Il Sacramento dell’Unzione degli Infermi (CCC 1499-1532)
“Con la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei presbiteri, tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché alleggerisca le loro pene e li salvi, anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo, per contribuire così al bene del popolo di Dio” (LG 11).
Per approfondimento personale:
1) CEI, Rituale Romano riformato a norma dei Decreti del Conc. Vat. II e promulgato da Papa Paolo VI, Sacramento dell’Unzione e cura pastorale degli infermi, Ed. CEI, Roma 1974. 2) Colombo G., I Segni della fedeltà di Dio. La Riconciliazione e l’Unzione dei malati, EDC, Torino- Leumann 1986 (I Santi segni, 4).
1. Fondamenti biblici e patristici (CCC 1500-1509)
Questo sacramento è uno dei più discussi, perché mancano dei riferimenti ben precisi nella Bibbia. Dobbiamo partire dal gesto dell’imposizione delle mani e guarigione dei malati. Su questo punto, il cui effetto non entra nella categoria dei riti, la prassi di Gesù non viene perpetuata alle origini cristiane. Il finale del vangelo di Marco la menziona espressamente nel contesto della missione degli apostoli (Mc 16, 18). Il libro degli Atti ne fornisce due esempi a proposito della guarigione di Paolo dopo la sua conversione (At 9, 12.17) e per una guarigione effettuata da lui (At 28, 8). Bisogna forse accostare questi testi alla menzione del «dono (o carisma) della guarigione» menzionata in lCor 12, 9.30; ma non sappiamo niente di preciso circa le pratiche legate al suo esercizio.
Leggendo ed analizzando i testi biblici possiamo scoprire come l’imposizione delle mani ai malati fosse stata praticata da Gesù e dai suoi apostoli. Si tratta però di una cosa diversa. Nell’antichità l’olio era utilizzato per la farmacopea (cf. Lc 10, 34), ma anche per la cosmesi femminile e per la fabbricazione dei profumi (Lc 8, 38; Mc 14, 3-4 e par). Qui lo scopo è diverso, anche se la guarigione dei malati non viene dimenticata. L’invio dei dodici in missione al tempo del ministero di Gesù (o dei settantadue, secondo Lc 10, 1-12) comportava, secondo Luca, un’istruzione relativa alla guarigione dei malati (Lc 10, 9; cf. 9, 2). Il racconto che ne fa Marco contiene questa precisazione: «Essi scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6, 13). Tuttavia quest’annotazione sopravviene in un contesto in cui viene nettamente precisato l’oggetto essenziale della missione: «E partiti, predicavano che la gente si convertisse». Ci si riallaccia così allo scopo primario della missione evangelica di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1, 15). Il pentimento e la fede nel Vangelo prevalgono evidentemente sui segni che possono accompagnare la predicazione, menzionata ugualmente dal finale di Marco insieme all’imposizione delle mani ai malati (Mc 16, 18).
Quest’unzione con olio fatta ai malati riappare in un solo testo del Nuovo Testamento: la lettera di Giacomo (5, 13-16). Questo passo merita di essere esaminato perché, senza dire che si tratta di un gesto liturgico, chiama in causa dei detentori di ministeri. «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri (τούς πρεσβυτέρους) della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio (αλείψαντες έλαίω), nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti».
L’alleviamento della sofferenza non viene scartato, ma la «salvezza» dovuta alla preghiera - quella del malato che crede e quella dei presbiteri - va al di là di questa guarigione fisica. Essa include la remissione dei peccati, legata evidentemente alla «preghiera fatta con fede». Si vedono così abbozzati i tratti di quello che diventerà il «sacramento degli infermi».
Vedete: la guarigione degli infermi da parte di Gesù era un segno del Regno, spesso legata con la remissione dei peccati. Gli apostoli hanno ricevuto da lui, a loro volta, il potere di guarire con dei segni: unzione con l’olio (Mc 6, 12) e imposizione delle mani (Mc 16, 18). Questa missione non si limita ai primi tempi della Chiesa: la lettera di Giacomo, infatti, ci dà per questo delle consegne durevoli.
Queste indicazioni del NT, soprattutto le consegne della Lettera di Giacomo, lungo il corso della storia della Chiesa, saranno la norma della liturgia degli infermi e della teologia dell’unzione, anche quando non se ne fa menzione esplicita. Esse spiegano specialmente l’ambivalenza che la tradizione riconoscerà a questo sacramento, destinato sia alla guarigione, sia alla remissione dei peccati.
Ciò che la comunità, o la Chiesa, deve fare non è che la logica continuazione del compito di Gesù ai suoi discepoli. La preghiera accompagnata dall’unzione dell’olio e dall’imposizione delle mani opera salvezza corporale e spirituale, sollievo e eventualmente anche perdono dei peccati.
