
II Parte
Comprende: Preparazione dei doni (processione delle offerte; preghiera di presentazione dei doni; incensazione; lavanda delle mani; orazione sulle offerte); Preghiera eucaristica (Prefazio e Sanctus; epiclesi preconsacratoria; racconto dell’istituzione; anamnesi; offerta; epiclesi postconsacratoria con preghiera per l’unità; intercessioni con memoria dei santi; dossologia); Riti di comunione (Padre nostro con embolismo e acclamazione; rito della pace; frazione del pane e immixtio; Agnus Dei; preghiera di preparazione; comunione; rendimento di grazie e orazione dopo la comunione).
Questa seconda parte principale viene introdotta dalla preparazione dell’altare. Il messale è posto sull’altare, al centro dello stesso viene spiegata una tovaglietta quadrata di lino (= corporale) e accanto sono collocati il calice e una specie di tovagliolo (= purificatoio). Il fatto che questa preparazione, al contrario dell’uso precedente, abbia luogo solo adesso, deve rilevare più chiaramente l’inizio della seconda parte principale, la quale nella sua struttura riproduce l’Ultima Cena di Gesù e ripresenta il Mistero pasquale.
La preparazione dei doni: il presentare il pane e il vino era originariamente un semplice disporre sull’altare gli elementi da consacrare. Lentamente i fedeli vi unirono anche i loro doni per il sostentamento del clero, la manutenzione dell’edificio di culto e l’aiuto dei poveri. In talune parti della chiesa si formò la “processione delle offerte” o dei doni, nella quale erano offerti non solo pane e vino, ma anche altri elementi naturali e più tardi anche denaro e oggetti di valore. Tali doni nella liturgia neotestamentaria possono essere designati come sacrificio solo in senso traslato, poiché il NT non conosce alcun altro sacrificio visibile, in senso cultuale, al di fuori del sacrificio di Cristo, il che invece accadeva nell’AT o nelle religioni pagane. A dire il vero occorre aggiungere che specialmente nell’area franco-gallicana, dall’inizio del Medioevo, a questi doni venne attribuito un carattere sacrificale quasi cultuale, la cui influenza ha lasciato traccia in talune preghiere e cerimonie. Alcune preghiere di precedenti Ordinari della messa parlavano del pane e del vino come se si avessero davanti a sé già gli elementi consacrati e cioè il corpo e il sangue di Cristo, e come se già in questa fase si compisse un sacrificio cultuale. Espressioni come «Accogli benigno questa offerta immacolata» nella presentazione del pane e «Ti offriamo, Signore, il calice della salvezza» nella presentazione del vino, si trovano a questo momento anticipate e possono al più essere interpretate appunto come una anticipazione mentale. E’ legittimo peraltro intendere questi doni, che sono anche il risultato del lavoro e della fatica umani, come simbolo dell’offerta di sé da parte dei fedeli. Il popolo di Dio deve appunto in ogni tempo abbandonarsi interamente al Padre in obbedienza e fiducia, e unirsi così alla dedizione di Cristo e al suo sacrificio redentore.
Il nuovo ordinamento della preparazione dei doni tiene conto ampiamente di questo punto di vista. L’OGMR indica come pieno di significato e desiderabile che i fedeli presentino il pane e il vino, che il sacerdote o il diacono ricevono stando nel luogo adatto e depongono quindi sull’altare; nel far ciò il sacerdote pronuncia delle preghiere di accompagnamento. Anche se oggi i fedeli non portano più essi stessi il pane e il vino per la celebrazione eucaristica, come un tempo, tuttavia questo gesto mantiene la sua forza espressiva. Anche il portare da parte dei fedeli o il raccogliere denaro e altri doni per i poveri o per la chiesa, hanno qui la loro collocazione significativa. Essi vengono deposti in luogo adatto, ma non sulla mensa della celebrazione eucaristica (73). Le preghiere della deposizione dei doni eucaristici sull’altare sono, nello stile delle preghiere ebraiche di benedizione (al singolare: Beraka’), una riconoscente esaltazione della bontà di Dio, dalla quale riceviamo il pane e il vino. Questi doni sono frutto della terra e della vite come pure del lavoro umano e sono destinati, nella seconda parte della celebrazione eucaristica, a diventare per noi «pane della vita» e «calice della salvezza».
