II. Un’istruzione per celebrare il Mistero pasquale
Potrebbe apparire assai arduo un percorso di analisi della prima Esortazione apostolica di papa Benedetto XVI in questa seconda parte del documento, «Eucaristia, mistero da celebrare» (nn. 34-69), di taglio dichiaratamente liturgico, e dunque nel sentire comune difficilmente opinabile se l’assunto di partenza è che il vescovo di Roma, in continuità con il mandato apostolico è il primo custode e garante della celebrazione del Mistero pasquale. Ritengo invece indispensabile soffermarci su alcuni temi salienti dello scritto, per porre maggiormente in risalto quelle chiavi interpretative della riforma conciliare che il Papa ha sapientemente riportato in luce nell’Esortazione. Di esse preciseremo ulteriormente i contenuti, cercando di evidenziarne i risvolti pastorali, mentre non mancheremo di affiancarvi altri spunti di riflessione, forse meno rappresentati nel documento, e che a mio avviso rivestono carattere di urgenza per via di alcuni riflussi pre-conciliari che ancora oggi rallentano l’applicazione della riforma liturgica e ne impediscono una corretta diffusione. Lo stesso Benedetto XVI d’altra parte, in maniera quasi programmatica, scrive nell’introduzione al documento che «le difficoltà e anche taluni abusi rilevati, (...) non possono oscurare la bontà e la validità del rinnovamento liturgico, che contiene ancora ricchezze non pienamente esplorate» (n. 3)[1]. Procederemo dunque a un’analisi del testo non pedissequa, ma di tipo tematico, volta a sintetizzare per grandi linee le dimensioni teologico-liturgiche dominanti.
1. Eucaristia celebrata, professata e vissuta
L’Esortazione postsinodale, come il titolo stesso rivela, è interamente dedicata all’Eucaristia, quale cuore teologico fondativo della fede e della sua celebrazione nella vita della Chiesa. E Benedetto XVI manifesta chiaramente, nel definire lo scopo del suo scritto, l’intenzione di «raccomandare, accogliendo il voto dei Padri sinodali, che il popolo cristiano approfondisca la relazione tra il Mistero eucaristico, l’azione liturgica e il nuovo culto spirituale derivante dall’Eucaristia, quale sacramento della carità» (n. 5). Viene fatta cioè un’affermazione che pone nuovamente in evidenza l’importanza di una circolarità ermeneutica tra celebrazione della fede, atto di fede e vita di fede, ossia, sulla scia di Prospero di Aquitania e alla scuola dei Padri della Chiesa di Oriente, si pone l’accento sull’intrinseco nesso che intercorre tra lex orandi, lex credendi e lex vivendi[2].
Pertanto la strutturazione stessa del documento si articola secondo questa sequenza logica e teologica, e vede una prima parte dedicata alla riflessione sull’Eucaristia in quanto mistero della fede, nella seconda parte, qui oggetto di riflessione, il pontefice indaga sulla celebrazione di un tale dato di fede, per poi concludere con le ricadute esistenziali conseguenti alle prime due sezioni dell’Esortazione. In altri termini, il Papa ci suggerisce la possibilità di guardare al momento liturgico-celebrativo, non come a una realtà autonoma in sé compiuta, quanto piuttosto come a un momento preciso, ma non esclusivo, di un processo che riguarda il percorso di crescita spirituale del cristiano. Ed è secondo questa visione prospettica, che egli stesso introduce la seconda parte dell’Esortazione, dedicando, seppur in modo assai sintetico, le prime righe del testo al rapporto fondativo che l’Eucaristia svolge rispetto all’atto di fede e alla sua celebrazione (cf. n. 34). Un tale approccio merita qualche considerazione, poiché ci rimanda immediatamente a quella visione della liturgia in prospettiva mistagogica che era propria della Chiesa nascente, e che oggi purtroppo è sopravvissuta soltanto nelle Chiese d’Oriente. Sulla scia del Concilio Vaticano II il pensiero teologico-liturgico contemporaneo ha tentato ripetutamente di riportare in auge la mistagogia[3], attraverso tentativi di riforma che al momento rimangono soltanto pensiero condiviso tra le sfere intellettuali del pensiero teologico-liturgico, ma che stentano a concretizzarsi in iniziative pastorali concrete a favore del popolo dei fedeli. Ci riferiamo in particolar modo alla prassi pastorale della catechesi previa alla celebrazione dei sacramenti, che piuttosto che limitarsi a introdurre al mistero che verrà celebrato per dispiegarsi successivamente al momento celebrativo come reale e più profonda riflessione sul sacramento, si propone invece come momento unico e risolutivo ai fini di una comprensione di tipo intellettivo del sacramento che è ben lungi dalla prospettiva della grazia sacramentale. Mi sembra, pertanto, che le continue indicazioni dei liturgisti, nonché i contenuti di questi primi pronunciamenti di Benedetto XVI[4] non possano rimanere riflessioni di alta teologia, ma debbano costituire la base su cui costruire una pastorale liturgica rinnovata, come per altro alcuni degli stessi documenti CEI dell’ultimo decennio ci hanno ricordato[5]. La liturgia non può cioè continuare a essere vista come una realtà autonoma rispetto all’atto di fede, poiché insieme a quest’ultimo costituisce un’unità inscindibile, il dato previo e allo stesso tempo conseguente alla fede nell’Eucaristia. La celebrazione eucaristica e qualunque altro atto di devozione nei confronti del sacramento altro non sono, pertanto, se non la traduzione rituale di una professione di fede che necessariamente investe anche la vita quotidiana e dunque il tessuto sociale[6]. Allora questo incipit prospettico alla seconda parte dell’Esortazione, mentre ci fornisce la chiave di lettura per comprendere le affermazioni contenute nei paragrafi seguenti, al contempo indica la via da seguire nel percorso della formazione cristiana, in vista del recupero di un’esperienza di fede che si nutra del momento celebrativo quale alimento per la fede e sostegno per una testimonianza di vita cristiana.
2. Liturgia quale luogo e momento epifanico della bellezza di Dio
Il Papa prosegue quindi l’Esortazione affrontando il tema della bellezza nella liturgia (n. 35), ponendo il secondo punto fermo nella sua trattazione, quasi che egli intenda, prima di scendere nel dettaglio delle indicazioni liturgiche di taglio anche eminentemente pastorale, ribadire ulteriormente gli orizzonti ermeneutici della sua visione della liturgia. E per farlo colloca il valore teologico e liturgico della bellezza all’incrocio tra il dato di fede e l’azione rituale che lo celebra. La bellezza in questione chiaramente prescinde dal dato puramente estetico, pur senza volerlo del tutto escludere[7], e viene intesa quale «modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore» (n. 35). E se la liturgia è il linguaggio della fede, quel veicolo privilegiato per mezzo del quale poter penetrare l’abisso del mistero, pur nella sua immutata ineffabilità, allora essa è il luogo dell’incontro con la bellezza così intesa. Se infatti l’azione rituale è quell’insieme di elementi simbolici attraverso la cui mediazione è possibile all’uomo raggiungere la salvezza offerta “semel pro sempre” da Cristo sulla croce, essa non può al contempo non condurci all’incontro con la pienezza della sua bellezza che nel sommo atto oblativo di Dio è contenuta, e che l’azione liturgica celebra con il nome di Mistero pasquale. Il testo dell’Esortazione vuole così sottolineare il ruolo epifanico della liturgia in quanto veicolo della bellezza di Dio, luogo della manifestazione di Dio all’uomo, momento salvifico centrale nell’esperienza di fede del credente. Ne consegue un risvolto pastorale di inestimabile valore, dall’Esortazione suggerito con l’invito generico a usare attenzione «perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria» (n. 35). In questa affermazione, che necessita di essere esplicitata meglio, è possibile leggere tutta una gamma di indicazioni pastorali volte alla celebrazione di una liturgia che rispecchi una tale idea di bellezza, attraverso il decoro, la sobrietà, il rispetto degli spazi sacri, l’uso corretto del corpo nella celebrazione, l’adeguata pregnanza dei segni, e tanto altro ancora che nei paragrafi susseguenti del documento viene preso in esame.
