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Ministri straordinari
2839.jpgIII. Dare forma Eucaristica alla vita 

L’Eucaristia
è fonte e culmine della vita cristiana. Intorno all’Eucaristia tutta si raccoglie la vita del fedele e della comunità cristiana. An­zi: ad essa si conforma, della sua stessa sostanza partecipa. E’ questa l’idea-guida, l’architrave della terza parte dell’Esortazione apostolica «Sacra­mentum caritatis», quella centrata sulla testimo­nianza e sulla missione (cf. nn.70-93). Testimonianza e mis­sione il cui paradigma è «la forma eucaristica della vita cristiana». Il mistero creduto e cele­brato - vi si legge - genera un dinamismo, si fa, in noi, principio di vita nuova, anima della testi­monianza e della missione: «colui che mangia di me vivrà per me» già in questo tempo.
Nelle note che seguono, percorreremo dapprima, in termini descrittivi e sintetici, il te­sto di questa terza parte del documento, ne fis­seremo le tesi portanti; poi isoleremo talune questioni da esso evocate e proporremo, al riguardo, qualche spunto di riflessione con spe­cifica attenzione alle implicazioni che se ne ri­cavano per la vocazione e la missione del fede­le laico.  

1. Contenuto

San Paolo, nella sua Lettera ai Romani (12,1), esorta a offrire i nostri corpi come sacri­ficio vivente, santo e gradito a Dio. E conclude che questo, non altro, è il nostro culto spiritua­le. Dunque il vero culto a Dio è il dono di sé, l’offerta della propria persona. L’accento è posto sulla concretezza del dono di sé, come si evince dal riferimento al corpo. Concretezza e totalità dell’esperienza umana in tutte le sue espressio­ni e declinazioni. Qui ci soccorre il san Paolo della Prima lettera ai Corinzi (10, 31): sia che si mangi, sia che si beva, sia che si faccia qualsiasi altra cosa, tutto va fatto per la gloria di Dio. L’Eucaristia abilita a interpretare e a vivere ogni valore e ogni esperienza umana in pienezza. Questo della pienezza è concetto centrale nella Rivelazione cristiana: è la promessa certa del centuplo evangelico, la rassicurazione che, in Gesù Cristo, si può vivere ... al massimo. Che il cristianesi­mo, la sua luce e la sua grazia, riscattano, sublimano, esaltano l’esperienza umana in ogni suo profilo. Fanno più ricca, più bella, più attraente la vita, le persone, le cose. Ci fanno vivere «se­condo la domenica». La domenica, per i cristiani, è il giorno nel quale si fa memoria viva e attuale della novità radicale portata da Cristo nella storia, cioè il suo amore che salva. Ci richiama cioè alla consape­volezza che noi stessi e la nostra vita siamo in­scritti dentro un disegno d’amore che, insieme, ci attraversa e ci trascende. E che, dunque, la nostra esistenza è, contestualmente, un dono da contemplare e un compito da svolgere nel segno di quell’amore. Di nuovo: dando forma eucari­stica alla propria vita. La domenica è inizio e ter­mine della settimana. E’ il giorno del riposo fe­stivo, dedicato a Dio, cui rendere lode e grazie, e dedicato alle gioie semplici e grandi della vita, agli affetti, alla conversazione, al contatto con la natura, alle buone letture. Ma la domenica è an­che l’incipit e l’approdo della nostra feriale fati­ca, il giorno nel quale cerchiamo di conferire un senso umano e cristiano al lavoro, allo studio, alle nostre umane attività, spesso segnate dal sa­crificio, dalla pena, dal conflitto. Di tutti questi elementi si carica o si dovrebbe caricare la no­stra celebrazione domenicale. In essa la vita dà sostanza al rito e, reciprocamente, il rito dà sen­so e gusto alla vita. Nella Lettera apostolica «Dies Domini» (1998), Giovanni Paolo II fissa le quattro dimensioni della domenica: il giorno di Dio e della sua Creazione, il giorno di Cristo e della Risurrezione, il giorno della Chiesa raccolta in comunità, il