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Ministri straordinari

dossologia-1Aggiornamento Ministri Straordinari della Comunione 2012 - II Incontro
di don Pietro Jura

I.     ANDARE A MESSA
Quella certa domenica esitate a muovervi per andare a messa. Finalmente, vi decidete. Dite piuttosto che è Dio che vi ha fatto decidere. Dio fa uscire ciascuno dalla propria so­litudine e dal proprio isolamento per formare un popolo che vive di fede e la cui unità è in Cristo. Ogni volta che vado in una chiesa per celebrare la messa, penso a quelle parole della Sapienza (Proverbi 9, 5) che risuonano nelle parole di Gesù pronunziate nella sinagoga di Cafarnao: «Venite, man­giate il miopane; bevete il vino che io ho preparato» (Gv 6). Questa Sapienza personificata che «ha imbandito lo tavola» e che «proclama il suo invito sui punti piùalti del­la città», questa Sapienza fatta carne, è il Verbo di Dio che ci invita al suo banchetto.
E’ la Chiesa che celebra l’Eucaristia! I cristiani vi sono convocati da Cristo. Lo Spirito Santo li raduna per formare un solo Corpo e rendere grazie a Dio Padre.


La messa della domenica.
Questa è la prima riflessione che propongo per aiutarvi a vivere meglio la messa. Insisto di nuovo su questo punto. Temo che molti oggi siano sfasati nel loro comportamento religioso dall’abitudine del «self-service» e dalla comodità del «supermercato» o dei centri commerciali. Soprattutto nelle grandi città, dove le chiese sono numerose. Mi spiego: le grandi su­perfici urbane offrono i più larghi orari di apertura; presen­tano gli articoli più ricercati e si adattano ai gusti dei più. E ciò per soddisfare, adescare e conservare i loro «praticanti» (ossia la loro «clientela»). Allo stes­so modo alcuni si aspettano di poter trovare ad ogni mo­mento nelle chiese gli articoli di consumo religioso confor­mi alla domanda di ciascuno, conformi ai desideri dei «pra­ticanti». Ebbene, amici miei, questo paragone è falso. I «pra­ticanti» non sono una «clientela», né la messa è una «pre­stazione» modificabile al gusto delle indicazioni del «mar­keting».
Noi non andiamo a messa per soddisfare la nostra sensi­bilità religiosa, né perché il tal giorno e alla tale ora ne ab­biamo voglia o bisogno. Noi partecipiamo alla messa la domenica (che comincia il sabato sera secondo l’antica usan­za liturgica), perché il Signore Gesù ci convoca, lo Spirito Santo ci raduna e Dio nostro Padre ci ha donati come di­scepoli al Figlio suo.
Certo, lo so, questa affermazione urta di fronte a quelli e a quelle che dicono: «Oggi vado a messa nella tale chiesa perché quella mi piace», oppure: «Non vado più a messa? La colpa è dei preti o della Chiesa». Simili affermazioni mo­strano quale progresso nella fede devono fare questi disce­poli di Cristo per diventare pienamente cattolici.
In effetti, Dio ci convoca così, di domenica in domenica, per rendere visibile il suo popolo e costituirlo mediante il sacramento dell’Eucaristia.
Noi vi riceviamo la grazia destinata ai figli di Dio. In effet­ti, è nostra dignità, è nostra vocazione rendere gloria al Pa­dre «in Cristo, con Lui e per mezzo di Lui». Sì, noi dobbia­mo considerare come una grazia di Dio l’essere stati «scel­ti» per far parte del Popolo di Dio, «per compiere alla sua presenza il servizio sacerdotale»(Preghiera eucaristica II), per essere radunati nella Chiesa, il Corpo di Cristo, il Tem­pio dello Spirito.