2.1 Arte e musica a servizio del Logos
Parlare del rapporto tra liturgia e bellezza porta automaticamente con sé i temi dell’arte e della musica per la liturgia, e per quanto il Pontefice vi dedichi uno spazio nei paragrafi successivi (nn. 41-42), e precisamente nel contesto dell’ars celebrandi, ci appare tuttavia necessario anticiparne la trattazione in questa sede, per procedere quasi in modo esemplificativo a una possibilità di applicazione pastorale dell’invito alla bellezza nella liturgia. E’ chiaro che in questo modo stiamo spostando l’accento anche sulla dimensione estetica del concetto di bello nella liturgia, ma senza prescindere dal fatto che la presenza delle arti nella celebrazione liturgica è volta a contribuire perché il pulchrum della verità di Dio risplenda nell’azione rituale. Riteniamo cioè in questa sede indispensabile precisare, in modo non dissonante da quanto affermato nell’Esortazione, che arte e musica svolgono nella celebrazione un ruolo ministeriale. Esse cioè, lungi dall’essere ridotte a elemento decorativo del rito, devono essere a servizio del Logos, hanno cioè insieme a qualunque altra ministerialità esercitata nella celebrazione, il compito di contribuire alla realizzazione dei fini propri alla liturgia[8]. Questo non le rende realtà ancillari rispetto alla liturgia, quasi che senza di essa non abbiano una significatività propria, ma valorizza ulteriormente il valore mediatico che arte e musica hanno in se stesse, e che posto a servizio dell’azione rituale può contribuire in modo davvero mirabile alla comprensione del messaggio salvifico veicolato nella celebrazione del Mistero pasquale. Perché entrambe le discipline però raggiungano un tal fine si rende necessaria una stretta collaborazione di queste con lo spirito della celebrazione, e dunque un’adeguata formazione liturgica di artisti e committenti dell’opera d’arte per la liturgia, e di musicisti e animatori liturgici. Mi sorprende a tal proposito il fatto che papa Benedetto XVI, pur rivolgendo l’invito ai presbiteri per una formazione «artistica» che fornisca loro le competenze minime per un orientamento nel campo dell’arte per la liturgia (n. 40), non faccia altrettanto nei confronti della musica[9]. Pertanto in continuità con la lodevole iniziativa del Pontefice di dedicare un intero paragrafo al canto nella celebrazione, in modo perfettamente consono alle sue inclinazioni personali[10], e quasi a volere compensare una disattenzione dei Padri sinodali, cogliamo l’occasione per ridestare l’attenzione della Chiesa tutta sulla situazione di degrado in cui versa la musica per la liturgia oggi e le cui cause principali sono a mio avviso da imputare alla mancanza di un patrimonio musicale adeguato ai criteri della riforma conciliare[11].
Il ricorso al canto gregoriano che in ben due passi dell’Esortazione ritorna, infatti, ritengo che debba essere inteso come ritorno a uno stile compositivo in cui le linee melodiche nascono dalla musicalità stessa della parola che accompagna[12]. Non va infine dimenticato che tale parola dovrebbe essere la stessa parola di Dio, o al più una sua parafrasi, per non incorrere nel rischio di introdurre nella celebrazione elementi ad essa non consoni o inadeguati a trasmettere il contenuto del messaggio salvifico.
3. Soggetti della celebrazione
Al n. 36 l’Esortazione prosegue il suo sviluppo dedicando una breve quanto basilare riflessione al fondamento dell’azione liturgica, che trova il proprio referenziale principale nella persona di Cristo, secondo quanto dice SC 7 quando definisce la liturgia «esercizio della funzione sacerdotale di Cristo». Ne consegue che nell’unico soggetto della celebrazione liturgica è inclusa la Chiesa, in quanto corpo di Cristo che egli associa a sé in ogni atto rituale. Questo principio cardine della riforma conciliare se da una parte restituisce al popolo di Dio il ruolo e il diritto a essere considerato soggetto della celebrazione, ripristinando un uso e un’idea che la decadenza della liturgia aveva annientato sotto il peso di un clericalismo rituale accentratore ed esclusivo, dall’altra parte ci porta a non dimenticare che la fonte di qualunque ministerialità liturgica, ordinata e non, trova in Cristo il suo punto unico di scaturigine.
A tal proposito, in questa sede cogliamo l’occasione per sottolineare il senso e il ruolo delle riscoperte ministerialità laicali postconciliari, non mancando di ricordare anche l’esistenza dei ministeri istituiti riservati ai laici[13]. La centralità dell’Eucaristia nella vita del cristiano, a cui l’Esortazione vuole dedicare lo spazio precipuo, trova infatti nel momento celebrativo il vertice attuativo della fede, che si esplicita attraverso la partecipazione all’azione rituale, in cui le diverse ministerialità dell’articolato corpo di Cristo vengono esercitate a gloria di Dio. E la novità conciliare in questo senso è consistita nella valorizzazione di questa soggettualità liturgica della Chiesa, attraverso il ruolo attivo dei laici nella celebrazione eucaristica, e in particolar modo delle donne, un tempo tenute ai margini degli spazi della celebrazione, e oggi sempre più spesso impegnate nell’esercizio dei ministeri di fatto, come nella formazione liturgica[14].
Potrebbe apparire assai arduo un percorso di analisi della prima Esortazione apostolica di papa Benedetto XVI in questa seconda parte del documento, «Eucaristia, mistero da celebrare» (nn. 34-69), di taglio dichiaratamente liturgico, e dunque nel sentire comune difficilmente opinabile se l’assunto di partenza è che il vescovo di Roma, in continuità con il mandato apostolico è il primo custode e garante della celebrazione del Mistero pasquale. Ritengo invece indispensabile soffermarci su alcuni temi salienti dello scritto, per porre maggiormente in risalto quelle chiavi interpretative della riforma conciliare che il Papa ha sapientemente riportato in luce nell’Esortazione. Di esse preciseremo ulteriormente i contenuti, cercando di evidenziarne i risvolti pastorali, mentre non mancheremo di affiancarvi altri spunti di riflessione, forse meno rappresentati nel documento, e che a mio avviso rivestono carattere di urgenza per via di alcuni riflussi pre-conciliari che ancora oggi rallentano l’applicazione della riforma liturgica e ne impediscono una corretta diffusione. Lo stesso Benedetto XVI d’altra parte, in maniera quasi programmatica, scrive nell’introduzione al documento che «le difficoltà e anche taluni abusi rilevati, (...) non possono oscurare la bontà e la validità del rinnovamento liturgico, che contiene ancora ricchezze non pienamente esplorate» (n. 3)[1]. Procederemo dunque a un’analisi del testo non pedissequa, ma di tipo tematico, volta a sintetizzare per grandi linee le dimensioni teologico-liturgiche dominanti.