giorno dell’uomo, intessuto di gioia, riposo e carità fraterna. Il riposo domenicale risponde altresì a un’esigenza etica ed educativa: quella di relati­vizzare il lavoro. Nel lavoro l’uomo realizza se stesso, stabilisce relazioni sociali, coopera all’e­dificazione della polis, ma egli non deve smar­rire il senso della gerarchia dei valori quale ri­sulta dal racconto della Creazione: il lavoro è per l’uomo, non l’uomo per il lavoro. E’ un an­tidoto all’idolatria e alla schiavitù del lavoro, allo sfruttamento e all’alienazione. E, per con­verso, un positivo contributo all’umanizzazio­ne di esso. La forma eucaristica dell’esistenza cristia­na si esprime anche nell’appartenenza ecclesia­le, cioè nella partecipazione alla vita di una concreta comunità cristiana. Comunità di uo­mini e donne, ma anche comunità in certo mo­do «alternativa». Cioè comunità che, pur con i suoi limiti e le sue umane debolezze, ci prova a vivere e a testimoniare in forma esemplare, vi­sibile e contagiosa la tensione propria dell’etica delle Beatitudini e la carità fraterna delle prime comunità apostoliche. Intrecciando relazioni che segnalino la «differenza», l’alterità, la tra­scendenza rispetto alle relazioni funzionali e contrattualistiche che, per lo più, connotano l’universo sociale e, segnatamente, la società economica e politica. La comunità cristiana de­ve rappresentare un serbatoio e un’oasi di fra­ternità. Non confinata in essa, ma lì praticata in forma esemplare e testimoniale. Merita notare che, nell’Esortazione, il Pa­pa, che pure mostra apprezzamento per la viva­cità di associazioni, movimenti e nuove comu­nità, non esita a definire la diocesi e la parrocchia come «strutture portanti della Chiesa in un particolare territorio» (n. 76). Es­se, infatti, hanno due prerogative. La prima: vantano un rapporto speciale con il vescovo, che è, con l’Eucaristia e il presbiterio, elemen­to costitutivo della Chiesa del Signore. La se­conda: diocesi e parrocchia, proprio in ragione del loro ancoraggio al territorio, sono la casa di tutti. In essa non ci si raccoglie su base di affi­nità spirituale, psicologica, sociale, anagrafica, ma solo e unicamente per amore del Signore e della sua Chiesa. Lì l’assemblea eucaristica davvero si raccoglie intorno al giusto suo cen­tro. Se ne ricava che le aggregazioni ecclesiali devono integrarsi e compaginarsi dentro le Chiese particolari e intorno al loro pastore, co­sì da cooperare allo sviluppo armonico della comunità nel suo insieme. Non sempre è così. L’Esortazione mette poi a tema il rapporto tra Eucaristia, comunità cristiana ed evangelizzazione delle culture. In genere e con specifico riguardo alle società avanzate. In via generale, la categoria-chiave è quella conciliare del «dia­logo», cui il Papa fa seguire quella della «sfi­da». Il dialogo è un dare e un ricevere, è stabi­lire «un confronto con ogni realtà culturale per fermentarla evangelicamente» (n. 78), ma è an­che, reciprocamente, un «esaminare ogni cosa e tenere ciò che è buono» (lTs 5, 21). Ma vi è un riferimento più puntuale al rapporto con le società e le culture segnate dal secolarismo, cioè dalla spinta a mettere ai margini la fede e a vivere «come se Dio non ci fosse». In tali contesti, non viene meno la tensione al dialogo. So­lo esso esige una disciplina severa, contempla la cura di non conformarsi alla mentalità cor­rente, il discernimento critico, la vigilanza cri­stiana. Lì cade quanto mai pertinente il monito paolino: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi, rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12, 2). L’Esortazione passa poi in rassegna i sog­getti ecclesiali, illustra ciò che l’Eucaristia pre­scrive rispettivamente ai sacerdoti, ai religiosi, ai laici cristiani. I sacerdoti sono rappresentati come ricercatori