Radunarsi nella propria parrocchia
Ed ecco una seconda riflessione: la messa parrocchiale mette in luce il carattere specifico di questo raduno di ogni domenica che struttura la vita della Chiesa.
La parrocchia? Non voglio qui addentrarmi nei suoi pro­blemi di funzionamento e di organizzazione. Prendo la par­rocchia così come l’ha forgiata l’esperienza pressoché bimillenaria del popolo cristiano. Gli uomini e le donne che vi si radunano, non si sono scelti tra di loro. Dio li ha scelti mediante il loro battesimo. Essi si trovano uniti dalla vicinanza fisica, concreta dell’esistenza. Essi sono già «vicini» (fisicamente) in ragione delle necessità quotidiane della lo­ro condizione di vita. Essi devono farsi «prossimi» (evange­licamente) gli uni agli altri (cf. Lc 10, 36-37).
La messa parrocchiale è celebrata a porte spalancate; essa è accessibile a ogni cristiano. Una volta, per soddisfare, come si diceva, al «precetto festivo» (cioè al dovere, per i cattolici, di anda­re a messa la domenica), si doveva assistere alla messa in una chiesa parrocchiale. Voi forse vi domandate dov’è la differenza.
La messa è sempre la messa, sicuramente. Ma la comu­nità che la celebra, non è senza significato. La messa della domenica, è un atto pubblico della Chiesa. Questa si raduna attorno al suo vescovo e a preti che l’assistono nella sua missione di accogliere tutti i fedeli. Ogni domenica, ogni «chiesa particolare» (per parlare come il Vaticano II, inten­dete «diocesi») rende visibile l’unità cattolica del popolo di Dio. Ogni parrocchia celebra l’Eucaristia in comunione con il proprio vescovo e con il Papa. Il vescovo è il servitore e il garante di questa comunione cattolica aperta a tutti i po­poli e a tutti gli uomini.
Ricordate la parabola degli invitati al banchetto di nozze del Figlio del Re (cf. Mt 22, 1-14). Cristo l’ha raccontata poco tempo prima della sua passione. Il padrone di casa manda a chiamare gli invitati; questi declinano l’invito. Allora egli dice ai servitori: «Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». Così è della messa do­menicale. Tutti vi hanno diritto, quali che siano le differen­ze sociali, etniche ecc. Tutti hanno gli stessi diritti. Perché tutti si ritrovano davanti al Nostro Signore e Padrone di ca­sa che si è fatto servitore di tutti.
L’assemblea eucaristica non è selettiva secondo criteri umani. A chi si presenta alla porta, non si domanda: sei ricco o povero? Che lingua parli? Quali sono i tuoi gusti, qual è la tua sensibilità? Quali sono le tue preferenze? La condizione richiesta per potervi partecipare è di essere con­formati a Cristo; essere stati immersi, mediante la grazia del Battesimo, nella sua morte e risurrezione.

La convocazione di tutti i battezzati
Ed ecco ciò che introduce la mia terza riflessione. Per par­tecipare a questa assemblea, è necessario aver ricevuto «l’a­bito nuziale», secondo l’immagine della stessa parabola. La messa è un’assemblea aperta a chiunque, senza selezione, assolutamente. Ma è l’assemblea dei battezzati.
L’Eucaristia, anche se è pubblica, e benché possano es­sere presenti anche dei non credenti, è prima di tutto il sa­cramento dei battezzati. Essa è destinata agli uomini e alle donne che sono entrati nel mistero di Cristo mediante i sa­cramenti dell’iniziazione cristiana, della Nuova Alleanza. So­lamente i battezzati possono entrare «in comunione» con questo «mistero»[1] di misericordia e di grazia che è l’Euca­ristia: il Cristo che si dona ai suoi fratelli, per unirli al suo sacrificio. E’ per questo che, una volta, i «catecumeni» non assistevano che all’inizio della celebrazione dell’Eucaristia. Sono detti catecumeni - ancora oggi - quelli che voglio­no diventare cristiani e hanno già fatto il primo passo. Il ve­scovo li ha chiamati e iscritti tra i membri della Chiesa che desiderano ricevere il battesimo, a cui si preparano e che sarà loro conferito quando saranno pronti.
Una volta, dunque, prima che cominciasse la preghiera eucaristica propriamente detta (a partire dall’offertorio), i ca­tecumeni lasciavano l’assemblea. Così pure i grandi «peni­tenti», in attesa della loro riconciliazione. Questi cristiani, in rottura con la comunione della Chiesa a causa dei loro pec­cati, non cessano pertanto di appartenere alla comunità dei credenti, ma non possono partecipare all’Eucaristia. Que­sta pratica della penitenza «pubblica», è scomparsa dalla vita della Chiesa da un millennio. Oggi, parrebbe poco accetta­bile alla nostra sensibilità che dei cristiani si ritirino durante la messa per ragioni di coscienza. Ma tuttavia possiamo ri­conoscervi un insegnamento: coloro che hanno coscienza di trovarsi in peccato grave e non hanno ricevuto il perdo­no; coloro anche che si trovano in una situazione durevole di opposizione nei confronti della volontà di Dio, non de­vono, ciò nonostante, rompere con la comunità cristiana. Essi non devono rinunziare alla messa, anche se non pos­sono comunicarsi. Al contrario, la preghiera e l’amore del­la Chiesa sono necessari per la loro prova. Anche se si asten­gono dal ricevere il Corpo di Cristo, possono tuttavia unir­si, come peccatori che sperano misericordia, all’Eucaristia, la preghiera perfetta della Chiesa. Essi devono avere la lo­ro parte della gioia - fosse pure tinta di segreta tristez­za - di questa fraternità che costituisce anche l’assemblea cristiana. La messa è aperta a tutti!

