529§1) racco­manda al parroco di visitare le famiglie e di assistere “con traboccante carità gli ammalati, soprattutto quelli vicini alla morte, nutrendoli con sollecitudine dei sacramenti e raccomandandone l’anima a Dio”. Tali indicazioni sono corroborate dai libri liturgici. Il rito per l’ingresso di un nuovo parroco (Caeremoniale Episcopo­rum, n. 1194; Benedizionale, n. 1974) prevede la possibilità di una processione ai luoghi che serviranno al ministero del parroco e che il vescovo gli affida: tra questi il tabernacolo, luogo della custodia eucaristica, riservata originariamente e in primo luogo alla comunione degli infermi. È quanto spiega il Rito della comunione fuori della messa e culto eucaristico, al n. 5: “Scopo primario e originario della con­servazione dell’Eucaristia fuori della Messa è l’amministrazione del viatico (…). La conservazione delle sacre specie per gli infermi portò alla lodevole abitudine di adorare questo celeste alimento riposto e custodito nelle chiese”. Lo stesso testo precisa: “I pastori d’anime curino che agli infermi e agli anziani, anche se non gra­vemente malati né in imminente pericolo di vita, spesso e anzi, se possibile, ogni giorno, specialmente nel tempo pasqua­le, sia offerta la possibilità di ricevere l’Eu­caristia” (n. 14).
Per concretizzare questo auspicio, do­po la riforma liturgica la Chiesa latina ha consentito che la comunione potesse es­sere portata ai malati anche da ministri non ordinati, istituiti con rito liturgico (ac­coliti) o deputati temporaneamente dal vescovo (ministri straordinari della comu­nione). Nella monizione al rito d’istituzio­ne, il vescovo (o il suo delegato) esorta i futuri accoliti a ri­cordare che la comunione all’unico pane alimenta l’unico corpo ecclesiale: “Non dimenticate che, per il fatto di partecipa­re con i vostri fratelli all’unico pane, for­mate con essi un unico corpo. Amate d’amore sincero il corpo mistico del Cristo, che è il popolo di Dio, soprattutto i pove­ri e gli infermi” (Istituzione degli accoliti, n. 29). Merita una sottolineatura l’espres­sione corpo mistico, che nella teologia del secondo millennio indica la Chiesa, ma che nei Padri indicava anche il corpo di Cristo sacramentale, nascosto (mystikòs) sotto i veli delle specie eucaristiche. L’uno nutre l’altro, entrambi sono reali: realtà della presenza di Cristo nel sacramento, realtà della presenza dei fratelli nella Chiesa.
Veniamo ora al ministero straordinario della comunione. La Conferenza Episco­pale Italiana, dando attuazione per quan­to di sua competenza all’istruzione Im­mensae caritatis che, nel 1973, autorizza­va gli ordinari a scegliere i ministri straor­dinari della comunione, precisa trattarsi “di un servizio liturgico intimamente con­nesso con la carità e destinato soprattut­to ai malati e alle assemblee numerose” (cf. Benedizionale, n. 2004). Poche righe dense di contenuti rilevanti, che vorrem­mo sottolineare:
- il ministero straordinario non può as­solutamente essere confuso con o affian­cato al compito del ministro ordinato. Purtroppo va detto senza reticenze che, nella pratica pastorale di molti luoghi, questo servizio è stato inflazionato e for­se anche banalizzato, frainteso come una sorta di “onorificenza parrocchiale” capa­ce di offrire molta visibilità e appagamento a fronte di un coinvolgimento persona­le minimo. È un abuso la turnazione abituale e programmata di ministri (ancora definibili straordinari?) chiamati a distri­buire la comunione in assemblee liturgi­che che sarebbero ottimamente servite dal solo presidente o da altri ministri ordi­nati pure presenti in chiesa e non impe­gnati in urgenti attività pastorali. Il servi­zio liturgico non deve diventare il luogo per ideologiche manifestazioni di presun­te promozioni del laicato. Questo vale so­prattutto per quei ministri che non porta­no mai la comunione ad alcun malato, ma che, senza fondamento, svolgono il loro compito solo a supporto della cele­brazione. Sempre per non intendere il mi­nistro straordinario come una specie di super-fedele, non è bene che egli (ella) svolga altri servizi durante la celebrazione (lettore, ministrante, salmista, ecc.), né che prenda posto in presbiterio, come qual­che volta si vede fare, soprattut­to nell’area linguistica tedesca: se sarà chiamato a distribuire la comunione, solo in quel momento salirà in presbiterio, ri­ceverà la comunione da chi presiede e poi la pisside (se possibile sempre dalle mani di chi presiede, a indicare la collaborazio­ne dipendente dalla ministerialità essen­ziale di colui che è costituito sacramentalmente per pronunciare la benedizione, spezzare il pane e porgerlo ai fratelli)[1]. La purificazione dei vasi sacri dopo la comu­nione può essere affidata all’accolito (che la compie alla credenza, non sull’altare), non al ministro straordinario. È ovvio poi che il ministro straordinario non assume un generico incarico di distribuzione di tutto: in particolare l’imposizione delle ce­neri il primo giorno di Quaresima rimane riservata al ministro ordinato.