Per quanto riguarda la qualità dei doni vale per il pane quanto stabilito dall’OGMR: «Il pane per la celebrazione dell’eucaristia deve essere di solo frumento, confezionato di recente e azzimo, secondo l’antica tradizione della Chiesa latina» (320). L’uso citato si è formato in Occidente solo nei sec. IX-XI. A causa d’esso si giunse a partire dal sec. XI ad aspri rimproveri da parte della chiesa bizantina. Nel Concilio di Firenze (1439) ci si accordò nell’ammettere che il corpo di Cristo si fa veramente presente sia nel pane lievitato come in quello azzimo; ogni sacerdote però deve attenersi al proprio rito (DS 1303). Il pane deve essere fatto in modo che «il sacerdote nella Messa celebrata con il popolo possa spezzare davvero l’ostia in più parti e distribuirle almeno ad alcuni dei fedeli» (OGMR 321).
Per il vino si richiede che provenga dal «frutto della vite» (vinum de vite) e sia «naturale e genuino, cioè non misto a sostanze estranee» (OGMR 322; CIC 924§3). Fino al sec. XVI si preferiva il vino rosso, come si usa fino al presente nella liturgia bizantina. Ma allorché in Occidente, nel sec. XVI si introdusse il purificatoio (piccolo tovagliolo per purificare il calice), si passò al vino bianco, perché esso lascia meno tracce.
Pane e vino devono essere in stato di perfetta conservazione e cioè il vino non deve essere diventato aceto e il pane non deve essersi guastato o diventato troppo duro, così «che solo con difficoltà si possa spezzare» (OGMR 323).
Al tempo di Gesù il pane e il vino erano in Palestina l’alimento principale. Mangiare e bere hanno un profondo significato. Essi rendono possibile la vita. Chi non può più mangiare e bere, chi non ha nulla da mangiare e da bere, deve morire. Così ogni pasto contiene un tacito accenno al carattere di dipendenza e di caducità della nostra vita. Cibo e bevande vengono sperimentati dall’uomo religioso come doni del Creatore, il quale è non solo l’origine e la fonte della vita, ma anche colui che la mantiene. Così il pasto è qualcosa che rimanda al Dio creatore. Chi pensa a ciò, ringrazia. Ma ringraziare Dio significa pregare. E così la preghiera della mensa è un antichissimo uso dell’uomo. Il pasto stesso ha una connotazione religiosa, una solennità religiosa. Nello stesso tempo esso è un simbolo della comunione e dell’amicizia con tutti coloro che vi partecipano. Così il pane e il vino, il mangiare e il bere poterono diventare per Cristo dei segni visibili per un pasto nel quale egli stesso diviene il cibo e nel quale egli stabilisce la comunione dei partecipanti con sé e tra loro. Così nelle preghiere della preparazione dei doni è già contenuta una profonda affermazione sul senso e lo scopo del banchetto eucaristico.
Prima che il sacerdote elevi il calice, mescola al vino un poco d’acqua. Questo rito può avere le sue radici innanzitutto nell’uso antico e quindi anche nell’esempio di Cristo, di non bere il vino se non mescolato con acqua. Il cristianesimo vi vide un simbolismo molteplice: innanzitutto il richiamo al sangue e all’acqua, che uscirono dal costato di Cristo e nei quali si vide simbolizzata la nascita della chiesa e dei sacramenti; quindi una rappresentazione dello stretto collegamento della natura divina e di quella umana in Cristo; infine lo stretto collegamento che ci viene donato con Cristo. A partire dalle due ultime interpretazioni è da comprendere la preghiera che accompagna il gesto della mescolanza: «L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana».