Occorre inoltre notare subito che non si tratta qui di morenti, ma in genere di malati; ad essi deve essere prestato un servizio di vita e di guarigione. E’ importante anche il fatto che essi vengono indirizzati ai presbiteri, quindi ai responsabili della comunità e non a dei carismatici qualunque. Il servizio biblico dei malati è un’attività ufficiale della chiesa.
Da questa breve indagine biblica risultano due conclusioni importanti:
- Quando la Chiesa nel nome e nella potenza del suo Signore glorificato opera con segni visibili per la salvezza dei credenti, noi parliamo di un sacramento. Ora poiché il servizio biblico dei malati descritto nella Lettera di Giacomo corrisponde chiaramente all’intenzione di Cristo e, in connessione con la preghiera e il segno visibile, comporta la promessa di effetti soprannaturali di salvezza, esso è un’attività sacramentale della Chiesa, è un sacramento. Questo però significa, come anche nel caso degli altri sacramenti, che l’unzione degli infermi è in definitiva un intervento a pro del malato da parte del Cristo glorificato, il quale per così dire utilizza il sacerdote solo come uno strumento nelle sue mani. E’ lui che nella preghiera e nel segno dell’unzione degli infermi continua per l’uomo dei nostri giorni il suo servizio di amore e di aiuto, iniziato un tempo in Palestina. Di fronte all’immensa schiera dei malati egli dice anche oggi la parola di solidarietà e di disponibilità all’aiuto: «Sento compassione di questa folla» (Mt 15, 32; Mc 8, 2). Egli si piega su di essi pieno di misericordia e li solleva; egli dà loro nuova forza, speranza e perdono delle colpe se sono in peccato; egli diventa il buon Samaritano, che si prende a cuore il malato che giace a terra. L’unzione degli infermi non ha dunque nulla a che fare con la magia e la superstizione. Essa è un intervento salvifico del Signore per l’uomo bisognoso di salvezza.
- Un’altra importante osservazione riguarda la comprensione dell’unzione degli infermi. Poiché essa è la continuazione del servizio biblico di Gesù e degli apostoli verso i malati, essa non può essere vista come «sacramento della consacrazione della morte», o come una sorta di suggello ufficiale dell’imminente arrivo della morte. Essa è piuttosto il sacramento di sollievo corporale e spirituale del malato, un sacramento di aiuto e di guarigione.
Tale è stata la comprensione della chiesa antica, in Oriente e in Occidente; ne danno testimonianza innanzitutto i testi di benedizione dell’olio degli infermi dagli inizi a oggi.
Per quanto riguarda i più antichi formulari: le collezioni canoniche dell’antichità trattano soprattutto della benedizione dell’olio per gli infermi, di cui propongono dei formulari. Il primo in assoluto, per quanto ci risulta, è quello della Tradizione apostolica, dell’inizio del III sec. Ippolito, dopo aver citato la preghiera eucaristica, aggiunge:
«Se qualcuno offre dell’olio, (il vescovo) renda grazie come fa per l’oblazione del pane e del vino, - si esprima non con le stesse parole, bensì nello stesso senso, -: dicendo: “O Dio, mentre santifichi quest’olio, tu doni la salute a coloro che ne sono unti e che lo ricevono, (quest’olio) con cui hai unto i re, i sacerdoti ed i profeti: che esso dia conforto a coloro che ne gustano (gustantibus) e salute a coloro che ne fanno uso (utentibus)”».
Questa preghiera, che beneficia della grande diffusione dell’opera di Ippolito, avrà un’influenza sui formulari ulteriori; Roma conserverà inoltre l’uso di far benedire l’olio alla fine del canone della Messa. Tuttavia, solo la versione etiopica della Tradizione apostolica la riprodurrà.
Il Testamentum Domini proveniente dalla Siria (V sec.) dà una formula diversa, in cui già appare una confusione, frequente in seguito in Oriente, tra l’olio degli infermi e l’olio dell’esorcismo dei catecumeni: «Signore Iddio, che ci hai donato lo Spirito Paraclito, Signore, nome salutare, nome incrollabile, nascosto agli stolti e rivelato ai sapienti; Cristo che ci hai santificati ed hai istruito nella tua misericordia questi servi (= i sacerdoti) che hai scelto nella tua sapienza; tu che hai inviato la scienza del tuo Spirito a noi peccatori con la tua santità quando ci hai fatto dono dello Spirito; tu che guarisci ogni malattia ed ogni sofferenza, che hai conferito il dono della guarigione a coloro che hai giudicato degni: manda su quest’olio, che è simbolo della tua dolcezza, la pienezza della tua compassione perché liberi coloro che soffrono, ridoni ai malati la salute, santifichi coloro che si convertono e vengono alla fede, perché tu sei forte e degno di lode nei secoli dei secoli».