di Dio e custodi del Mistero eucaristico prima che come maestri e pastori (cf. n. 80). I religiosi e le persone dedite alla vita consacrata sono custodi e garanti di una Chiesa che fa conto più sull’essere che non sul fare, grazie alla testimonianza profetica di una «fedeltà radicale e feconda» e a una loro esem­plare apertura all’orizzonte escatologico della vita (cf. n. 81). I laici sono chiamati anch’essi alla santità nelle condizioni ordinarie e quoti­diane dell’esistenza. Il mondo è il «campo fe­condo della loro santificazione» (così Paolo VI). Essi devono assurgere a «testimoni rico­noscibili nel loro ambiente di lavoro e nella so­cietà tutta» (n. 79). E’ bello che il Papa racco­mandi ai pastori di non mancare mai di sostenere, educare e incoraggiare i fedeli laici. Come a dire che sta bene ammaestrare, ammo­nire e correggere i laici, ma, insieme, testimo­niando loro quell’amore paterno che fa leva sulla cordiale fiducia nel loro protagonismo. Così pure, laddove si fa cenno al nesso tra for­ma eucaristica della vita e trasformazione mo­rale, si prendono le distanze da un approccio moralistico: la vita buona, la tensione al bene scaturiscono dal dinamismo della libertà e dell’amore, dalla cura di corrispondere con tutto se stesso all’amore del Signore (cf. n. 82). La «coerenza eucaristica» affonda qui le sue radici e abbraccia la vita tutta intera, com­prese le relazioni sociali e politiche e la stessa attività legislativa mirata alla promozione del bene comune. Un’attività che si àncora a valori non negoziabili inscritti nella stessa natura umana. Circa le implicazioni etico-sociali del Mistero eucaristico, papa Benedetto XVI fa tre rilievi. Il primo circa le situazioni di conflitto: la vera pace passa attraverso la restaurazione della giustizia, il dialogo, la riconciliazione e il perdono. Secondo rilievo: non è compito della Chiesa la battaglia politica per una società più giusta. Ad essa compete piuttosto il dovere di bonificare la ragione malata e di risvegliare le forze spirituali e morali. Spetta piuttosto ai lai­ci cristiani convenientemente formati assume­re direttamente responsabilità sociali e politi­che. Il terzo rilievo è la raccomandazione a leggere i mali sociali non in modo superficiale. Una notazione interessante che, azzardo, sot­tintende l’impressione di un deficit di discerni­mento e di cultura politica tra i cristiani. Un prezioso contributo a illuminare e formare la coscienza cristiana ci viene dal Magistero so­ciale della Chiesa che - nota il Papa - si segna­la per realismo ed equilibrio e dunque immu­nizza da fuorvianti compromessi o vacue utopie. Se Cristo, nell’Eucaristia, si è fatto pane spezzato per la vita del mondo, così anche il cristiano. Ma l’immagine concreta del pane suggerisce al Papa parole forti sul pane che manca, cioè sull’indigenza e sulle disugua­glianze «che gridano verso il cielo». Si rinviene qui una chiara e inequivocabile responsabi­lità degli uomini. L’ingiustizia, la fame, le ma­lattie, le guerre non sono una fatalità. Potreb­bero essere rimosse. A produrle sono strutture ingiuste. Rapporti commerciali, culturali e po­litici consolidati e ultimamente riconducibili a nostre precise responsabilità. Così pure per le minacce alla salvaguardia del creato, che non è realtà neutra, semplice materia da manipolare indiscriminatamente. Ma dono di Dio da tra­sformare sì, ma con misura e con rispetto. An­che da custodire e contemplare.  Sin qui ci siamo limitati a riassumere i contenuti della terza parte dell’Esortazione apostolica, al più con qualche nostra sottoli­neatura. Ora isoleremo cinque questioni, cin­que nodi tematici sui quali proporremo qual­che spunto di riflessione la cui responsabilità è tutta e solo nostra, dunque dando per scontato un alto indice di congetturalità.  