Alla preghiera di preparazione del calice segue una preghiera di offerta di se stessi («… Accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio»). E’ possibile quindi incensare i doni e l’altare, il sacerdote e l’assemblea.Il rito seguente della lavanda delle mani è già conosciuto (per Gerusalemme) dal sec. IV. A dire il vero per lungo tempo fu collocato prima della preparazione dei doni ed era un richiamo simbolico alla purificazione interiore prima dell’inizio della liturgia eucaristica. Solo nell’alto Medioevo esso è trasportato al luogo attuale. La preghiera che l’accompagna lo caratterizza come simbolo del desiderio di purezza.
La preparazione dei doni è chiusa dalla Orazione sulle offerte. Essa è preceduta da un invito alla preghiera rivolto all’assemblea. Mentre il messale latino prevede solo il tradizionale Orate, fratres («Pregate, fratelli») con il Suscipiat Dominus («Il Signore riceva... questo sacrificio»), il messale italiano porta altre due possibili formule alternative d’invito. Sia le formule latine di invito e di risposta come talune formulazioni della successiva orazione sulle offerte (prima detta anche “Segreta”) hanno non di rado favorito l’idea errata che la presentazione dei doni fosse già il vero sacrificio di Cristo e della chiesa, il quale ci comunica perdono e salvezza[1].
La grande stima per
Le intenzioni di riformare l’unica Preghiera eucaristica della chiesa occidentale, il cosiddetto Canone romano, si rivelarono non realizzabili a motivo delle numerose inserzioni di preghiere di offerta di sé, di memorie dei Santi e di intercessioni (anche prima del racconto dell’istituzione). Perciò il papa dispose che il Canone romano, salvi minimi mutamenti, doveva essere mantenuto nella sua forma tradizionale. Tuttavia gli dovevano venire affiancate altre tre nuove Preghiere eucaristiche, tra cui scegliere liberamente. Questo nuovo ordinamento entrò in vigore nel 1968. Da allora il Canone romano viene indicato anche come Preghiera eucaristica I.
Le Preghiere eucaristiche sono introdotte da un dialogo tripartito, nel quale incontriamo un’antichissima tradizione ebraica e cristiana («II Signore sia con voi...; In alto i nostri cuori...; Rendiamo grazie...»). In questo dialogo introduttivo diventa chiaro che anche
La parola Prefazio non deve essere tradotta e intesa come “discorso che precede”. Infatti il prefisso latino prae (= prima) è da intendere qui non in senso temporale, ma spaziale: davanti a Dio e all’assemblea «il sacerdote... glorifica Dio Padre e gli rende grazie per tutta l’opera della salvezza o per qualche suo aspetto particolare, a seconda della diversità del giorno, della festa o del tempo» (OGMR 79a). I tradizionali Prefazi romani - al termine dell’antichità ce n’erano più di 200 e alla fine del sec. XVI furono ridotti a 14 - parlano per lo più solo di un determinato aspetto dell’opera della redenzione. Tra i numerosi nuovi Prefazi si trovano però anche testi di glorificazione e rendimento di grazie per l’intera opera della salvezza di Cristo e anzi per l’intera storia della salvezza, dalla creazione al ritorno finale di Cristo[2].
Ogni Prefazio ha una struttura tripartita: l’introduzione, la presentazione e la lode dell’opera della salvezza, e il passaggio al canto comunitario del Sanctus. La parte centrale mette in chiaro che i Prefazi sono anche un vero annuncio della salvezza.
Il Sanctus che segue, ripetuto tre volte, è secondo l’OGMR, parte della Preghiera eucaristica e deve essere recitato o cantato insieme dal sacerdote e dall’assemblea (79b). Al Sanctus fanno da riferimento due luoghi biblici: l’inno di lode degli angeli nel racconto della visione di Isaia (6, 2s.) e l’acclamazione del popolo all’ingresso di Gesù in Gerusalemme (Mt 21, 9). Il Sanctus appartiene al più antico patrimonio di quasi tutte le liturgie e la sua prima parte fu presa probabilmente dal servizio ebraico di preghiera. “Osanna” è una preghiera ebraica, che originariamente aveva il significato di «dona, Signore, la salvezza», e divenne più tardi grido di gioia a onore di Dio e del re[3].
