Aggiornamento per i Ministri Straordinari della Comunione - 29 marzo 2017
Il servizio dei Ministri straordinari della comunione nella pastorale della salute. La relazione con l'ammalto e l'anziano
Premessa
Nel giugno del 2006 la Commissione Episcopale per il servizio della carità e la salute della CEI ha pubblicato la nota pastorale dal titolo “Predicate il Vangelo e curate i malati. La comunità cristiana e la pastorale della salute”. Si tratta di un documento che segna una tappa importante nel cammino della pastorale della salute in Italia. Già nel titolo, infatti, i vescovi evidenziano la necessità di integrazione tra la vita della comunità cristiana in parrocchia e la pastorale del mondo sanitario, per rispondere efficacemente alle sfide che i temi della salute e della malattia pongono oggi alla Chiesa e alla società.
Nel testo si dichiara in maniera esplicita la necessità “di sostenere l’integrazione della pastorale sanitaria nella pastorale d’insieme delle comunità cristiane” (n. 4), stabilendo una continuità tra la pastorale della salute nei luoghi di cura e la pastorale ordinaria della parrocchia e persino sviluppando forme di collaborazione tra le cappellanie ospedaliere e le comunità ecclesiali territoriali” (ibidem). Inoltre, i vescovi in più punti raccomandano la visita frequente ai malati nelle strutture sanitarie e nelle loro case e individuano nel ministro straordinario della comunione una figura chiave. In particolare, riguardo al servizio che questi svolge a favore dei malati affermano che: “Si tratta di una ministerialità da promuovere e da valorizzare come segno di una comunità che si fa vicina al malato e lo ha presente nel cuore della celebrazione eucaristica, come membro del corpo di Cristo, a cui va offerta la cura più grande” (n. 65).
Questa indicazione dei vescovi ci aiuta da un lato a riflettere sulla natura propria di tale ministerialità, che si indirizza originariamente proprio verso chi è impedito a partecipare fisicamente alla celebrazione comunitaria dell’Eucaristia. D’altro canto, la guida dei nostri pastori ci aiuta a guardare con realismo agli esiti dell’allungamento della vita media degli uomini e delle donne e dell’invecchiamento della popolazione. Tale fenomeno, a cui stiamo assistendo ormai progressivamente da oltre trent’anni, è comune a tutto il mondo a più avanzato sviluppo economico e riguarda una fascia sempre più larga di persone. Mai, infatti, nella storia dell’umanità si è verificato un così forte incremento del numero di anziani, con il conseguente aumento della malattie croniche invalidanti legate all’età e maggior bisogno di assistenza, che ricade sia sui familiari e sugli operatori sanitari, sia sulla comunità civile ed ecclesiale.
Nel contesto dell’Europa, l’Italia detiene il primato di nazione demograficamente più anziana e nello stesso tempo mantiene ancora una pratica religiosa e una richiesta di sacramenti più alta della media europea.
Se mettiamo insieme il dato demografico dell’invecchiamento, la richiesta dei sacramenti della popolazione anziana e la riduzione del numero dei ministri ordinati, appare evidente la difficoltà a far fronte alle necessità spirituali di una porzione di popolo di Dio in situazione di particolare fragilità. Ci rendiamo facilmente conto, perciò, di quanto il servizio dei fedeli laici, e in particolare dei ministri straordinari della comunione, diventi sempre più necessario per rispondere ai bisogni di tanti nostri fratelli anziani o malati e per supportare i sacerdoti nel loro impegnativo ministero.
L’Istruzione del 15 agosto 1997 “Su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti” ricordava opportunamente che: «Occorre tener presente l’urgenza e l’importanza dell’azione apostolica dei fedeli laici nel presente e nel futuro dell’evangelizzazione. La Chiesa non può prescindere da quest’opera, perché è connaturale ad essa, in quanto Popolo di Dio, e perché ne ha bisogno per realizzare la propria missione evangelizzatrice» (Premessa).