2. Prima questione: il nesso Verità-Carità

Sembra questione teorico-teologica, ma è invece questione dirimente circa il modo di in­terpretare e di vivere il cristianesimo. Esso, cer­to, custodisce e proclama una verità, quella fissata nella Scrittura la cui interpretazione auten­tica è affidata al Magistero della Chiesa e alla Tradizione. Ma appunto l’Eucaristia ci aiuta a comprendere come il contenuto proprio e ori­ginale della verità cristiana - il Mistero pasqua­le, Cristo morto e risorto per noi - è la carità. Nel senso forte, teologale, della parola. Recide­re il nesso tra verità e carità snatura il volto del cristianesimo. Un equilibrio difficile, che si di­pana tra gli opposti scogli di una dolciastra fi­lantropia e di un dogmatismo - dottrinarismo per il quale la legge e l’istituzione soffocano lo spirito di libertà e di amore. Nella concreta vita della Chiesa si sono conosciute e si conoscono stagioni nelle quali quel delicato equilibrio si è rotto. Che il nostro sia un tempo dominato da relativismo, frammentazione del sapere e del vivere, pensiero debole è difficile negare. Che cioè si nutra pregiudiziale sfiducia circa la pos­sibilità stessa di attingere la verità e che questo scetticismo propizi una morale dettata dalla doxa, cioè dall’acritica conformazione mimeti­ca al «così fan tutti». Ma, per converso, si ha l’impressione che, a fronte di un ethos che le sfugge, talvolta la comunità cristiana reagisca emotivamente, nervosamente, o con lo scora­mento, con l’estenuazione della speranza certa nella promessa di Dio e della sua operante pre­senza dentro questo tempo di prova e di grazia, ovvero irrigidendo se stessa e il proprio messaggio dentro una gabbia che ne soffoca il re­spiro evangelico, la sua libertà e la sua apertura universale. Facendo regredire il cristianesimo a religione civile di un Occidente in realtà quan­to mai lontano dalla differenza-trascendenza cristiana.  

3. Seconda questione: la Vocazione e la Missione dei Fedeli Laici

La centratura del documento sull’Eucari­stia spiega l’accento posto sul fondamento co­mune e sulla missione sostanzialmente unitaria di tutti i fedeli, nonché sulla universale voca­zione alla santità, quale che sia il loro stato di vita. Ciò non impedisce a papa Benedetto XVI di riservare riferimenti alla vocazione primaria e peculiare dei laici cristiani, in continuità con il consolidato Magistero: dalla Lumen gentium alla Gaudium et spes all’Apostolicam actuosita­tem all’Evangelii nuntiandi sino alla Christifide­les laici, promulgata a coronamento del Sinodo sui laici del 1987 . Il mondo è luogo teologico, campo fecon­do della santificazione dei laici. La politica in senso lato, intesa come quel complesso di atti­vità volte all’edificazione della città dell’uomo, è affidata appunto ai laici. E’ ribadito cioè il principio della loro autonomia responsabile. In essa, i laici agiscono in scienza e coscienza. Sempre da cristiani, cioè in coerenza con i det­tami della fede e della morale, ma in quanto cit­tadini in cordiale collaborazione con gli uomi­ni di buona volontà e dentro le istituzioni di tutti. E non con superficialità. Cioè affinando la competenza, la conoscenza, le tecniche. Il Concilio parla di «vera perizia». Impadronen­dosi cioè di quelle leggi e di quei dinamismi che Dio stesso ha posto in essere all’atto della creazione. E’ il principio della relativa autono­mia delle realtà creaturali.  