Nel Messale romano fin qui in uso si poteva vedere dopo il Sanctus una chiara cesura. Dominava ed era diffusa l’idea che solo a quel punto iniziava il Canone. Al contrario le nuove Preghiere eucaristiche hanno una formula organica di passaggio, il Postsanctus.
A questa formula di passaggio nelle Preghiere eucaristiche Preghiera eucaristica II e III si unisce l’Epiclesi, mentre nella Preghiera eucaristica IV questa segue solo dopo un lungo sviluppo laudativo sulla storia della salvezza. L’epiclesi è un’invocazione dello Spirito Santo perché trasformi il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Gesù. Anche nella Preghiera eucaristica I si può riconoscere nella preghiera immediatamente prima del racconto dell’istituzione un’epiclesi, anche se essa purtroppo non menziona lo Spirito Santo esplicitamente. Nelle liturgie orientali questa epiclesi si trova solo dopo il racconto dell’istituzione. Su questo punto si accese a partire dal primo Medioevo un’aspra disputa. Mentre l’Occidente rappresentava l’opinione che la trasformazione dei doni avviene attraverso le parole della consacrazione, l’Oriente invece l’attribuiva all’epiclesi. Mentre oggi - come già nei primi quattro secoli - si accentua nuovamente piuttosto l’unità della Preghiera eucaristica, sembra profilarsi almeno in Occidente una mitigazione della controversia. Le ultime parole di questa epiclesi preconsacratoria vengono sottolineate da due riti di benedizione: l’imposizione delle mani sui doni e la benedizione col segno di croce.
Le parole della consacrazione del Canone romano non sono identiche nel loro tenore ai quattro racconti biblici dell’istituzione. Si pensa che esse si rifacciano a una tradizione liturgica, già fissata prima della redazione degli scritti neotestamentari. La recente riforma ha dato la stessa forma alle parole di Gesù in tutte le Preghiere eucaristiche. Quella che finora era un’inserzione: «Mistero della fede», estratta dal contesto è divenuta la formula introduttiva dell’acclamazione dell’assemblea, di nuova introduzione: «Annunziamo la tua morte, Signore...».
Nel Medioevo, in Occidente si circondarono le parole della consacrazione con vari segni di solennità, tra cui l’inginocchiarsi in adorazione, l’incensazione, il suono delle campane e del campanello. L’elevazione dell’ostia consacrata risale al forte desiderio di vedere l’ostia, proprio del Medioevo (circa dal 1200), mentre l’elevazione del calice si aggiunse solo più tardi[4]. La trasformazione dei doni eucaristici fu descritta dalla teologia medievale con l’espressione “transustanziazione”. Oggi si parla, in aggiunta, di una transfinalizzazione e transignificazione nel senso di una nuova pienezza di significato e forza simbolica dei doni consacrati[5].
Sulla traduzione delle parole della consacrazione ci fu negli ultimi anni un’aspra controversia. Mentre nel Messale romano (in latino) si dice che il sangue di Cristo «fu sparso per voi e per molti» (secondo Mt 26, 28 e Mc 14, 24), il Messale italiano traduce «per voi e per tutti». Taluni vi videro un così forte cambiamento del testo latino da porre in dubbio la validità della messa. Riguardo a ciò bisogna dire che la volontà salvifica di Dio in e per mezzo di Cristo è universale, e quindi fu anche nell’intenzione di Cristo di versare il suo sangue per tutti, come risulta da Rm 8, 32; 2Cor 5, 14s.; 1Tm 2, 6 e 1Gv 2, 2. Anche Gv 6, 51 è in tale senso. Per questo la traduzione «per tutti» è perfettamente ortodossa. Se peraltro nel Messale romano (latino) si dice «per molti», questa parola prende piuttosto in considerazione l’effetto che segue realmente. Secondo la dottrina cattolica infatti taluni uomini si perdono. Per questo entrambe le espressioni hanno la loro giustificazione. A ciò si aggiunge l’osservazione degli esegeti che l’ebraico e l’aramaico non hanno alcun termine per “tutti” e quindi usano la parola “molti” anche nel senso di “tutti”, come si può vedere anche in San Paolo (cf. Rm 5, 12-18; 1Cor 15, 22)[6].