E’ generalmente una benedizione dell’acqua e dell’olio che viene riportata dal compilatore delle Costituzioni apostoliche (fine del IV sec. o inizio del V) tra un gruppo di canoni d’origine sconosciuta: il vescovo o, in sua assenza, il sacerdote pregherà in nome di colui o di colei che offre quest’acqua e quest’olio e chiederà al Signore di conferire a questi elementi «efficacia per produrre la salute, scacciare le malattie, mettere in fuga i demoni, sventare le insidie».
Pure l’Eucologio (= raccolta di preghiere) del vescovo egiziano Serapione di Tmuis (sec. IV): «Noi preghiamo te, che hai ogni forza e potenza, salvatore di tutti gli uomini.., te ne supplichiamo, dal cielo del tuo Figlio unico si spanda su quest’olio potere di guarigione, affinché per coloro che riceveranno l’unzione... queste tue creature distruggano ogni male e ogni infermità.., rechino la grazia e la remissione dei peccati, il rimedio della vita e della salvezza, la salute e l’integrità dell’anima, del corpo e della mente, e la pienezza della forza»[1].
Queste idee si sono mantenute nella preghiera di benedizione dell’olio degli infermi, che il vescovo consacra il Giovedì santo. Anche nelle preghiere che hanno accompagnato e fatto seguito all’unzione degli infermi nel rito fin qui in uso, il sollievo corporale e spirituale e la guarigione hanno un ruolo essenziale.
Tra i formulari latini della benedizione dell’olio per gli infermi, uno, almeno, è anteriore al secolo VIII: è la preghiera romana, quella che, malgrado diverse modifiche del suo testo, è rimasta in uso fino ai nostri giorni e figura ancora, un po’ ritoccata, nell’Ordo benedicendi oleum... del 1971 e nell’Ordo unctionis... del 1972. Essa si trovava già nel Sacramentario gelasiano (Ge 382) e nel Sacramentario gregoriano (Gr 334): e quest’ultimo che sembra darne il testo originale; A. Chavasse crede anche di poter datarlo attorno al V sec. o alla fine del IV: «O Signore, manda dall’alto dei cieli lo Spirito Santo, il Paraclito, in questo grasso dell’olivo, che ti sei degnato di trarre da quest’albero vigoroso in vista di sollevare i nostri corpi, affinché, con la tua santa benedizione, diventi per chiunque si unge... (in Ge c’è un aggiunta: gustandi = lo beve) o se l’applica, un rimedio del corpo, che vi scacci ogni sorta di dolore, di debolezza, di malattia, l’olio col quale hai unto i sacerdoti, i re, i profeti ed i martiri, il tuo buon olio che tu hai benedetto, Signore, e che rimane in noi, in nome del nostro Signore Gesù Cristo»[2]
2. Breve «excursus» storico
Tralascio la storia di questo sacramento in Oriente cristiano e passo subito alla sua storia nella Chiesa Latina a partire dal sec. VII.
E’ proprio nella seconda metà di questo secolo che inizia nella Chiesa il periodo d’organizzazione dei rituali riguardanti la cura degli infermi. I primi sacramentari romani non segnalano, per la verità, né imposizione delle mani, né unzione. Essi offrono solo, nei supplementi che hanno ricevuto in quel tempo, una raccolta di ‘orazioni’ il cui raggruppamento influirà sugli sviluppi ulteriori.
Se uno volesse conoscere la formazione e sviluppo del rituale degli infermi rimando ai numerosi studi. Si dovrebbe inoltre prendere in considerazione alcuni Sacramentari: Sacramentario d’Adriano, Gelasiano antico, i Gelasiani del sec. VIII, i vari supplementi (ad es quello Carolingio)...
E’ importante il Supplemento appena citato (al Sacramentario d’Adriano): in esso il rituale degli infermi è collocato dopo la Riconciliazione dei penitenti il giovedì santo e seguito allo stesso modo dalla Reconciliatio paenitentis ad mortem e dalla liturgia della morte (Gr 1386-1395). Ma la riforma carolingia non permette più che i fedeli stessi usino l’olio per gli infermi; perciò i sacramentari del IX sec, inseriscono l’unzione sacramentale e spesso un’imposizione delle mani in mezzo a questi testi.
I libri, soprattutto monastici, vi aggiungono delle antifone, dei salmi, delle litanie, degli inni che costituiscono un ufficio da celebrare in chiesa oppure presso l’infermo secondo tutto un rituale talvolta con la presenza di più sacerdoti.. Il rito inizia normalmente con l’aspersione dell’acqua benedetta e comporta la confessione, qualche volta le preghiere della riconciliazione ad mortem la comunione ed una benedizione dell’infermo.