L’Esortazione postsinodale, come il titolo stesso rivela, è interamente dedicata all’Eucaristia, quale cuore teologico fondativo della fede e della sua celebrazione nella vita della Chiesa. E Benedetto XVI manifesta chiaramente, nel definire lo scopo del suo scritto, l’intenzione di «raccomandare, accogliendo il voto dei Padri sinodali, che il popolo cristiano approfondisca la relazione tra il Mistero eucaristico, l’azione liturgica e il nuovo culto spirituale derivante dall’Eucaristia, quale sacramento della carità» (n. 5). Viene fatta cioè un’affermazione che pone nuovamente in evidenza l’importanza di una circolarità ermeneutica tra celebrazione della fede, atto di fede e vita di fede, ossia, sulla scia di Prospero di Aquitania e alla scuola dei Padri della Chiesa di Oriente, si pone l’accento sull’intrinseco nesso che intercorre tra lex orandi, lex credendi e lex vivendi[2].
Pertanto la strutturazione stessa del documento si articola secondo questa sequenza logica e teologica, e vede una prima parte dedicata alla riflessione sull’Eucaristia in quanto mistero della fede, nella seconda parte, qui oggetto di riflessione, il pontefice indaga sulla celebrazione di un tale dato di fede, per poi concludere con le ricadute esistenziali conseguenti alle prime due sezioni dell’Esortazione. In altri termini, il Papa ci suggerisce la possibilità di guardare al momento liturgico-celebrativo, non come a una realtà autonoma in sé compiuta, quanto piuttosto come a un momento preciso, ma non esclusivo, di un processo che riguarda il percorso di crescita spirituale del cristiano. Ed è secondo questa visione prospettica, che egli stesso introduce la seconda parte dell’Esortazione, dedicando, seppur in modo assai sintetico, le prime righe del testo al rapporto fondativo che l’Eucaristia svolge rispetto all’atto di fede e alla sua celebrazione (cf. n. 34). Un tale approccio merita qualche considerazione, poiché ci rimanda immediatamente a quella visione della liturgia in prospettiva mistagogica che era propria della Chiesa nascente, e che oggi purtroppo è sopravvissuta soltanto nelle Chiese d’Oriente. Sulla scia del Concilio Vaticano II il pensiero teologico-liturgico contemporaneo ha tentato ripetutamente di riportare in auge la mistagogia[3], attraverso tentativi di riforma che al momento rimangono soltanto pensiero condiviso tra le sfere intellettuali del pensiero teologico-liturgico, ma che stentano a concretizzarsi in iniziative pastorali concrete a favore del popolo dei fedeli. Ci riferiamo in particolar modo alla prassi pastorale della catechesi previa alla celebrazione dei sacramenti, che piuttosto che limitarsi a introdurre al mistero che verrà celebrato per dispiegarsi successivamente al momento celebrativo come reale e più profonda riflessione sul sacramento, si propone invece come momento unico e risolutivo ai fini di una comprensione di tipo intellettivo del sacramento che è ben lungi dalla prospettiva della grazia sacramentale.
2. Liturgia quale luogo e momento epifanico della bellezza di Dio
Il ricorso al canto gregoriano che in ben due passi dell’Esortazione ritorna, infatti, ritengo che debba essere inteso come ritorno a uno stile compositivo in cui le linee melodiche nascono dalla musicalità stessa della parola che accompagna[12]. Non va infine dimenticato che tale parola dovrebbe essere la stessa parola di Dio, o al più una sua parafrasi, per non incorrere nel rischio di introdurre nella celebrazione elementi ad essa non consoni o inadeguati a trasmettere il contenuto del messaggio salvifico.
Al n. 36 l’Esortazione prosegue il suo sviluppo dedicando una breve quanto basilare riflessione al fondamento dell’azione liturgica, che trova il proprio referenziale principale nella persona di Cristo, secondo quanto dice SC 7 quando definisce la liturgia «esercizio della funzione sacerdotale di Cristo». Ne consegue che nell’unico soggetto della celebrazione liturgica è inclusa la Chiesa, in quanto corpo di Cristo che egli associa a sé in ogni atto rituale. Questo principio cardine della riforma conciliare se da una parte restituisce al popolo di Dio il ruolo e il diritto a essere considerato soggetto della celebrazione, ripristinando un uso e un’idea che la decadenza della liturgia aveva annientato sotto il peso di un clericalismo rituale accentratore ed esclusivo, dall’altra parte ci porta a non dimenticare che la fonte di qualunque ministerialità liturgica, ordinata e non, trova in Cristo il suo punto unico di scaturigine.
A tal proposito, in questa sede cogliamo l’occasione per sottolineare il senso e il ruolo delle riscoperte ministerialità laicali postconciliari, non mancando di ricordare anche l’esistenza dei ministeri istituiti riservati ai laici[13]. La centralità dell’Eucaristia nella vita del cristiano, a cui l’Esortazione vuole dedicare lo spazio precipuo, trova infatti nel momento celebrativo il vertice attuativo della fede, che si esplicita attraverso la partecipazione all’azione rituale, in cui le diverse ministerialità dell’articolato corpo di Cristo vengono esercitate a gloria di Dio. E la novità conciliare in questo senso è consistita nella valorizzazione di questa soggettualità liturgica della Chiesa, attraverso il ruolo attivo dei laici nella celebrazione eucaristica, e in particolar modo delle donne, un tempo tenute ai margini degli spazi della celebrazione, e oggi sempre più spesso impegnate nell’esercizio dei ministeri di fatto, come nella formazione liturgica[14].
Queste osservazioni sono sottintese nei paragrafi dell’Esortazione, soprattutto in quelli dedicati alla struttura celebrativa (cf. nn. 44-51), laddove ad esempio si allude a «lettori ben preparati» (n. 45), seppur sorprenda la scelta costante di utilizzare il termine «fedeli» per alludere all’assemblea senza aggiungere l’aggettivazione di «laici»[15]. Allora si potrebbe pensare che in questi passi il testo intenda rivolgersi a ministri ordinati e formatori di candidati agli ordini, senza interpellare a fondo anche la sensibilità liturgica di cui ogni buon cristiano, anche laico, dovrebbe essere dotato in virtù del suo diritto-dovere di esercitare nel sacerdozio comune il sacerdozio di Cristo. Ritengo invece che gli spunti che il documento offre siano sufficientemente significativi a creare impulsi di riflessione in tal senso, ai fini di una ulteriore valorizzazione e crescita della soggettualità liturgica del Christus totus, capo e membra.