Mentre finora nel Canone romano tutti i testi dovevano essere pronunciati solo dal sacerdote, ora l’assemblea dopo le parole della consacrazione dice l’acclamazione «Annunziamo la tua morte, Signore...». Con riferimento a 1Cor 11, 26 l’assemblea si proclama così riconoscente al suo Signore e alle sue opere salvifiche. La successiva Anamnesi (= memoriale) fa memoria dell’intera opera della salvezza di Cristo, che nelle singole Preghiere eucaristiche viene nominata nelle sue fasi più importanti: Preghiera eucaristica I: passione, risurrezione e ascensione; Preghiera eucaristica II: morte e risurrezione; Preghiera eucaristica III: passione, risurrezione, ascensione e ritorno finale;
Strettamente collegata con l’Anamnesi c’è in tutte le Preghiere eucaristiche una preghiera di offerta del sacrificio. Essa si riferisce innanzitutto all’unico sacrificio di Cristo, nel quale egli è nello stesso tempo sacrificio e sacerdote, e che viene reso presente sacramentalmente nella celebrazione eucaristica (presenza attuale). La chiesa come corpo mistico di Cristo si unisce intimamente alla dedizione di Cristo, mentre associa l’offerta di se stessa a Dio al sacrificio di Cristo. Il tema dell’offerta di sé da parte della chiesa è già risuonato nella preparazione dei doni, ma qui diventa particolarmente attuale. «
Il cammino verso questa meta passa attraverso la comunione al corpo e al sangue di Cristo. Perciò si ha qui anche una preghiera per ricevere fruttuosamente i santi doni, una preghiera detta anche Epiclesi di comunione. In essa si prega anche per l’unità dei fedeli, che viene riconosciuta come opera particolare dello Spirito Santo.
Alla epiclesi di comunione sono unite delle Intercessioni per tutta la chiesa, per i suoi capi, per l’assemblea riunita, ma anche per «tutti i tuoi figli ovunque dispersi» (Preghiera eucaristica III). Si fa memoria anche dei defunti, e nelle Preghiere eucaristiche I-III è possibile nominare determinati nomi. Queste intercessioni riguardano anche tutti «i defunti, dei quali tu solo hai conosciuto la fede» (Preghiera eucaristica IV). Così si esprime anche qui l’universale significato salvifico del sacrificio della croce e della sua ripresentazione sacramentale.
In tutte le quattro Preghiere eucaristiche si trova anche una commemorazione dei Martiri e dei Santi e in particolare della Madre di Dio e degli Apostoli. Essa è particolarmente ricca nella Preghiera eucaristica I, dove sia prima che dopo le parole della consacrazione vengono nominati numerosi Santi. Nella Preghiera eucaristica III la commemorazione dei Santi prevede che possano essere aggiunti determinati Santi (Santi del giorno e patroni). Si sono avute certamente epoche nelle quali un’eccessiva venerazione dei Santi può aver deviato l’attenzione dal Mistero salvifico di Cristo. Però anche l’estremo opposto, la totale rinuncia alla venerazione dei Santi, sarebbe una perdita nella pienezza della fede cristiana e nella concreta evidenza della fede vissuta.