La sottolineatura del ruolo dei laici nell’evangelizzazione, che si trova praticamente all’apertura del documento (secondo capoverso della Premessa), ci permette di inquadrare meglio quanto poi viene indicato circa il servizio dei laici come ministri straordinari della comunione (articolo 8) e nel loro apostolato per gli infermi (articolo 9). In pratica, l’intero documento vuole far emergere la corresponsabilità di tutto il popolo di Dio nell’evangelizzazione e la peculiarità dell’apporto che i laici possono fornire, nelle forme opportune, con l’aiuto spirituale e materiale verso gli infermi.
Nella pastorale della salute oggi si avverte in modo urgente la necessità di una nuova evangelizzazione che sappia portare in maniera forte e concreta la Buona Novella di Cristo a chi vive la sofferenza nella propria carne e a chi è chiamato a prendersi cura dei sofferenti (in primis familiari, volontari, operatori sanitari).
1. Ministri straordinario della comunione nella pastorale della salute
I ministri straordinari della comunione vengono istituiti con lo scopo di supplire alle circostanze in cui i ministri ordinati siano insufficienti (può accadere, per esempio, quando le chiese sono particolarmente affollate), ma in particolar modo essi sono istituiti “per portare le sacre specie, soprattutto in forma di Viatico, agli ammalati che si trovino in pericolo di morte oppure quando il numero degli infermi, soprattutto negli ospedali o in istituti simili, richieda l’opera di più ministri”.
Un ministro straordinario quando porta la comunione a un malato interagisce sempre con una persona in una situazione delicata e a volte critica. Si viene a contatto con le ferite della disabilità, di malattie croniche gravi, di depressioni invalidanti o anche di persone in lutto nelle quali è sicuramente più forte il dolore della ferita che la speranza di poterla riparare. Si tratta quindi di situazioni complesse in cui la persona sofferente pone sempre, anche se non sempre esplicitamente, una richiesta d’aiuto. D’altra parte nessuno, nemmeno il ministro della comunione, ha in sé la capacità e la forza di rispondere in toto a quella richiesta. In quel contesto il ministro può solo farsi compagno di strada del malato e dei suoi familiari in un percorso che passa necessariamente per la ricerca di una relazione e di un senso, o più propriamente di una relazione che dia senso e consolazione. Una relazione che non deve rimandare in primo luogo al ministro stesso e alla sua capacità ed esperienza nell’ascoltare o assistere il malato. Il centro è l’Eucaristia, è il mettersi tutti nelle mani di Cristo, «l’affidarsi», e non solo l’avere fiducia, poiché come sottolineato nel Messaggio di papa Benedetto XVI per la XVI Giornata Mondiale del Malato (2008) “proprio dall’Eucaristia la pastorale della salute deve attingere la forza spirituale necessaria a soccorrere efficacemente l’uomo e ad aiutarlo a comprendere il valore salvifico della propria sofferenza” (n. 4).
L’incontro con il malato è un incontro con una persona che quasi sempre ha su di sé più di una sofferenza. Oltre al disagio fisico l’ammalato è infatti afflitto dai problemi sociali, ad esempio quelli costituiti dall’accesso difficile alle terapie e all’assistenza, come accade frequentemente per gli anziani soli (in particolare donne vedove) o nel caso delle malattie rare, dove l’assistenza spirituale deve essere estesa a tutta la famiglia che sperimenta nel suo vissuto una situazione invalidante pari a quella del familiare ammalato. Ricorrendo a una immagine evangelica, il ministro straordinario della comunione deve imparare con i suoi comportamenti a favorire il contatto e l’incontro tra la forza salvifica di Gesù presente nell’Eucaristia e il malato. In altre parole egli è chiamato a essere, in un certo qual modo, come il lembo del mantello di Gesù che l’emorroissa vuol toccare per essere guarita (cf. Mc 5, 24 e ss). Uno snodo fondamentale, nel quale si gioca la possibilità di essere “il lembo del mantello”, è la capacità di cogliere e accogliere la domanda di senso che sempre, seppure in diversi modi, l’ammalato ha dentro di sé.