4. Terza questione: il nesso tra contemplazione e azione

Esso corrisponde alla consapevolezza del cristiano che la vita è, insieme, dono e compi­to. Dono gratuito di Dio da contemplare e per il quale rendergli gloria e grazie, ma anche re­sponsabilità da esercitare nel seno di quell’a­more effusivo che ci ha generato e investito. Il racconto stesso della creazione fonda tale pola­rità. La natura, il cosmo sono da custodire e da trasformare. Da custodire come un bene pre­zioso in quanto manifestazione della grandezza e dell’amore di Dio. E da trasformare umaniz­zandoli, cioè riconducendoli al servizio dell’uomo - meglio: dell’intera famiglia umana, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini - che Dio ha posto al vertice della creazione. Come recita la preghiera eucaristica quarta, Dio ha affidato la creazione alle mani operose dell’uomo, ma questi non deve rapportarsi alla natura quasi fosse un repertorio di materiali privo di un sen­so sacro ad esso immanente e dunque con cura e con rispetto. Si rinvengono qui le premesse per una matura coscienza ambientalista, uma­nistica e cristiana, che non incappa nelle oppo­ste derive di un fondamentalismo ecologico che fa della natura un feticcio intangibile ovve­ro di un industrialismo che la saccheggia senza ritegno. Sono la cosiddetta «cultura del limi­te» e l’etica della responsabilità verso le gene­razioni future che hanno diritto a che sia loro trasmesso in eredità un cosmo non devastato. Come si vede, un’etica ambientalista umanisti­ca, che si fa carico della salvaguardia del creato non in nome di una panteistica divinizzazione della natura, ma in omaggio al concreto bene delle concrete persone che abiteranno il mon­do dopo di noi.  

5. Quarta questione: discernimento e dialogo

Il dialogo vanta un fondamento teologico e addirittura trinitario. Il Dio cristiano è, in sé, dialogo d’amore tra le tre Persone del Mistero trinitario. In forza dell’Incarnazione, il divino e l’umano stabiliscono tra loro un intimo dialogo. La Chiesa, conformandosi a Gesù, non solo si dispone al dialogo, ma è dialogo tra Dio e gli uo­mini dentro il tempo. Dunque, i cristiani non sono una setta che se ne sta fuori o ai margini delle civiltà e delle culture, ma intrecciano un dialogo con esse. Si propongono di fermentarle, assumendone i valori e anzi dando loro pienez­za. Naturalmente, il dialogo conosce due profi­li: esso è vaglio critico selettivo che assume e trattiene tutto e solo ciò che è buono, ma è an­che positivo contributo ad esse della novità di cui è portatore il Vangelo. Dunque, vi sono ele­menti suscettibili di essere assimilati ed ele­menti per converso incompatibili con la verità cristiana. E’ la doppia legge dell’immanenza e della trascendenza del cristianesimo rispetto al­le forme della coscienza e della convivenza. Quelle scolpite nella mirabile Lettera a Diogneto del II sec. dopo Cristo, che dipinge la «cittadinanza paradossale» dei primi cristiani dentro le comunità pagane dell’epoca: immersi in esse, partecipi delle loro leggi e dei loro co­stumi, ma, insieme, testimoni di una differenza - ­alterità che si manifesta visibilmente non in ele­menti estrinseci, ma nel loro complessivo modo di vivere. Si può dire: nel loro stile evangelico, tanto discreto quanto eloquente.