4. Liturgia e ars celebrandi, tra indicazioni rubbricali e processi di inculturazione
Un altro tema degno di rilievo presente nel testo di papa Benedetto XVI è rappresentato dalla sottolineatura del ruolo imprescindibile che l’ars celebrandi svolge ai fini della partecipazione dei fedeli alla liturgia (nn. 38-42). La prospettiva di analisi dell’argomento ci appare senza dubbio interessante, poiché spesso le più frequenti inosservanze e abusi liturgici vengono giustificati dai loro incauti autori come unica soluzione per ovviare a una scarsa partecipazione assembleare alla celebrazione. In realtà una corretta applicazione delle norme liturgiche non è necessariamente restrittiva della comprensione e dunque della partecipazione al rito, ma al contrario diviene garanzia di ortodossia e quindi di trasmissione chiara del messaggio salvifico mediato dalla celebrazione. Di questo processo il vescovo diocesano è il primo custode e garante (cf. n. 39), e l’invito del Papa a far sì che le liturgie delle chiese cattedrali siano modello celebrativo per le Chiese locali risuona in queste pagine di grande attualità. Questa indicazione infatti, nel ricordare ai vescovi la loro grande responsabilità rispetto al patrimonio liturgico della Chiesa, funge al contempo da monito nei confronti di quelle iniziative private di revisione della ritualità o peggio ancora dei testi liturgici, che a volte si consumano presso le piccole comunità parrocchiali o gli istituti di religiosi, in ragione di una specifica fisionomia dei fedeli. Una corretta ars celebrandi invece non può prescindere dal rispetto per i libri liturgici, poiché in essi è custodita la codificazione della fede nel Mistero pasquale, il che fa sì che un tale rispetto deve essere conferito anche al libro nella sua materialità[16]. Dalla precisazione del concetto di ars celebrandi quale atteggiamento di profondo rispetto dei libri liturgici scaturisce quindi la trattazione della struttura della celebrazione (nn. 44-51) su cui ci limitiamo a sottolineare che le osservazioni fatte dal Pontefice in merito ad alcuni abusi della celebrazione, lungi dal voler scatenare un atteggiamento esasperatamente rubricistico, intendono sollecitare il rispetto all’azione liturgica nella sua valenza più propriamente simbolica[17]. Ne consegue che ogni alterazione arbitraria della struttura celebrativa porta con sé l’alterazione della pregnanza del segno e della sua comunicatività, e tradisce dunque l’identità del momento celebrativo. L’ars celebrandi infatti è qualcosa che va oltre le rubriche, ma a partire da esse significa un corretto uso di tutti gli strumenti della comunicazione rituale, dai linguaggi verbali ai non verbali, ai segni, gesti, atteggiamenti, vesti liturgiche, arredi sacri e quanto si pone nella celebrazione come elemento materiale atto a mediare la trascendenza di Dio. Dall’altra parte il rispetto dell’ars celebrandi non offende l’idea di adattamento e inculturazione della liturgia, poiché come il Pontefice stesso spiega al n. 54, l’inculturazione liturgica è una realtà che viene legittimata dal mistero stesso dell’Incarnazione, paradigmatico di qualunque processo di adattamento dell’azione rituale all’indole e alla cultura di ciascun popolo. Questo procedimento tuttavia deve essere regolato dalle Conferenze Episcopali locali, il cui lavoro di traduzione e adattamento delle edizioni tipiche dei libri liturgici deve essere condotto con grande senso di responsabilità, per dare vita a libri liturgici che davvero rivelino l’indole e la cultura del Paese senza al contempo tradire l’originalità del messaggio evangelico[18]. Una creatività selvaggia o improvvisati tentativi di inculturazione a buon mercato di cui a volte siamo stati testimoni anche nei casi di concelebrazioni internazionali, difatti, mentre offrono la sensazione di un maggiore coinvolgimento dell’assemblea nella celebrazione, al contempo ne abbacina i sensi e non consente ai fedeli una reale comprensione del messaggio salvifico mediato nell’azione rituale[19].
5. Alcune precisazioni sul concetto di partecipazione
Un ampio spazio viene poi dedicato dal Papa, in linea con le proposizioni sinodali, al concetto di «actuosa participatio» (cf. nn. 52-65), espressione mutuata dalla Costituzione dogmatica sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (nn. 14-20; 30.48), per indicare la «consapevolezza» che il cristiano ha «del mistero che viene celebrato e del suo rapporto con l’esistenza quotidiana» (n. 52). Non intendiamo in questa sede ripetere quanto già opportunamente viene precisato nell’Esortazione[20], bensì soffermarci su alcuni elementi che frequentemente divengono oggetto di discussione a più livelli, e che facilmente si sottopongono a fraintendimenti nell’opinione comune di cristiani e non. Tra questi primo tra tutti va annoverato il tema della lingua da usare nella celebrazione, problema che sembrava superato a seguito dei pronunciamenti del Concilio Vaticano Il e che è tornato alla ribalta, con echi giornalistici clamorosi quanto fuorvianti, a seguito delle affermazioni contenute al n. 62 dell’Esortazione[21]. In essa si suggerisce che la lingua delle celebrazioni, in occasione di incontri internazionali, sia il latino, fatta eccezione per le letture, l’omelia e la preghiera dei fedeli, per poter «meglio esprimere l’unità e l’universalità della Chiesa». Una tale affermazione, oltre che ribadire le disposizioni conciliari (cf. SC 36), è in linea con l’uso decennale e consolidato di gran parte delle celebrazioni pontificie in San Pietro, e non intende affatto avallare l’ipotesi di un ritorno alle celebrazioni in lingua latina per l’intero universo cattolico[22]. In tal senso sono da considerare dunque arbitrarie le scelte di quanti, in nome di nostalgici quanto incomprensibili nostalgie del passato, ancora oggi promuovono l’uso del latino per celebrazioni locali di ambito parrocchiale. In quel caso, infatti, l’uso del latino entra in contraddizione proprio con il concetto di universalità di una Chiesa che ha scelto di parlare nel linguaggio della fede una lingua viva, ponendo seri ostacoli alla actuosa participatio dei fedeli alla celebrazione e adoperando testi liturgici che la Chiesa conserva e custodisce gelosamente quale Tradizione della fede, ma che ha sostituito con i libri riformati del Concilio Vaticano II[23]. Qualche parola in più va spesa tuttavia sul seguito del medesimo paragrafo 62 in cui è contenuta l’esortazione a preparare i futuri presbiteri «a comprendere e celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano». E più avanti il documento continua suggerendo la possibilità che gli stessi fedeli siano in grado di pregare in latino e cantare in gregoriano «certe parti della Messa». A tal proposito ci permettiamo di ricordare che se la richiesta della conoscenza del latino per i sacerdoti è comprensibile nei casi di degrado culturale dei ministri ordinati, a volte anche a dispetto delle proposte educative offerte loro nel percorso di formazione, riteniamo che l’acquisizione del patrimonio eucologico latino e del canto gregoriano debba costituire una base culturale per aiutare i presbiteri a comprendere la specificità del rito romano nella sua evoluzione storica e a favorire la conoscenza delle sue fonti liturgiche, ma non certo a incentivarne la celebrazione, ormai in disuso. E il medesimo rilievo si rivolge alla formazione dei fedeli, a cui gioverebbe certamente la comprensione dei testi latini di alcune parti della Messa, nella loro più piena pregnanza semantica. Tale comprensione non può tuttavia essere pretesa sempre e ovunque[24], e di conseguenza l’utilizzo di parti della Messa in latino potrebbe pregiudicare al popolo quella partecipazione attiva tanto invocata nell’Esortazione. Non possiamo poi ignorare che l’esecuzione del canto gregoriano, se intesa in riferimento a quel patrimonio musicale specifico che viene composto a partire dal VII secolo con alterne vicende[25] pone i medesimi ostacoli alla partecipazione assembleare, soprattutto presso quelle comunità ecclesiali in cui un tale modulo musicale è culturalmente distante e quindi inespressivo della fede di quella Chiesa. E’ dunque importante custodire il patrimonio musicale gregoriano, ma d’altra parte il documento stesso insisteva anche sulla necessità di scegliere