Il sacerdote, garante di Cristo
Infine, quarta riflessione, non c’è assemblea eucaristica senza il ministero di un sacerdote. Con il sacramento dell’Ordine, il sacerdote partecipa dell’incarico degli Apostoli, le dodici colonne della Chiesa. Perché il suo ministero è ne­cessario per l’Eucaristia? Il ministro ordinato - vescovo, suc­cessore degli Apostoli, o sacerdote - dona al popolo radunato da Dio nella Chiesa la possibilità di ricevere Cristo stesso che, per bocca del sacerdote, agisce in questo sacra­mento come Capo del suo Corpo. Mediante il suo ministero, l’assemblea dei battezzati, in ciascuna celebrazione dell’Eucaristia, non cessa di riconoscersi e di accogliersi come Corpo di Cristo. Egli è il garante necessario alla Chiesa per donarle la certezza che la sua celebrazione eucaristica è quella di Cristo, che la parola che essa annunzia è donata da Cri­sto, che la sua unità è quella di Cristo che perdona e ama i suoi fratelli. Avremo ancora occasione di riflettere sul ministero del sacerdote in questo nostro cammino!
Mi propongo di affrontare gli interrogativi che potete porvi sulla messa, seguendone la celebrazione dall’inizio alla fi­ne. Altre opere potranno completare la vostra informazione[2]. Ma, per cominciare: nella messa, che cosa vien dato? Perché i luoghi o gli oggetti sono disposti in quel modo? Cosa significano i gesti, le parole degli uni e degli altri? Spero, in questo modo, che possiate ricavare un grande profitto dalla vostra partecipazione all’Eucaristia e che possiate pre­gare con più gioia ogni domenica. E forse ogni giorno, se Dio ve ne dona la grazia.

II.   RIFERIMENTO A CIÒ CHE COMPIE GESÙ
Ogni domenica entriamo in chiesa per partecipare alla messa. Con la stessa frequenza con cui, fino a qualche tem­po fa, alcuni andavano al cinema. E tuttavia, in chiesa, il «programma» è sempre il medesimo, anche se, nel corso dei secoli, le forme sono cambiate. In definitiva: perché lo svolgimento della liturgia è relativamente fisso?
Quando noi entriamo in una sala per vedere uno spetta­colo o in una sala da pranzo per una festa di famiglia, un incontro tra amici, ciò che colpisce la nostra attenzione e ci fa trascorrere un momento lieto, è la novità, la sorpresa distraente.
A messa, succede il contrario. Non che la ripetitività o la noia siano di regola. Ma noi sappiamo che, a dispetto delle trasformazioni verificatesi nel corso della storia, troveremo una liturgia formalmente fissa: la celebrazione eucari­stica è un atto «codificato» per via del suo riferimento a Gesù, non solamente nell’intenzione, ma fin nei gesti, atteggiamenti e parole.
Come scrive san Paolo nella sua prima Lettera ai Corinzi: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio Corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”» (11, 23-25).
La celebrazione dell’Eucaristia rende presente a un’assem­blea di discepoli di Cristo ciò che Gesù stesso ha fatto. Non si tratta di ripetere continuamente delle parole come si scio­rina una lezione a dei monelli. Si tratta di permettere a queste parole di Gesù di realizzarsi in mezzo a uomini e donne ra­dunati in suo Nome, qui e ora.
Nella Chiesa, mediante i suoi ministri ordinati, Gesù do­na a noi, oggi, ciò che ha donato ai Dodici duemila anni fa. Gesù dona a noi, oggi, ciò che già ci ha donato dome­nica scorsa, un mese fa, un anno fa; ciò che ha donato alle generazioni che ci hanno preceduto; ciò che donerà a co­loro che verranno dopo di noi, ovunque e sempre, fino a quando ritornerà.
Ciò che ha compiuto una volta per sempre, in un giorno del tempo, Gesù non cessa di compierlo tra di noi, per noi, e ci associa a questo unico atto. Quando noi celebriamo l’Eu­caristia in questo scorcio del XXI secolo, noi non sia­mo lontani da Gesù né più né meno di quanto lo era ai suoi inizi la chiesa di Roma o di qualunque altro posto del mondo. Non è il tempo trascorso che misura la distanza, e nemmeno il legame dei cristiani a Cristo, ma la fedeltà e la fede dei cristiani a ciò che Cristo compie oggi nella sua Chiesa.