Contro una certa retorica del facile dialo­go che sconfina nell’irenismo, il cristiano deve essere avvertito: dialogo è anche discernimento critico, resistenza-opposizione a ciò che con il cristianesimo è in contrasto. Non tutte le cultu­re si equivalgono, dal punto di vista cristiano. La storia testimonia che si danno circostanze nelle quali il rapporto dei cristiani con la cultu­ra-ambiente ha assunto un profilo critico-pole­mico. Sino a prescrivere la figura estrema del martirio. Non di necessità quello cruento che comporta l’effusione del sangue. Anche oggi, a ben riflettere, la testimonianza cristiana com­porterebbe sacrifici non indifferenti, in termini di soldi, di carriera, di vantaggi. Semmai, a di­spetto di certo vittimismo, c’è da chiedersi se la scomparsa del martirio nella vita dei cristiani non sia indizio di un deficit di genuina qualità evangelica nel vissuto cristiano.

6. Quinta questione: la coerenza eucaristica nella vita politica


E’ il n. 83 dell’Esortazione, che ha fatto discutere all’atto della sua promulgazione, in quanto impropriamente decontestualizzato e schiacciato su polemiche politiche contingenti. E’ utile riprodurre qui il passo incriminato: «Il culto gradito a Dio, infatti, non è mai atto meramente privato, senza conseguenze sulle no­stre relazioni sociali: esso richiede la pubblica testimonianza della propria fede. Ciò vale ov­viamente per tutti i battezzati, ma si impone con particolare urgenza nei confronti di coloro che, per la posizione sociale o politica che oc­cupano, devono prendere decisioni a proposito di valori fondamentali, come il rispetto e la di­fesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata sul ma­trimonio tra uomo e donna, la libertà di educa­zione dei figli e la promozione del bene comu­ne in tutte le sue forme. Tali valori non sono negoziabili. Pertanto, i politici e i legislatori cattolici, consapevoli della loro grave responsa­bilità sociale, devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza rettamente for­mata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana». Considerata la densità del brano, merita fare qualche chiosa con stretta aderenza al te­sto. Innanzitutto, in premessa, si ripropone una tesi che già abbiamo fissato: il culto gradi­to a Dio non si concreta tanto nel rito quanto piuttosto nella vita del credente. Più esatta­mente in una via donata, cioè conforme al pa­radigma di Gesù. Una vita concreta e totale, cioè comprensiva di ogni suo aspetto e dunque anche delle relazioni sociali e della testimo­nianza pubblica. Tale «coerenza eucaristica» è prescritta a ogni battezzato, ma, a fortiori, a chi porta responsabilità sociali e politiche. Il Papa motiva tale supplemento di responsabilità in capo agli uomini politici: essi «prendono deci­sioni» che influiscono sulla vita delle persone e della società. Anche con riguardo a valori fondamentali quali la vita, la famiglia, la libertà di educazione, il bene comune in senso lato. La loro coscienza è chiamata a proporre e sostene­re leggi e provvedimenti ispirati ai valori radi­cati nella natura umana. E’ utile approfondire qualche elemento di questa sorta di dispositivo. Primo: non si tratta di un ordine di servi­zio, ma di un appello alla coscienza responsabi­le dei laici cristiani impegnati nella politica e nelle istituzioni. Sbagliano coloro che interpre­tano tale monito come una sconfessione del principio, acquisito dal più consolidato Magi­stero della Chiesa, della peculiare responsabi­lità laicale nel cercare il regno di Dio trattando le realtà temporali e ordinandole secondo Dio (cf. LG 31). Anzi, l’appello alla co­scienza di politici e legislatori testimonia l’esat­to contrario. Semmai evoca una celebre pagina della Gaudium et spes ove si legge: «Dai sacer­doti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sem­pre esperti a tal punto che, a ogni nuovo pro­blema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria re­sponsabilità alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero» (n. 43). Un monito, questo, ripreso quasi alla lettera da papa Benedetto XVI nel­l’Enciclica Deus caritas est al n. 29 ove si legge: «Il compito immediato di operare per un giu­sto ordine nella società è proprio dei fedeli lai­ci