formule musicali adatte alla dignità del tempio, e realmente capaci di mediare il contenuto celebrativo (cf. n. 42). Alla precisazione del concetto di partecipazione contribuisce inoltre qualche riflessione sul tema della «partecipazione interiore» a cui il documento postsinodale dedica ampio spazio (nn. 64-65). Essa è presentata come disposizione interiore del fedele a comprendere e vivere l’Eucaristia celebrata, per la quale si pone come ausilio pedagogico la mistagogia. A partire dalle affermazioni contenute nella Propositio 14 del Sinodo, il Papa sviluppa così un’ampia e articolata riflessione volta a mettere in luce gli elementi da non trascurare in un itinerario mistagogico. Vengono indicati l’interpretazione dei riti alla luce degli eventi salvifici, il senso dei segni e il significato dei riti in relazione alla vita cristiana. Ci sembra utile in questa sede soffermarci sul valore dei segni nella liturgia, ritenendo che il linguaggio non verbale, e precisamente quello iconico, sia uno dei veicoli di comunicazione spesso poco o male utilizzati nella celebrazione. Al contrario, la mediazione simbolica del rito costituisce la base di accesso alla comprensione del mistero. Attraverso una percezione anzitutto fenomenologica dell’azione rituale è possibile, mediante il codice dell’esperienza di fede, attuare una partecipazione alla liturgia che nutrendosi di atti esteriori coinvolge la dimensione interiore. Per questo l’Esortazione va al di là della nozione di segno intesa come elemento materiale e visibile separato dall’uomo, e include nella trattazione anche gli atteggiamenti del corpo nella celebrazione (n. 65), i quali, si precisa, sono diversi nel contesto delle diverse culture. Oggi però, in una società in cui il desiderio di concretezza e l’esasperato pragmatismo sembrano non tollerare qualunque forma di mediazione simbolica della realtà, anche trascendente, la pregnanza dei segni nella liturgia è stata fortemente sminuita, generando una loro quasi assoluta incomprensione e incomprensibilità[26]. Il depauperamento progressivo a cui sono stati sottoposti gesti, atteggiamenti e azioni, in nome del malinteso rifiuto di un cerimoniale troppo estetico legato alla cultura tridentina, non di rado ha fatto della celebrazione un’esperienza poco «partecipabile» e assolutamente distante dalla sensibilità dell’uomo. Laddove invece il simbolismo dei riti viene opportunamente sottolineato, non sempre l’assemblea è in grado di leggerne il significato. Pertanto il ritorno a una formazione cristiana imperniata sulla mistagogia dei grandi Padri della Chiesa, oltre che fornire a ogni battezzato gli strumenti per un’immersione totale nel mistero della celebrazione, contribuisce all’attuazione dello spirito della riforma voluta dal Concilio Vaticano II che non vuole creare una realtà liturgica nuova, ma recuperare quanto dell’idea di Liturgia è andato nel tempo travisato o perduto.
Possiamo allora concludere ribadendo, con il testo dell’Esortazione, che il concetto di partecipazione liturgica non può essere certamente ridotto nell’esercizio materiale di qualche specifico servizio ministeriale ma, d’altra parte, il ricorso al silenzio dell’assemblea è auspicabile quando realmente esso è previsto come linguaggio non verbale della celebrazione, e non quale via alternativa di espressione della fede nel mistero nell’incapacità di accedere al codice linguistico utilizzato nella celebrazione.
6. L’Eucaristia tra celebrazione liturgica e Pii Esercizi
L’ultimo blocco della sezione liturgica dell’Esortazione è infine dedicato al rapporto tra celebrazione e adorazione eucaristica (nn. 66-69), una scelta tematica che porta all’attenzione uno dei nodi principali che la riforma liturgica si è trovata a dovere sciogliere e che ancora oggi risulta a volte poco definito. La trattazione si sviluppa sulla falsa riga di SC 13 e si pone in assoluta continuità con il tema della partecipazione che lo precedeva. L’idea di fondo che viene portata avanti pertanto consiste nel nesso causale che intercorre tra la liturgia e i pii esercizi, tale per cui dalla celebrazione dell’Eucaristia non può che nascerne l’adorazione e questa a sua volta rimanda al momento liturgico. Essa è infatti «altamente espressiva del legame esistente tra la celebrazione del memoriale del sacrificio del Signore e la sua presenza permanente nelle specie consacrate»[27]. Di conseguenza l’Esortazione incoraggia e auspica la promozione della pratica dell’adorazione a tutti i livelli ecclesiali.
La trattazione del tema ci appare rilevante poiché la pratica dei pii esercizi ha costituito per parecchi secoli una forma di rifugio della fede per i fedeli che erano rimasti fuori dall’azione liturgica; e la riforma conciliare, con la restituzione della liturgia al popolo, non ha certo inteso abolire tali pratiche bensì armonizzarle con la celebrazione. In realtà non di rado la riscoperta soggettualità liturgica dei fedeli ha provocato il precipizio delle pratiche devozionali verso un degrado sempre crescente, al punto da continuare a considerarle come alternative alla liturgia, e dunque non meritevoli della necessaria cura per una corretta e fruttuosa realizzazione ai fini dell’edificazione spirituale. Per quel che riguarda in particolar modo l’adorazione eucaristica poi, la situazione è ancora più delicata poiché in essa i confini tra pietà popolare e forme liturgiche sono davvero labili[28], e inoltre le differenti modalità attraverso cui si può realizzare la espongono a tante alterazioni della sua identità celebrativa. Va sottolineato in particolar modo il rischio ancora oggi ricorrente di farne un esercizio di pietà personale da esercitare in forma privata, sciolto da qualunque vincolo comunitario, con la conseguente perdita della dimensione ecclesiale legata alla celebrazione del sacramento e alla sua adorazione, nonché della sua capacità di edificazione del corpo ecclesiale. Non bisogna dimenticare invece che di fronte a qualsiasi forma di devozione eucaristica e adorazione, l’orizzonte di comprensione rimane il mistero della Pasqua del Signore. Per queste ragioni ci appaiono quanto mai pertinenti le precisazioni del n. 69 in cui si invita a una corretta collocazione del tabernacolo: facilmente individuabile, ma in una posizione che sia tale da favorire l’adorazione senza dimenticare la centralità celebrativa del sacramento, punto di scaturigine di qualunque forma di devozione eucaristica[29].
7. Per concludere
Volendo trarre delle considerazioni conclusive su questi paragrafi, non possiamo non esprimere la nostra approvazione per la varietà e l’attualità delle tematiche liturgiche prese in esame. Possiamo così affermare che in questa seconda parte dell’Esortazione, è possibile ritrovare una sintesi preziosa degli orientamenti basilari della riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II. L’intento del Pontefice ci appare quindi quello di dare nuovo impulso a un percorso ancora lungo e forse senza un punto di arrivo preciso. Per questo il modo in cui le riflessioni sui diversi temi liturgici vengono sviluppate, non si limita a riprendere i punti chiave delle proposizioni sinodali, ma li completa e li arricchisce anche con considerazioni di ricaduta pastorale.
L’Esortazione si rivolge alla Chiesa tutta, e in quei passi in cui sembra parlare soltanto ai ministri ordinati, leggiamo la volontà di raggiungere coloro che sono investiti della responsabilità di guidare il popolo cristiano alla fede e che quindi hanno una necessità specifica di acquisire consapevolezza riguardo allo statuto celebrativo della fede. In questo modo il Papa vuole ricordarci la grande responsabilità di cui i ministri ordinati sono investiti per la cura e la corretta celebrazione della liturgia, poiché dal loro precipuo impegno scaturisce la comprensione che il popolo di Dio acquisisce del Mistero pasquale quando partecipa alle celebrazioni. Ci auguriamo pertanto che, sollecitata da questo ulteriore stimolo volto a una corretta applicazione dei principi della riforma conciliare, la Chiesa tutta, capo e corpo articolato nelle sue diversificazioni ministeriali, si impegni per fare della liturgia quel momento di sintesi tra professione di fede e vita cristiana che la renda pienamente attuazione della storia della salvezza nella vita della Chiesa.