La preghiera del Popolo d’Israele
Così, nell’Eucaristia, facciamo a nostra volta ciò che Gesù ha fatto. Ma bisogna risalire più in alto, andare più in­dietro nel tempo. In effetti, se Gesù stesso ha agito in que­sto modo, è perché già la sua preghiera - questa preghie­ra che Egli ci ha trasmesso - era la preghiera del popolo d’Israele, strutturata e nutrita di gesti e di parole, che sono presenza attuale nel suo popolo di ciò che Dio ha già com­piuto in suo favore.
Al limite, noi non potremmo comprendere il nostro rife­rimento a Gesù, se non comprendendo il suo riferimento a Maria sua Madre. Figlia di Sion, ella gli ha insegnato a pregare in un modo determinato. Attraverso la storia del suo popolo, ella gli ha insegnato «i sentieri di Dio» e «i te­sori del cielo» a lui, Gesù, che, Figlio di Dio e Figlio di Ma­ria, è «la pienezza» (cf. Col 1, 19; Ef 1, 23;), «l’e­rede» (cf. Mt 21, 38; Eb 1, 1; Gal 4, 1-7) e «il testimone fedele» (cf. Ap 1, 5).
Noi celebriamo dunque ciò che Gesù ha fatto, ma lui stes­so celebra i riti liturgici e prega secondo la tradizione del po­polo d’Israele. Questa tradizione diventa, in Gesù, la nostra propria maniera di pregare e di celebrare.
Così si dica del Padre nostro, la preghiera che i cristiani di tutte le lingue e di tutti i tempi dicono senza sempre ben comprendere né vederne la portata. Tuttavia, da due millenni, ripetiamo quelle parole, perché quelle sono le paro­le di Gesù. E la loro ricchezza sta anche nel fatto che esse dicono di più di ciò che noi siamo capaci di concepire e di esprimere. Noi entriamo nella preghiera stessa del Cristo: è quella la preghiera cristiana.
Gesù, nella preghiera del Padre nostro, riprende in mo­do personale e unico, condensandola, la preghiera rituale delle diciassette benedizioni imparata nella sua infanzia alla scuola della Vergine Maria.
Così ancora, durante l’ultima Cena, Gesù agisce secon­do il rituale del pasto del sabato o della Pasqua.

Le due liturgie
La nostra celebrazione eucaristica riunisce, accomuna, in modo del tutto originale, due distinte liturgie a cui Gesù ha preso parte o che ha celebrato.
* La prima è la liturgia della sinagoga. Tutti i sabati, come è noto, essa raduna ogni comunità ebraica. Grosso modo, è l’equivalente di ciò che noi oggi, nella messa, designiamo come «liturgia della Parola». Essa consiste nel canto di salmi, in preghiere di supplica e di be­nedizione e, fondamentalmente, nella lettura regolare del­la Parola di Dio ordinata secondo un ciclo determinato. Non si legge qualsiasi cosa, secondo l’umore del giorno. Si per­corre la Parola di Dio come un’eredità preziosa e ci si nutre di essa con fervore.
I fedeli, raccolti su gradini in semicerchio o in quadrato, si guardano gli uni gli altri. Colui che presiede – c’è sem­pre qualcuno che presiede - dispone di un seggio soprae­levato. In capo a questa assemblea, il pulpito della lettura, l’ambone.
Un «tabernacolo», al posto d’onore, contiene i rotoli del­la Torah, la Parola di Dio. Pensate, se volete, alla struttura delle chiese siriache o, presso di noi, al coro dei monaci.
Cosa avviene? Ascoltiamo san Luca che ci riporta, in qualche modo, al modello della prima parte della messa, la liturgia della Pa­rola: Gesù «Venne a Nazaret…, e secondo il suo solito, di sabato, en­trò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consa­crato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio...”. Riavvolse il rotolo, lo consegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltata» (Lc 4, l6-21).
Gesù pronuncia la Parola di Dio e ne annunzia il compi­mento.
* L’altra forma di celebrazione è il pasto del sabato o, meglio ancora, più solenne, il pasto pasquale.
E’ un pasto di festa. Un pasto rituale. Nessuno spazio per l’improvvisazione. Tutto è preparato in modo minuzioso e regolato anticipatamente. Gesù lo sa bene, e i Vangeli ce lo mostrano: san Luca per esempio (22, 7-12s): «Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: “An­date a preparare per noi, perché possiamo man­giare la Pasqua”. Gli chiesero: Dove vuoi che prepariamo?”. Ed egli rispose loro: “Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo nella casa in cui entrerà. Direte al padrone di casa: ‘Il Maestro ti dice: Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?’. Egli vi mostrerà al piano superiore una sala, gran­de e arredata; lì preparate”».
Le prescrizioni sono molto precise. La preparazione del pasto toccava sempre alla padrona di casa. E’ per questo che la pietà cattolica ha potuto pensare che Maria abbia assistito all’ultima Cena. Perché è compito della madre di famiglia non solamente preparare i piatti, ma anche disporre sulla tavola il vasellame e le coppe necessarie e di accen­dere i lumi, in conformità ad un rituale venerabile e immu­tabile, che ricorda la liberazione del popolo in Egitto, il me­moriale della Pasqua. Oggi, nella nostra liturgia, ne leggiamo il racconto al capitolo XII del libro dell’Esodo, du­rante la celebrazione della Cena del Signore, la sera del Giovedì Santo.