La domanda di senso è compagna di viaggio nell’esistenza umana, ma si fa più acuta e urgente nel tempo della vecchiaia e della malattia. L’uomo ammalato è nudo e impotente di fronte alla richiesta di senso che prorompe dal dolore e si scopre solo di fronte alla domanda che Cristo sulla Croce rivolge al Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Cristo rivolge al Padre la stessa domanda che tutti noi gli rivolgiamo ogni volta che sentiamo gli strappi dolorosi della carne, per ogni separazione e ogni abbandono, per ogni volta che la vita ci rivela il limite dell’esistenza terrena e la sua fragilità. Nella Montagna incantata di Thomas Mann l’uomo ammalato si sente “esclusivamente un corpo”, sperimenta in maniera nuova e assoluta l’intera fragilità della sua corporeità, e quindi di una delle dimensioni più complesse della sua esistenza: l’essere corpo, l’essere carne e sentire, di quel corpo e di quella carne, la bellezza e il dolore come mai gli era accaduto durante l’intero viaggio della vita. Il tempo della malattia sfida ogni uomo attraverso il corpo a ritrovare ciò che corporeo non è, ma che è altrettanto radicato nella natura umana, e a riconoscere l’inevitabile indissolubilità di queste due dimensioni, facendo appello a un orizzonte che ne concili il significato e che restituisca un senso a un dualismo antico. Precisamente, quella dualità di anima e di corpo di cui ci parla Platone, e alla quale è necessario restituire un’unità per cui il corpo non rimanga semplicemente “carcere” o “tomba” dell’anima, ma ne divenga anche “segno” e custodia, luogo imprescindibile per sperimentare il significato più profondo dell’esistenza umana.
Portare la comunione agli ammalati è un incarico in qualche modo speciale, poiché spesso significa portare Cristo accanto al letto di colui che da Cristo si sente abbandonato, nonostante sia il momento in cui maggiormente invoca una consolazione, una ragione, un senso per la sua condizione. Sicuramente è anche uno di quei momenti in cui è più difficile mostrare i segni della presenza di Cristo che consola e del senso di una Croce che possa illuminare altri angoli della sofferenza. Dove trovare una prospettiva da cui guardare a quel dolore e fare in modo che da essa possa scaturire vita e, soprattutto, amore e fiducia nel guardare alle sofferenze di Cristo per potervi contemplare la propria? E come camminare insieme con il malato verso quella prospettiva?
2. Imparare ad essere segno e presenza di un Dio che si prende cura
I ministri straordinari della comunione sono voce e presenza della comunità cristiana accanto a chi soffre e non speciali “fattorini” incaricati di consegnare a un anonimo destinatario, seppure con il massimo riguardo, un “oggetto prezioso” o un “farmaco miracoloso”. Al contrario, proprio il delicato compito di essere voce e presenza della comunità implica la capacità di vedere Cristo nel malato e di essere essi stessi Cristo per il malato, aiutando il sofferente spiritualmente e, quando possibile, anche materialmente, imitando la sollecitudine del Buon Samaritano nella parabola di Luca. Occorre loro, perciò, un solido impianto biblico, liturgico e catechetico, una spiritualità coltivata e sensibile e una formazione specifica, sia nella gestione della propria e altrui sofferenza, sia nella relazione e comunicazione con l’ammalato.
Tale formazione deve essere innervata dal messaggio biblico sul senso della vita, della sofferenza e della morte, ma non può prescindere dalla conoscenza delle peculiarità del mondo sanitario, dagli elementi fondamentali della psicologia dell’ammalato e della comunicazione con lui. Per stare a contatto con l’ammalato c’è bisogno di una preparazione adeguata che permetta un ascolto maturo della sua sofferenza, senza la quale non può esserci accoglienza e rispetto reciproco, condizioni necessarie perché si possa portare Cristo nelle case in cui abita la sofferenza.