5. Alcune precisazioni sul concetto di partecipazione
Possiamo allora concludere ribadendo, con il testo dell’Esortazione, che il concetto di partecipazione liturgica non può essere certamente ridotto nell’esercizio materiale di qualche specifico servizio ministeriale ma, d’altra parte, il ricorso al silenzio dell’assemblea è auspicabile quando realmente esso è previsto come linguaggio non verbale della celebrazione, e non quale via alternativa di espressione della fede nel mistero nell’incapacità di accedere al codice linguistico utilizzato nella celebrazione.
6. L’Eucaristia tra celebrazione liturgica e Pii Esercizi
L’ultimo blocco della sezione liturgica dell’Esortazione è infine dedicato al rapporto tra celebrazione e adorazione eucaristica (nn. 66-69), una scelta tematica che porta all’attenzione uno dei nodi principali che la riforma liturgica si è trovata a dovere sciogliere e che ancora oggi risulta a volte poco definito. La trattazione si sviluppa sulla falsa riga di SC 13 e si pone in assoluta continuità con il tema della partecipazione che lo precedeva. L’idea di fondo che viene portata avanti pertanto consiste nel nesso causale che intercorre tra la liturgia e i pii esercizi, tale per cui dalla celebrazione dell’Eucaristia non può che nascerne l’adorazione e questa a sua volta rimanda al momento liturgico. Essa è infatti «altamente espressiva del legame esistente tra la celebrazione del memoriale del sacrificio del Signore e la sua presenza permanente nelle specie consacrate»[27]. Di conseguenza l’Esortazione incoraggia e auspica la promozione della pratica dell’adorazione a tutti i livelli ecclesiali.
La trattazione del tema ci appare rilevante poiché la pratica dei pii esercizi ha costituito per parecchi secoli una forma di rifugio della fede per i fedeli che erano rimasti fuori dall’azione liturgica; e la riforma conciliare, con la restituzione della liturgia al popolo, non ha certo inteso abolire tali pratiche bensì armonizzarle con la celebrazione. In realtà non di rado la riscoperta soggettualità liturgica dei fedeli ha provocato il precipizio delle pratiche devozionali verso un degrado sempre crescente, al punto da continuare a considerarle come alternative alla liturgia, e dunque non meritevoli della necessaria cura per una corretta e fruttuosa realizzazione ai fini dell’edificazione spirituale. Per quel che riguarda in particolar modo l’adorazione eucaristica poi, la situazione è ancora più delicata poiché in essa i confini tra pietà popolare e forme liturgiche sono davvero labili[28], e inoltre le differenti modalità attraverso cui si può realizzare la espongono a tante alterazioni della sua identità celebrativa. Va sottolineato in particolar modo il rischio ancora oggi ricorrente di farne un esercizio di pietà personale da esercitare in forma privata, sciolto da qualunque vincolo comunitario, con la conseguente perdita della dimensione ecclesiale legata alla celebrazione del sacramento e alla sua adorazione, nonché della sua capacità di edificazione del corpo ecclesiale. Non bisogna dimenticare invece che di fronte a qualsiasi forma di devozione eucaristica e adorazione, l’orizzonte di comprensione rimane il mistero della Pasqua del Signore. Per queste ragioni ci appaiono quanto mai pertinenti le precisazioni del n. 69 in cui si invita a una corretta collocazione del tabernacolo: facilmente individuabile, ma in una posizione che sia tale da favorire l’adorazione senza dimenticare la centralità celebrativa del sacramento, punto di scaturigine di qualunque forma di devozione eucaristica[29].
L’Esortazione si rivolge alla Chiesa tutta, e in quei passi in cui sembra parlare soltanto ai ministri ordinati, leggiamo la volontà di raggiungere coloro che sono investiti della responsabilità di guidare il popolo cristiano alla fede e che quindi hanno una necessità specifica di acquisire consapevolezza riguardo allo statuto celebrativo della fede. In questo modo il Papa vuole ricordarci la grande responsabilità di cui i ministri ordinati sono investiti per la cura e la corretta celebrazione della liturgia, poiché dal loro precipuo impegno scaturisce la comprensione che il popolo di Dio acquisisce del Mistero pasquale quando partecipa alle celebrazioni. Ci auguriamo pertanto che, sollecitata da questo ulteriore stimolo volto a una corretta applicazione dei principi della riforma conciliare, la Chiesa tutta, capo e corpo articolato nelle sue diversificazioni ministeriali, si impegni per fare della liturgia quel momento di sintesi tra professione di fede e vita cristiana che la renda pienamente attuazione della storia della salvezza nella vita della Chiesa.
[1] L’affermazione è ripresa dalla stessa introduzione (n. 2) alle Propositiones del Sinodo dei vescovi (2-23 ottobre 2005), a cui l’Esortazione apostolica consegue. Per il testo completo delle Propositiones in lingua italiana, cf. Sinodo dei vescovi 2005, Le «propositiones» dell’XI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi (2-23 ottobre 2005), in Rivista Liturgica 93(2006), 307-327; lo stesso numero della rivista contiene un commento molto interessante sul clima di lavoro e le Propositiones del Sinodo stesso a opera di C. Giraudo, Per ridestare lo «stupor eucharisticus». Il Sinodo dei vescovi sull’Eucaristia, 177-199.
[2] La medesima prospettiva era già presente nella prima Enciclica di papa Benedetto XVI, Deus caritas est (25 dicembre 2005). Cf. V. Trapani, La fede professata, celebrata, vissuta. Alcune linee di riflessione teologico-liturgica a partire dall’Enciclica «Deus caritas est», in Ho teologos 24(2006), 423-432.
[3] L’istanza di un ritorno alla mistagogia si è levata più volte nel corso degli ultimi decenni da parte dei liturgisti attraverso la produzione di scritti notevoli sull’argomento. In modo paradigmatico vogliamo ricordare almeno: E. Carr (a cura di), Liturgia opus Trinitatis. Epistemologia liturgica. Atti del VI Congresso internazionale di liturgia (Roma, Pontificio Istituto Liturgico, 31 ottobre - 3 novembre 2001), Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 2003 (Analecta liturgica, 24); C. Giraudo, In unum corpus. Trattato mistagogico sull’Eucaristia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001 (L’abside, 27); Idem., Lex orandi e teologia dell’Eucaristia. Un saggio di teologia dinamica a partire dal Canone Romano, in Notitiae 24(l988), 110-152; Idem., Preghiere eucaristiche per la Chiesa di oggi. Riflessioni in margine al commento del canone svizzero-romano, Gregoriana University Press-Morcelliana, Roma-Brescia 1993 (Aloisiana, 23).
[4] Mi riferisco tanto all’Enciclica «Deus caritas est» che all’Esortazione in questione.
[4] Mi riferisco tanto all’Enciclica «Deus caritas est» che all’Esortazione in questione.