- “La Comunione ai malati a partire dalla Messa domenicale è una espressio­ne della presa di coscienza da parte della comunità che anche i fratelli involontaria­mente assenti sono incorporati a Cristo e una profonda esigenza di solidarietà li unisce alla Chiesa” (ibid.). Sarebbe bello se i ministri straordinari ricevessero nelle loro teche le particole per gli ammalati dalle mani del sacerdote, al termine della comunione dei fedeli e che, al congedo, fossero i primi a uscire verso le case dei malati attraversando la navata centrale e risvegliando nell’intera comunità la con­sapevolezza della presenza, fragile e pre­ziosa, dei fratelli anziani e malati. Non quindi qualsiasi giorno, ma il giorno della pasqua set­timanale. Non in un ritaglio di tempo, scelto con criteri extraliturgici, ma subito dopo la celebrazione (naturalmente, fatte salve la disponibilità e le necessità del ma­lato e della sua famiglia). Non armeggian­do in maniera semiclandestina e in orari strani per prendere e riporre particole dal tabernacolo, ma con un gesto di affida­mento ufficiale della comunione eucaristi­ca da parte del celebrante, in modo che essa parta dall’altare di celebrazione, nel momento della comunione di tutti. I gesti liturgici ben compiuti, senza ampollosità ma con verità e pienezza di senso, parla­no e sono più eloquenti di molti discorsi.
- “Il servizio dei ministri straordinari che reca il duplice dono della Parola e del­la Comunione eucaristica, se preparato e continuato nel dialogo di amicizia e di fraternità, diventa chiara testimonianza del­la delicata attenzione di Cristo che ha preso su di sé le nostre infermità e i nostri dolori” (ibid.). Nel servizio dei ministri straordinari potrebbero essere rivalutati i “foglietti domenicali” tanto deprecati da liturgisti perché usati impropriamente al posto del libro liturgico e a danno della doverosa creatività liturgica, in conformi­tà con la situazione concreta della comu­nità. Portare il testo della Parola di Dio, fermarsi a leggerlo in una breve celebra­zione della Parola e in un momento di preghiera che precede la comunione ri­stabilendo il nesso teologico tra Parola e segno sacramentale non è un lusso da ri­servarsi a pochi casi di persone sensibili, ma la normalità (cf. Rito della comunione fuori della Messa, n. 63). Allo stesso mo­do, fermarsi dopo il rito per un breve dia­logo di amicizia, informarsi sulle condizio­ni di salute, partecipare gli eventi dell’or­dinaria vita parrocchiale, sono tutti ele­menti che fanno sentire l’infermo parte viva della comunità. Alcuni sacerdoti, di­rettamente o tramite i ministri straordina­ri della comunione, affidano ai malati le intenzioni di preghiera più urgenti e serie dell’intera comunità parrocchiale. Il ma­lato e l’anziano nella comunità cristiana non sono pesi, ma risorse: la sofferenza accolta cristianamente unisce alla croce di Cristo e diventa occasione di grazia per la persona, ma anche per tutta la comunità. Questa valorizzazione della condizione di fragilità è anche un grande conforto e un autentico aiuto per chi troppo spesso si sente inutile, di peso per gli altri, messo da parte da falsi modelli di umanità in car­ta patinata che mostrano ideali (in realtà inesistenti o effimeri e fugaci) di persone giovani, atletiche, belle, spensierate. Per­ché si crei questo rapporto fraterno è fon­damentale la stabilità: un ministro visita sempre le stesse persone (e, ovviamente, non può visitare dieci malati in una matti­nata). Il malato attende il fratello, non un anonimo postino che suona alla porta, consegna quanto deve e se ne va.
- Come il ministro rende partecipe il malato della vita della comunità cristiana, così rende edotto il parroco della situazio­ne in cui si trova la persona sofferente, del suo stato di salute, dei suoi bisogni. Se un anziano o un malato versasse in condizione di necessità e di solitudine, il ministro straordinario (e la comunità cristiana con lui) non potranno far finta di non vedere e sapranno farsi carico della situazione e delle concrete esigenze di carità, perché con l’Eucaristia giunga davvero a chi è nel bisogno l’abbraccio fraterno della Chiesa che rialza e sostiene.