Una formazione tanto necessaria quanto complessa e difficile anche da un punto di vista umano, in una società che nasconde e sfugge in molti modi il confronto con la realtà del dolore e della morte. I ministri straordinari della comunione sono invece chiamati alla consapevolezza della propria umanità, della propria impotenza e vulnerabilità attraverso un percorso che apra all’ascolto e sottolinei l’umiltà, segni riflessi della condizione di mancanza che accomuna tutti gli esseri umani. Si tratta di un processo in totale controtendenza con una società in cui è vincente l’immagine di un uomo che ha fiducia nella sua autonoma capacità di riparare sempre a ogni limite che la vita gli pone davanti. D’altra parte il limite è una questione centrale. Il limite, ogni limite, persino quello supremo e inevitabile della morte, può essere negato o rimosso dall’illusoria idea di onnipotenza che la società della tecnica cerca di veicolarci. Oppure, si può scegliere di vivere il proprio limite, di confrontarsi con esso e di abitarlo. Il limite può essere vissuto come un dolore o come una rassegnazione; ma è da lì, sempre, che ha inizio la ricerca di una via per arginare quel limite e conviverci, la ricerca che può diventare il tramite con la pienezza che ci viene offerta dall’incontro con Cristo. Ciò vale tanto per l’ammalato quanto per il ministro straordinario e, anzi, può essere comunicato più efficacemente al malato nella misura in cui il ministro straordinario ne ha fatto esperienza e ne è divenuto consapevole.
Gesù, infatti, è il guaritore ferito perché “per le sue piaghe siamo guariti tutti” (cf. Is 53, 5). Per entrare nel dolore degli altri è necessario attraversare il proprio dolore e fare in modo che esso diventi la sorgente di un’empatia profonda. È questa l’unica via efficace attraverso la quale è possibile prendere in carico una sofferenza e alleggerirla, portarla insieme, almeno per un tratto, “compatirla” nella sua accezione etimologica ossia sentirla insieme e, insieme, così, dalla stessa visuale cercare di scorgere la luce oltre la tenebra.
La compassione è uno dei sentimenti centrali che deve animare la cura, il prendersi cura. Il buon samaritano, infatti, passando accanto all’uomo percosso e sofferente lasciato a terra dai briganti “lo vide”, dunque ne fu consapevole, si accorse della sua sofferenza, fino a provarne compassione. Prima ancora che lo fasciasse con olio e vino e che lo accompagnasse alla locanda, lo curò con la presenza, “gli si fece vicino”, ribadendo che la fede cristiana è contatto, prossimità, e che non può essere vissuta senza andare incontro all’altro.
Ogni volta che ci accostiamo a qualcuno l’avvicinarsi stesso, lo stare in prossimità, non è mai neutro, poiché nessuna relazione umana autentica può essere neutrale. Ogni incontro che sia davvero tale inevitabilmente ci modifica. In quel contatto si giocano le fragilità e la forza di entrambe le persone che entrano in relazione e che, grazie all’incontro mutano e si spostano dalla propria prospettiva per meglio comprendere quella dell’altro. L’incontro con l’ammalato è un incontro particolarmente complesso poiché spesso è ostacolato da una sofferenza che rende impermeabili e diventa un muro di cinta dal quale inconsciamente si spera che non salga più altro dolore. Incontrare un malato significa prima di tutto accogliere la sua ferita, che ha a che fare sempre con ferite di cui tutti noi, più o meno consapevolmente, portiamo i segni, e da cui cerchiamo di fuggire. Bisogna accettare entrambi la fatica di scalare quel muro di cinta dietro cui ognuno di noi si è barricato a difesa del dolore di vivere. Perciò è necessario andare incontro al malato camminando “in punta di piedi”, cercando con discrezione e delicatezza la direzione di un ingresso, cioè di quel punto in cui il dolore può cessare di essere assordante per far spazio a un dialogo o semplicemente al lasciarsi avvicinare, permettendo che si crei un varco, piccolo o grande, nella barriera creata dalla sofferenza. Entrati in quel varco, bisogna mettersi innanzitutto all’ascolto non di un generico dolore, ma di quel dolore e di come quella persona lo vive dentro di sé e poi lentamente individuare ed esplorare le risorse dell’ammalato, cioè tutto ciò a cui lui si appiglia e che lo tiene attaccato alla vita. I suoi interessi, i suoi affetti, le sue domande, tutto ciò che gli dà sollievo, consolazione e speranza diventa occasione di conoscerlo e servirlo, incarnando nella nostra prossimità il volto di un Dio vicino. Neanche un medico, infatti, e nessuna medicina è capace di curare davvero, né tanto meno di prendersi cura, se rinuncia all’ascolto del malato. Curare non necessariamente significa guarire, ma prendersi cura è possibile sempre. Per prendersi cura, però, è indispensabile una relazione personale, perché́ ogni persona, e così anche il suo dolore e la sua malattia, sono unici e irripetibili sia sul piano biologico, sia su quello spirituale. È arrogante ogni medicina che in nome del protocollo crede di poter fare a meno dell’ascolto, così come è inutile e altrettanto arrogante ogni consolazione che sa già cosa dire prima del racconto della sofferenza di quella persona, con la sua storia e il suo vissuto, che è diverso per ogni essere umano che soffre.