[5] Cf. le Note pastorali del Consiglio permanente della CEI del 1997 sull’iniziazione cristiana degli adulti e del 1999 sull’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi, nonché quella del 2003 sugli orientamenti per il risveglio della fede e il completamento dell’iniziazione cristiana in età adulta, che includono la mistagogia a pieno titolo tra le tappe del percorso iniziatico. Per quanto riguarda altri sacramenti, però, mancano percorsi specifici suggeriti in modo ufficiale. Si pensi in particolar modo alla celebrazione del sacramento della Cresima in età adulta o al Matrimonio, celebrazioni a volte occasionate da esigenze personali di vita a due ma non sufficientemente corredate di una fede matura e della volontà di proseguire in un percorso di formazione cristiana susseguente al momento celebrativo. Mi appaiono utili ma non sufficientemente normative le indicazioni del recente sussidio pastorale a cura della CEI, Celebrare il «mistero grande dell’amore». Indicazioni per la valorizzazione pastorale del nuovo «Rito del Matrimonio», Paoline Editoriale Libri, Milano 2006.
[6] A tal proposito cf. R. Frattallone, La liturgia e la plasmazione cristiana della società, in Rivista Liturgica 94(2007), 33-47.
[7] Una liturgia «bella» manifesta Dio anche attraverso la bellezza estetica degli elementi rituali che la caratterizzano.
[8] Cf. SC 112: «Perciò il sacro Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione ecclesiastica e considerando il fine della musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli, stabilisce quanto segue...»; e ancora a proposito dell’arte SC 122: «(...) per loro natura, hanno relazione con l’infinita bellezza divina che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell’uomo, e sono tanto più orientate a Dio e all’incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio».
[9] L’unica affermazione che potrebbe essere letta in tal senso è l’invito a conoscere e saper cantare il gregoriano, genere musicale in cui non si esaurisce tutto il repertorio musicale della Chiesa contemporanea (cf. nn. 42 e 62).
[10] Ritengo sia nota a tutti la particolare propensione che papa Benedetto XVI ha mostrato nei confronti della musica, come è anche testimoniato dai numerosi interventi in cui si è pronunciato sulla musica sacra in questi primi anni di pontificato. Solo per citarne alcuni: cf. Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa d’Inizio Pontificato, Imposizione del Pallio e Consegna dell’Anello del Pescatore, in L’Osservatore Romano 25-26 aprile 2005, 3; Discorso al termine del concerto offerto in suo onore nell’Aula Paolo VI, in L’Osservatore Romano 22 ottobre 2005, 5; Ringraziamento al termine del concerto dei «Regensburger Domspatzen» nella Cappella Sistina, in L’Osservatore Romano 24-25 ottobre 2005, 4; Ai Cantori della Cappella Musicale Pontificia «Sistina» (20 dicembre 2005), in Benedetto XVI, Insegnamenti. 2005, LEV, Città del Vaticano 2006, pp. 1012-1013; Omelia nella Santa Messa di Mezzanotte nella Solennità del Natale del Signore, in L’Osservatore Romano 25 dicembre 2005, 4-5; Ai partecipanti al Congresso Internazionale dei «Pueri Cantores» (30 dicembre 2005), in Benedetto XVI, Insegnamenti. 2005, LEV, Città del Vaticano 2006, pp. 1136-1137.
[8] Cf. SC 112: «Perciò il sacro Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione ecclesiastica e considerando il fine della musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli, stabilisce quanto segue...»; e ancora a proposito dell’arte SC 122: «(...) per loro natura, hanno relazione con l’infinita bellezza divina che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell’uomo, e sono tanto più orientate a Dio e all’incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio».
[9] L’unica affermazione che potrebbe essere letta in tal senso è l’invito a conoscere e saper cantare il gregoriano, genere musicale in cui non si esaurisce tutto il repertorio musicale della Chiesa contemporanea (cf. nn. 42 e 62).
[10] Ritengo sia nota a tutti la particolare propensione che papa Benedetto XVI ha mostrato nei confronti della musica, come è anche testimoniato dai numerosi interventi in cui si è pronunciato sulla musica sacra in questi primi anni di pontificato. Solo per citarne alcuni: cf. Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa d’Inizio Pontificato, Imposizione del Pallio e Consegna dell’Anello del Pescatore, in L’Osservatore Romano 25-26 aprile 2005, 3; Discorso al termine del concerto offerto in suo onore nell’Aula Paolo VI, in L’Osservatore Romano 22 ottobre 2005, 5; Ringraziamento al termine del concerto dei «Regensburger Domspatzen» nella Cappella Sistina, in L’Osservatore Romano 24-25 ottobre 2005, 4; Ai Cantori della Cappella Musicale Pontificia «Sistina» (20 dicembre 2005), in Benedetto XVI, Insegnamenti. 2005, LEV, Città del Vaticano 2006, pp. 1012-1013; Omelia nella Santa Messa di Mezzanotte nella Solennità del Natale del Signore, in L’Osservatore Romano 25 dicembre 2005, 4-5; Ai partecipanti al Congresso Internazionale dei «Pueri Cantores» (30 dicembre 2005), in Benedetto XVI, Insegnamenti. 2005, LEV, Città del Vaticano 2006, pp. 1136-1137.
[11] Mentre infatti, immediatamente dopo il Concilio si è proceduto di gran lena alla traduzione dei testi della celebrazione nelle lingue correnti e in molti casi addirittura alla stesura di nuovi libri liturgici in qualche misura rispondenti alle nuove necessità di una Chiesa riformata, un tale lavoro di riforma e adattamento, al di là degli esiti prodotti, ha lasciato fuori proprio i libri liturgici del canto, quasi che nonostante il Concilio, la musica sia ancora considerata come elemento aggiunto e non integrante del rito. Per questi ultimi d’altra parte, non sarebbe stata sufficiente una semplice traduzione letterale dal latino al vernacolo, poiché anche la musica avrebbe dovuto essere l’iscritta in funzione dei testi. E questo spiegherebbe le cause di una tale procrastinazione. Dall’altra parte, le difficoltà legate alla necessità di dovere riscrivere oltre ai testi anche la musica, non hanno trovato adeguate risposte neppure più recentemente. Cf. V. Trapani, Il canto e la musica nella celebrazione del matrimonio, in P. Sorci (a cura di), Il matrimonio cristiano. Il nuovo rito nel contesto delle attuali problematiche culturali e sociali, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2007, 123-135.
[12] L’universalità del messaggio evangelico non può rimanere ingabbiata dentro categorie spazio-temporali anguste, e il repertorio del canto gregoriano, pur nella sua sobria bellezza, non può essere assunto quale linguaggio liturgico in modo assoluto. La musica, come ogni altro linguaggio della liturgia, è soggetto a evoluzioni, e deve rispecchiare l’epoca e il luogo in cui vive. Cf. V. Trapani, Il canto nella celebrazione e i canti del Messale, in P. Sarci (a cura di), Celebrare con il Messale del Vaticano Il. La terza edizione del Messale Romano e problemi di adattamento culturale nella Chiesa Italiana. Atti del VII Convegno liturgico-pastorale (Palermo 9-10 novembre 2001), Salvatore Sciascia editore, Palermo 2003, 101-118.
[12] L’universalità del messaggio evangelico non può rimanere ingabbiata dentro categorie spazio-temporali anguste, e il repertorio del canto gregoriano, pur nella sua sobria bellezza, non può essere assunto quale linguaggio liturgico in modo assoluto. La musica, come ogni altro linguaggio della liturgia, è soggetto a evoluzioni, e deve rispecchiare l’epoca e il luogo in cui vive. Cf. V. Trapani, Il canto nella celebrazione e i canti del Messale, in P. Sarci (a cura di), Celebrare con il Messale del Vaticano Il. La terza edizione del Messale Romano e problemi di adattamento culturale nella Chiesa Italiana. Atti del VII Convegno liturgico-pastorale (Palermo 9-10 novembre 2001), Salvatore Sciascia editore, Palermo 2003, 101-118.