Un rituale millenario
Questo rituale, già più che millenario al tempo di Cristo, è carico di emozione e di storia. Le parole erano sufficientemente precise e fisse, per cui le modifiche introdotte da Gesù risultano tanto più significative, veramente sorpren­denti. Gesù non ha detto né fatto una cosa qualunque pren­dendo a caso un pezzo di pane sul tavolo.
Vero pasto con l’agnello pasquale sacrificato nel tempio, il rituale cominciava con la benedizione sul pane azzimo, a forma di grandi ostie, di 12 o 15 centimetri di diametro, utilizzate attualmente nelle celebrazioni importanti. D’altron­de, questa forma di pane liturgico sussiste ancora oggi nel­le comunità ebraiche dell’Africa del Nord. Essa è attestata anche dai modelli antichi ritrovati nel corso dei secoli.
Colui che presiede, il padre di famiglia o chi lo sostitui­sce, spezza questo pane azzimo e lo distribuisce a coloro che sono seduti attorno al tavolo. Egli pronuncia questa benedizione, sempre in uso nella celebrazione della Pasqua ebraica: «Questo è il pane dell’afflizione che i nostri padri hanno mangiato in Egitto». Gesù dirà: «Questo è il mio Cor­po offerto in sacrificio per voi».
Poi il pasto prosegue, mentre s’intonano preghiere, ac­clamazioni, azioni di grazie. Arriva infine la terza e ultima coppa, che evoca i sacrifici del Tempio. Su questa coppa di vino, il padre di famiglia pronuncia una benedizione pri­ma di passarla ai convitati. Prendendo la coppa, Gesù ren­derà grazie al Padre suo e dirà: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati» (Mt 26, 27-28).
Queste due benedizioni, Gesù le assume in modo del tutto singolare all’inizio e al termine del rituale del pasto pasqua­le. Insieme, esse formano il centro della preghiera eucari­stica: la consacrazione.

L’unità della messa
Ecco dunque, all’origine della celebrazione eucaristica, le due assemblee liturgiche giudaiche, distinte nel tempo e nello spazio, che Gesù stesso ha vissuto: da una parte la liturgia sinagogale della Parola nelle assemblee settimanali o quo­tidiane; d’altra parte, la liturgia familiare, settimanale del pa­sto sabbatico o annuale del pasto pasquale.
La liturgia cristiana, ossia venuta da Cristo, unisce in un solo momento, in una sola assemblea, in un solo e medesi­mo atto eucaristico - di rendimento di grazie - sia la celebrazione della Parola, sia la celebrazione del pasto. Detto altrimenti, nella prospettiva cristiana, l’ascolto della Sacra Scrittura e il banchetto sacramentale, la distribuzione della Parola di Dio e del Pane eucaristico non sono che un’unica realtà: è Gesù che ci offre la Parola ed è Lui stesso la Paro­la fatta carne.
C’è non solamente continuità, ma unità spirituale e sa­cramentale tra queste due parti della messa. In verità, la li­turgia della Parola è liturgia eucaristica e la liturgia eucari­stica è liturgia della Parola. Perché è sempre Gesù che par­lando a noi nel Vangelo, dice, per bocca del sacerdote: «Questo è il mio Corpo. Questo è il mio Sangue».

 

 

 



[1] Questa parola, di origine greca, è stata tradotta in latino con sacramentum, “sacramento”.
[2] Soprattutto P. Jounel, La messe hier et aujourd’hui, Ed. O.E.I.L. 1986; A. Grillo, Guida laica per tornare a messa. Dal precetto alla libertà, Ed. San Paolo, 1997; J. Terrier – Y. Marie, A messa: perché? Catechesi per i fanciulli e ragazzi, Ed. Paoline 1994.

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