Nell’attraversare la sofferenza altrui il ministro straordinario della comunione è chiamato a ricomprendere la propria, a venire a contatto più profondamente con la verità del corpo, con i limiti della sua precarietà, a fare i conti con l’essere al mondo per un tempo limitato che rende provvisorio ogni bene materiale e necessaria la ricerca di una verità più profonda che restituisca la speranza, virtù teologale che il ministro deve coltivare in sé e alimentare nell’altro. La dimensione del racconto in questo senso è centrale poiché è collegata intimamente a quella dell’ascolto e poiché entrambe partecipano alla costruzione della relazione e dell’apertura che deve essere necessariamente reciproca. Ascoltare significa amplificare tutti i sensi, attraverso lo sguardo, il contatto, l’udito e mobilitare tutti i mezzi espressivi ed emotivi: comunicare con gesti di affetto e attraverso il sorriso e non semplicemente con le parole. La comunicazione, infatti, è molto spesso non verbale e tra i momenti più delicati c’è la gestione del silenzio.
La malattia non ha sempre una cura e non sempre le cure sono capaci di cancellare i segni, la disabilità o il dolore; può accadere che l’esito delle terapie permetta di salvare una vita, lasciandola però segnata per sempre dalla malattia e dalla disabilità e pertanto difficile da accettare. Non sempre le parole possono spiegare il senso di un’esperienza che è più ampia del mero dolore fisico e le cui radici affondano nel mistero. Ed è la gestione del silenzio che si apre all’attesa di un riconoscimento del dolore, la prova più dura da affrontare nel dialogo che precede o, a volte, segue la comunione degli infermi. E fare in modo che quel silenzio si riempia di senso, si apra al significato della sofferenza e sia un silenzio “compreso” e fecondo, un silenzio di compassione.
Dunque non si tratta di un ascolto semplice, ma di un ascolto che mette in gioco se stessi e richiede rigore nella concentrazione e l’assoluta capacità di mettere da parte ogni giudizio e di imporre il proprio schema di riferimento o di valori. L’ascolto non si traduce mai in un consiglio, né in una ricetta, e, se pur può mettere da parte la parola, non può abbandonare lo sguardo, il contatto visivo con il volto; un ascolto che non è il tentativo di comprendere intellettualmente e che non coincide con l’identificazione emotiva, ma piuttosto con la capacità di accompagnare le emozioni altrui e accettare di dialogare con la natura di quelle emozioni generate dalla sofferenza.