come cittadini dello Stato... Missione dei fe­deli laici è pertanto di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima auto­nomia e cooperando con gli altri cittadini se­condo le rispettive competenze e sotto la pro­pria responsabilità». Secondo rilievo: i «valori fondamentali» esemplificativamente menzionati nell’Esorta­zione non esauriscono il più vasto campo delle questioni che interpellano la coscienza dell’o­peratore politico e del legislatore. Sia perché poi vi si aggiunge, come non meno cogente, il dovere della «promozione del bene comune in tutte le sue forme»; sia perché qualche para­grafo più avanti si tematizzano altre e altrettan­to rilevanti questioni che hanno a che fare con la giustizia interna e internazionale, con la pa­ce, con la salvaguardia del creato. Terza puntualizzazione: si chiede ai politi­ci di «ispirarsi» a quei valori non negoziabili. Il verbo non è scelto a caso. Sottintende non già uno sconto, un di meno di tensione nel fare di quei valori il proprio orizzonte e la propria bus­sola, ma, questo sì, la consapevolezza dell’opera di mediazione, che è attività immanente all’a­zione politico-legislativa. In essa precisamente si concreta il bello e il difficile della «fatica del legislatore», il suo «dovere di stato», la sua deontologia. Esso, infatti, deve fare i conti con una doppia sfida: da un lato con l’ethos, il costu­me, le pratiche sociali; dall’altro con il plurali­smo politico-culturale e delle stesse concezioni etiche, che contrassegnano le società moderne e che, nei regimi democratici, si riflette dentro gli organi elettivo-rappresentativi chiamati a pren­dere le decisioni pubbliche sulla base della rego­la della maggioranza. Regola discutibile quanto si vuole e tuttavia la meno imperfetta che la ci­viltà politica sia riuscita a concepire e realizzare. Del resto, è circostanza nota che quei «valori fondati nella natura umana» evocano una que­stione teorico-pratica cruciale per il legislatore sulla quale tuttavia si discute vivacemente in se­de culturale oltre che politica. Alludo al contro­verso concetto di diritto naturale, al suo rappor­to con il diritto positivo, alla disputa a proposito dell’appello a quella legge naturale a fronte di divergenze circa non solo la sua sussistenza ma anche la titolarità nella interpretazione autenti­ca di essa. La consapevolezza di tale impegnati­vo compito in capo al politico e al legislatore af­fiora nelle parole pronunciate dal card. C.M. Martini nel 1998 nel quadro di una lezione tenuta alle scuole di formazione politica della diocesi di Milano: «Se è vero che i principi etici sono asso­luti e immutabili e l’azione politica deve sempre ispirarsi ad essi, è pur vero però che l’azione po­litica non consiste di per sé nella realizzazione immediata dei principi etici assoluti, ma nella realizzazione del bene comune concretamente possibile in una determinata situazione». Si tratta della distanza che separa la giustizia più grande proclamata dal Vangelo che attinge la misura della dedizione totale e del perdono gra­tuito, dalla giustizia storicamente possibile. Una distanza che, sia chiaro, non esonera, anzi posi­tivamente prescrive al cristiano, politico e non, di rendere tutta intera la testimonianza profeti­ca di quei valori nella loro pienezza e che, se po­litico, lo impegna a farli rifluire nelle stesse leggi non appena ne maturassero le condizioni di costume e di consenso. E tuttavia una distanza che contempla un certo gradualismo. Infine, una distanza che, in certo modo, affligge in per­manenza la condizione del politico cristiano, cui si richiede una severa disciplina, una sorta di ascesi nella dolorosa presa d’atto di un limite che ci istruisce a proposito della irriducibile incompiutezza di ogni impresa umana, che ci re­stituisce cioè all’umile consapevolezza che da noi soli non ce la possiamo fare e che semmai ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio. La coerenza eucaristica si nutre anche di questa antinomia: un cristiano realismo, un senso del limite che incombe sulla condizione umana e ci­vile, ma, insieme e soprattutto, la cristiana spe­ranza, la fiducia certa nelle promesse di un Dio che ci ama e che ci salva. 
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