- Il parroco, sapendo che ai ministri straordinari viene affidato il Corpo di Cristo perché essi siano volto e voce della comunità cristiana in contesti familiari provati dalla sofferenza, curerà in maniera particolar tanto la scelta dei candidati a questo servizio, quanto la loro formazione e il loro cammino di fede. Non si sceglie per questo servizio chi semplicemente ha un po’ di tempo libero e si dimostra servizievole in parrocchia, ma chi dimostra nella pratica quotidiana grande amore per il Signore presente nell’Eucaristia e grande attenzione ai fratelli. È buona nor­ma usare molta prudenza verso le auto­candidature, che vanno sottoposte a lun­go e serio discernimento, senza aver ti­more di dire “no” ove si verifichi l’incon­sistenza dei requisiti essenziali. Mai il par­roco deve sentirsi costretto ad ammettere qualcuno al servizio per timore di perdere o di offendere la perpetua, il fiduciario che gestisce le chiavi dell’oratorio, la si­gnora che cura i fiori e le piante: costoro fanno già un servizio. Il gruppo dei mini­stri straordinari della comunione, nelle grandi parrocchie in cui riunisce un nume­ro piuttosto cospicuo di persone, potreb­be essere coinvolto in alcuni servizi liturgi­ci: l’animazione dell’adorazione eucaristi­ca, la promozione della celebrazione quotidiana della liturgia delle ore in chiesa (lo­di e/o vespri), ecc.
- Oltre a una sincera fede, si richiede un solido spessore umano. Il ministro de­ve saper comprendere non solo ciò che il malato dice, ma anche ciò che non for­mula con parole ma nel registro della co­municazione non verbale: uno sguardo, un segno di impazienza o di abbattimen­to possono rivelare sconforto, pena, dub­bi anche in materia di fede (la notte oscu­ra dello spirito nel momento della prova, il Getsemani personale nell’ora del dolo­re). La persona va ascoltata e accolta, non subissata di discorsi e blandita con goffi tentativi d’ilarità fuori posto. Se il malato non è ipocondriaco, non si può minimiz­zare ciò che egli dice di sé e della sua situazione rispondendogli con una pacca sulle spalle e con un insignificante “Ma che sono questi brutti pensieri!? Vedrai che domani starai meglio e non ci pense­rai più!”. Neppure si può rispondere a de­scrizioni forse tediose di acciacchi e terapie con una litania altrettanto lunga di malanni di cui soffre il ministro straordina­rio! L’idea che mal comune sia mezzo gaudio non è molto fondata. Inoltre, il ministro che entra in una casa si rapporta non solo con una persona, ma con un contesto familiare, che non sempre com­prende o condivide il valore del suo servi­zio. Anche se in genere i familiari apprez­zano tutto ciò che reca conforto al loro caro, non mancano casi nei quali essi guardano chi porta la comunione con in­differenza, malcelato fastidio o persino sospetto. Anche nei loro confronti il mini­stro straordinario può rivelarsi un prezioso testimone della fede, ma tutto è affidato al garbo della sua intelligenza e del suo tratto, alla limpidezza del suo comporta­mento, che non deve mai dare adito al minimo sospetto riguardo alla gratuità del servizio e alla completa estraneità da ogni ­fine che non sia di natura spirituale e di carità fraterna.
A tutti i ministri straordinari può es­sere utile rileggere la monizione che in­troduce la benedizione con cui viene affidato questo servizio: “Cercate di esprimere nella fede e nella vita cristiana la realtà dell’Eucaristia, mistero di unità e di amore. Noi tutti infatti, pur essendo molti, siamo un corpo solo, perché partecipiamo dell’unico pane e dell’unico calice. E poiché distribuirete agli altri l’Eucaristia, sappiate esercitare la carità fraterna, secondo il precetto del Signore, che nel dare in cibo ai di­scepoli il suo stesso corpo, disse loro: ‘Questo è il mio comandamento, che amiate l’un l’altro, come io ho amato voi’” (Rito per l’istituzione dei ministri straordinari della comunione, n. 3).


 

[1] Il rito prevede che il ministro straordinario della comunione possa prendere da solo la comunione, ma tale norma va rettamente intesa. Un campo di applicazione particolarmente utile di questo servizio è nei paesi di missione o dove, purtroppo, la scarsità di clero non consente la regolare celebrazione dell’Eucaristia domenicale. In questo caso un fedele preparato può essere designato a radunare i fratelli e a guidare, come primus inter pares, una celebrazione della Parola che prevede la proclamazione dei testi biblici del giorno, la preghiera del Signore e la distribuzione della comunione. Senza questa norma il laico che guida questa celebrazione della Parola potrebbe dare la comunione ai fratelli, ma ne resterebbe privo lui stesso. Durante la celebrazione eucaristica, però, solo chi presiede (e i concelebranti), essendo segno di Cristo capo che presiede il corpo ecclesiale, prende la comunione da solo. Tutti gli altri (compresi il diacono ed eventuali sacerdoti non concelebranti) la ricevono, perché l’Eucaristia è dono e i doni si accolgono, non si prendono.



 

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