D’altra parte, tale sofferenza chiede di trasformarsi, di ricomprendersi, secondo un bisogno che è di ciascun uomo, ma dalla sofferenza ciascun uomo naturalmente si ritrae, come scriveva Alda Merini, la poetessa che trovava i suoi versi “intingendo il calamaio nel cielo”. Ed è nel dolore che l’uomo può contemporaneamente cercare e negare Cristo, è nel patimento, nello scandalo del dolore che l’uomo, magnificamente descritto da Alda Merini, incontra la paura e la pietà per Cristo e quindi per sé stesso, per il Cristo che, facendosi uomo, abbraccia l’umanità nel suo segno più doloroso: «Gesù, /forse è per paura delle tue immonde spine / ch’io non ti credo, / per quel dorso chino sotto la croce / ch’io non voglio imitarti. / Forse, come fece san Pietro, / io ti rinnego per paura del pianto. / Però io ti percorro ad ogni ora / e sono lì in un angolo di strada / e aspetto che tu passi. / E ho un fazzoletto, amore, / che nessuno ha mai toccato, / per tergerti la faccia»
Conclusione
Sempre e nuovamente, siamo chiamati a riscoprire che ogni nostro dolore e persino la nostra morte sono uniti e trasformati dalla sofferenza e dalla morte del Signore Gesù. Non a caso, papa Francesco scrive nella Lumen Fidei: “Il cristiano sa che la sofferenza non può essere eliminata, ma può ricevere un senso, può diventare atto di amore, affidamento alle mani di Dio che non ci abbandona e, in questo modo, essere una tappa di crescita della fede e dell’amore. Contemplando l’unione di Cristo con il Padre, anche nel momento della sofferenza più grande sulla croce (cf. Mc 15, 34), il cristiano impara a partecipare allo sguardo stesso di Gesù. Perfino la morte risulta illuminata e può essere vissuta come l’ultima chiamata della fede, l’ultimo “Esci dalla tua terra” (Gen 12, 1), l’ultimo “Vieni!” pronunciato dal Padre, cui ci consegniamo con la fiducia che Egli ci renderà saldi anche nel passo definitivo” (n. 56).
Essere ministri di Gesù al letto del malato significa essere inviati a testimoniare una fede che si fa prossima con l’ascolto, il servizio, la compassione. Con la luce di questa fede si può accendere la speranza nell’amore che porta la Croce e mostrare come, proprio in quell’amore, è presente la Risurrezione. Una fede personale che si nutre in primo luogo di contemplazione e vita di carità. Una fede però vissuta pienamente anche nella dimensione comunitaria, con lo zelo per l’evangelizzazione, con la partecipazione attiva nella comunità cristiana e la responsabilità per la propria formazione al servizio.
Va ricordato, specialmente ai presbiteri, che il primo atto della formazione consiste nella selezione dei ministri straordinari della comunione. A questi ultimi si richiede la disponibilità a servire i malati mediante il raggiungimento di un equilibrio personale capace di ascolto, accoglienza e amore e con un’apertura del cuore in grado di gestire il silenzio e di ricolmarlo della speranza e della consolazione di Cristo. Ai ministri è necessaria una capacità empatica che può avere solo chi ha attraversato le proprie ferite e sa ripercorrerle nuovamente ogni volta nel contatto con quelle altrui. Così è possibile restituire al dolore degli altri il senso che si è dato al proprio dolore, senza imporlo, ma offrendolo come una luce che si offre nel buio in una strada di cui si conoscono le asprezze e di cui, però, si può indicare anche la bellezza perché quella bellezza la si è potuta scorgere. Ai presbiteri, allora, andrebbe raccomandato lo stesso cammino, curando che essi scelgano adeguatamente le persone a cui proporre questo servizio, e le accompagnino con un percorso di maturazione spirituale e, almeno inizialmente, con una forma di tirocinio.
Come già i Dodici, ancora oggi ogni credente, laico o presbitero che sia, è messo in questione dallo scandalo della Croce, ed è misurato dall’Eucaristia, segno supremo dell’Amore che si dona fino alla fine, non fuggendo il dolore e il sacrificio. Chi porta la comunione al malato deve imparare, con la grazia di Cristo, ad amare la propria e l’altrui croce e crescere nel dono di sé al fratello proprio attraverso la presenza, l’ascolto, l’empatia, la consolazione. Non a caso il san Giovanni Paolo II, che attraverso l’esperienza della malattia era largamente passato, affermava nella Salvifici Doloris, che “il mondo dell’umana sofferenza invoca senza sosta un altro mondo, quello dell’amore umano” (n. 29).
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di mons. Andrea Manto, in Fonte e culmine 6/13
di mons. Andrea Manto, in Fonte e culmine 6/13