[13] Ne ricordiamo l’istituzione nel 1972 con «Ministeria quaedam» di papa Paolo VI.
[14] Ci sembra importante ricordare che la soggettualiltà liturgica del laicato ha anche aperto loro la possibilità di accedere agli studi teologici, e dunque liturgici. Il che fa sì che oggi non è poi così insolito vedere laici, uomini e donne, impegnati nel ruolo di formatori negli studentati o nelle facoltà teologiche, e più comunemente nel ruolo di insegnanti di religione presso le scuole statali o educatori qualificati presso comunità parrocchiali e scuole cattoliche. Il tema è stato per altro al centro del dibattito teologico recente a più livelli. Cf. Centro di Azione Liturgica (a cura di), I laici nella liturgia. Quale ministerialità? Atti della 52a settimana liturgica nazionale (Riva del Garda, 27-31 agosto 2001), CLV, Roma 2001; Gruppo italiano Docenti di Diritto Canonico (a cura di), I laici nella ministerialità della chiesa, Milano 2000 (Quaderni della Mendola, 8).
[14] Ci sembra importante ricordare che la soggettualiltà liturgica del laicato ha anche aperto loro la possibilità di accedere agli studi teologici, e dunque liturgici. Il che fa sì che oggi non è poi così insolito vedere laici, uomini e donne, impegnati nel ruolo di formatori negli studentati o nelle facoltà teologiche, e più comunemente nel ruolo di insegnanti di religione presso le scuole statali o educatori qualificati presso comunità parrocchiali e scuole cattoliche. Il tema è stato per altro al centro del dibattito teologico recente a più livelli. Cf. Centro di Azione Liturgica (a cura di), I laici nella liturgia. Quale ministerialità? Atti della 52a settimana liturgica nazionale (Riva del Garda, 27-31 agosto 2001), CLV, Roma 2001; Gruppo italiano Docenti di Diritto Canonico (a cura di), I laici nella ministerialità della chiesa, Milano 2000 (Quaderni della Mendola, 8).
[15] L’unico caso in cui il termine ricorre in questa seconda parte del documento è al n. 53 per contrapposizione ai religiosi.
[16] Il libro liturgico costituisce nella celebrazione qualcosa che va oltre uno strumento pratico, per questo è importante che essi siano trattati con il dovuto decoro e mai sostituiti con strumenti tipografici magari più pratici e moderni ma meno significativi del ruolo di segno da essi svolto.
[17] Il rispetto delle norme rubricali non deve far perdere di vista la sostanza stessa del rito di cui esse sono espressione. E a tal proposito il Papa offre utili indicazioni. Avrebbe meritato comunque una maggiore attenzione nella sua analisi della struttura della celebrazione eucaristica la centralità della parola di Dio rispetto alla liturgia quale elemento costitutivo e imprescindibile di essa (la sua presenza si dà per scontata nel testo). Fondamentale sarebbe poi il riferimento alla preghiera universale, il cui ruolo è spesso travisato e distorto, aprendo la via ad abusi non indifferenti.
[18] A tal proposito vogliamo ricordare le indicazioni che la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha fornito con le 4 Istruzioni: Inter Oecumenici (26 settembre 1964), Tres abhinc annos (4 maggio 1967), Liturgicae instaurationes (5 settembre 1970) e Varietates legitimae (25 gennaio 1994). Quest’ultima viene citata anche nell’Esortazione al n. 54.
[19] Cf. C. Giraudo, L’eucologia anaforica tra istanze di inculturazione e fedeltà alla tradizione: per una crescita del «depositum Ecclesiae orantis», in Ecclesia Orans 16(1999), 299-323.
[19] Cf. C. Giraudo, L’eucologia anaforica tra istanze di inculturazione e fedeltà alla tradizione: per una crescita del «depositum Ecclesiae orantis», in Ecclesia Orans 16(1999), 299-323.
[20] Il modo in cui viene affrontato il concetto di partecipazione alla liturgia spazia dalla fondazione di essa sul sacerdozio comune dei cristiani nel suo rapporto a quello ordinato (n. 53), alla dimensione di predisposizione spirituale che deve accompagnare la partecipazione (n. 55), a una valutazione dell’uso dei mezzi di comunicazione in vista della partecipazione (n. 57), nonché al problema della partecipazione alla liturgia di categorie particolari quali gli ammalati (n. 58), i carcerati (n. 59), i migranti (n. 60).
[21] Ricordiamo che il paragrafo riprende alla lettera la proposizione n. 36 del Sinodo.
[22] Disposizione che invece sarebbe in contraddizione con i pronunciamenti conciliari e con le indicazioni del Concilium ad exequendam constitutionem de Sacra Liturgia, da cui tutto il percorso di traduzione e adattamento dei libri liturgici portato avanti dalle Conferenze Episcopali sotto la guida della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti negli ultimi quarant’anni. Cf. G. Settembri - G. Venturi, Uso della lingua volgare e traduzione dei testi liturgici nel dibattito conciliare, in Rivista Liturgica 92(2005), 49-72; M. Lessi Ariosto, La problematica della traduzione dei testi liturgici da dopo il Vaticano II come base per comprendere l’istruzione «Liturgiam Authenticam», in Rivista Liturgica 92(2005), 177-209.
[23] Per quanto riguarda la celebrazione eucaristica in particolare, l’uso del Messale di Pio V, edito ben 4 secoli fa dal Concilio di Trento, porta con sé tutta una serie di limiti strutturali per la partecipazione alla liturgia e si pone inoltre come la codificazione di una lex orandi insufficiente per l’epoca contemporanea. Da cui la scelta di un nuovo Messale con il Concilio Vaticano II.
[24] Soltanto pochi indirizzi di studi superiori oggi prevedono lo studio della lingua latina in Italia, e in gran parte dei Paesi del mondo il latino non compare affatto quale disciplina scolastica, in quanto non è posto alla base della cultura locale.
[25] Per una buona ricostruzione della musica nella liturgia cf. F. Rainoldi, Traditio canendi. Appunti per una storia dei riti cristiani cantati, CLV, Roma 2000, (Biblioteca «Ephemerides Liturgicae», 106); Idem., Sentieri della musica sacra. Dall’800 al Concilio Vaticano II, CLV, Roma 1996 (Biblioteca «Ephemerides Liturgicae», 87).
[25] Per una buona ricostruzione della musica nella liturgia cf. F. Rainoldi, Traditio canendi. Appunti per una storia dei riti cristiani cantati, CLV, Roma 2000, (Biblioteca «Ephemerides Liturgicae», 106); Idem., Sentieri della musica sacra. Dall’800 al Concilio Vaticano II, CLV, Roma 1996 (Biblioteca «Ephemerides Liturgicae», 87).
[26] Non dimentichiamo infatti che il segno media nella misura in cui «significa» la realtà a cui vuole riferirsi!
[27] Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, n. 164.
[28] Cf. Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Direttorio…, op. cit., n. 165.
[29] Cf. CEI, L’adeguamento delle Chiese secondo la riforma liturgica. Nota pastorale della Commissione episcopale per la liturgia (31 maggio 1996), n. 20; nonché l’OGMR n. 314.
[28] Cf. Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Direttorio…, op. cit., n. 165.
[29] Cf. CEI, L’adeguamento delle Chiese secondo la riforma liturgica. Nota pastorale della Commissione episcopale per la liturgia (31 maggio 1996), n. 20; nonché l’OGMR n. 314.