Ultimo elemento di tutte e quattro le Preghiere eucaristiche è la grande Dossologia (= parola di lode), la quale fu ripresa nella forma della Preghiera eucaristica I anche dalle altre Preghiere eucaristiche. Nel corso di essa il sacerdote eleva alquanto i doni consacrati e dice (canta): «Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria nei secoli dei secoli». Nella e attraverso la comunione con Cristo anche la nostra vita acquista valore nel senso dell’onore reso a Dio e raggiunge così il suo significato più profondo.
L’assemblea conferma questa parola di lode con il suo “Amen”. J.A. Jungmann ravvisa in questa dossologia un pezzo della più antica tradizione ecclesiale, uno sviluppo di Ef 3, 20s.[7].
Oltre le tre nuove Preghiere eucaristiche citate, sono approvate per l’Italia altre tre Preghiere eucaristiche per le messe dei fanciulli,
Accanto a queste Preghiere eucaristiche ufficiali uscirono, a partire dal 1967, numerose Preghiere eucaristiche di origine privata, che provenivano specialmente dall’Olanda ed ebbero vasta diffusione. I vescovi da una parte ripetutamente posero ad esse un divieto e d’altra parte però chiesero all’autorità romana il permesso per l’uso di nuove Preghiere eucaristiche. Una lettera circolare della Congregazione per il culto divino del 27 aprile 1973 concesse tuttavia alle Conferenze episcopali solo la possibilità di approvare e di far confermare nuovi Prefazi e inserzioni. Certamente si dovrà concedere a ogni epoca il diritto di proclamare la lode di Dio nella sua lingua e nella sua fede vivente. D’altra parte l’approvazione da parte dell’autorità della chiesa è un aiuto necessario perché
4.4. Riti di conclusione
Comprendono: brevi avvisi parrocchiali (se necessari!); il saluto e la benedizione; il congedo; il bacio dell’altare e il ritorno in sacrestia (cf. OGMR 90).
Si ha qui la possibilità di fare brevi comunicazioni all’assemblea, importanti per la vita parrocchiale. Sarebbe falso psicologicamente fare a questo momento delle lunghe esposizioni, che finiscono per cancellare il durevole effetto della celebrazione eucaristica. Non è controindicato invece che il sacerdote concluda queste comunicazioni con una personale parola di commiato. Egli saluta quindi l’assemblea con il tradizionale augurio «Il Signore sia con voi» e imparte la Benedizione[16]. In luogo della formula semplice può anche essere scelta una Benedizione solenne (Messale Italiano, pp. 428-445) o una Preghiera di benedizione sul popolo (Messale Italiano, pp. 446-450). L’OGMR non prevede che i fedeli s’inginocchino alla benedizione (43). Per[6] Abbondante documentazione in Schneider, Segni della vicinanza di Dio, Queriniana, Brescia, 142-143; W. Stenger, Das für alle vergossene Blut, in Gottesdienst 4(1970), 45s.
[7] Così nel suo ultimo contributo scientifico Die Doxologie am Schluss der Hochgebete, in Gemeinde im Herrenmahl, 314-322, qui 321. J.A. Jungmann morì il 26 gennaio 1975.
[8] Le Preghiere eucaristiche della riconciliazione (versione italiana pubblicata il 23 febbraio 1977) e quella della Svizzera (concessione dell’uso alle chiese italiane il 5 gennaio 1980) sono state definitivamente accolte nella seconda edizione del Messale romano in lingua italiana del 16 agosto 1983.
[9] Cf. Giustino, Apologia I, 65 e 67.
[11] Cf. ad es. Cipriano, De domenica oratione
[12] Enciclica «Mediator Dei» (1947), nr. 117 e 119. Sul simbolismo della frazione del pane: F. Nikolasch, Vom geteilten Brot, in Gott feiern, 248-255.
[15] Documentazione e bibliografia in A. Adam – R. Berger (a cura di), Pastoralliturgisches Handlexicon, Freiburg i.Br., 1983, 271-273.
[16] Sull’essenza e il valore della benedizione: J. Plöger, Vom Segen des Herrn, in Gott feiern, 275-293.