Nell’area celtica, la visita all’infermo e l’unzione danno luogo ad una missa sicca comportante preghiere, lettura, professione di fede, preghiere prima e dopo la comunione.
Il Pontificale compilato verso il 950 nell’Abbazia Sant’Albano di Magonza e destinato a diffondersi rapidamente in tutta la Chiesa latina propone due grandi rituali degli infermi: l’uno, Ordo ad visitandum et unguendum infirmum, non comporta unzione, nonostante il titolo: consiste, dopo il saluto iniziale dei sacerdoti, nell’aspersione ed incensazione, nel canto dei salmi penitenziali, in una litania, in capitella di versetti di salmi, in quattro orazioni, poi ancora in un Salmo - il 142 -, seguito sempre da capitella e quattordici formule di benedizione dell’infermo[3]. L’altro Ordo ad unguendum infirmum inserisce i riti sacramentali in una celebrazione meno prolissa: l’infermo deve essersi già confessato; si inizia con l’aspersione e l’orazione Deus qui per apostolum; poi si cantano i due salmi 6 e 49 con la relativa antifona; tutti i sacerdoti impongono le mani sull’infermo; si canta il Salmo 119 con la sua antifona, seguito da due orazioni; è allora che hanno luogo le unzioni (perunguant singuli sacerdotes...); si canta l’inno Christe, caelestis medicina Patris; in seguito l’Ordo propone cinque orazioni. Poi l’infermo comunica sotto le due specie; quindi si dicono ancora tre orazioni. Senza soluzione di continuità, il Pontificale aggiunge delle formule d’assoluzione ed altre orazioni che dovrebbero trovare posto dopo la confessione, poi quattro formule di benedizione dell’infermo da parte del vescovo, se è presente, oppure da parte dei sacerdoti[4].
E’ negli ambienti soprattutto monastici che i riti sull’infermo, nei sec. IX-X, hanno raggiunto queste proporzioni che sono quasi paragonabili a quelle degli eucologi orientali. Tutto lo sforzo dei secoli seguenti mirerà a ridurre questa esuberanza ed a mettere un certo ordine nel seguito dei riti.
A differenza delle altre Chiese, Roma riservava la benedizione dell’olio degli infermi alla solenne messa crismale del giovedì santo presieduta dal vescovo; progressivamente, la disciplina romana s’è estesa a tutto l’Occidente.
I primi rituali della visita agli infermi che segnalano l’unzione sono forse quelli che provengono dalla Spagna o dall’Irlanda. Il rituale ispanico si limita ad annunciare una rubrica. Gli ordines irlandesi propongono la formula: Ungo te de oleo sanctificato in nomine Trinitatis ut salveris in saecula saeculorum.
Una grande diversità regnerà almeno per due secoli, tanto sul numero delle unzioni quanto sulle formule che le accompagnano, diversità che le rubriche dei manoscritti del IX sec, talvolta attestano.
Bisogna notare che quasi sempre i rituali prescrivono, oltre alle unzioni, un’imposizione delle mani, sottolineata dalla preghiera che l’accompagna.
Essa riveste una particolare importanza nella liturgia ambrosiana.
Dobbiamo ora affrontare il passaggio dall’Unzione degli Infermi alla cosiddetta «Estrema Unzione».
Diverse cause hanno progressivamente portato a dare il sacramento dell’unzione non più in vista della guarigione d’un infermo, ma per preparare un cristiano alla morte. E’ certamente prima di tutto dovuto al semplice fatto della vicinanza, nei libri liturgici e già nei Sacramentari gelasiani del sec. VIII, del rituale dell’unzione a quello della penitenza ad mortem ed a quello della Commendatio animae. In seguito è stato più fortemente accentuato l’effetto penitenziale dell’unzione. La penitenza ad mortem dipendeva dalla disciplina dell’antica penitenza pubblica, cioè il penitente, anche dopo aver ricevuto la riconciliazione, doveva osservare fino alla morte le rigorose conseguenze, specialmente l’astensione dai rapporti coniugali e l’astinenza dalla carne. Quando la penitenza ad mortem perse questo carattere e fu sostituita dalla penitenza privata, l’unzione unì le preghiere e le particolarità che la prima comportava. Ecco perché si vede comparire nei rituali e specialmente in un Pontificale romano dei XII sec. il seguente dialogo[5]: «Il sacerdote dice all’infermo: “Perché mi hai chiamato, o fratello?” – “Perché tu mi dia l’unzione”. Allora il sacerdote dice: “Nostro Signore ti dia un’unzione vera e facile; ma se il Signore volge su di te il suo sguardo e ti guarisce, la custodirai?” Risposta: “Sì, la custodirò”».
Il sacerdote benedice allora un cilicio e delle ceneri; mescola delle ceneri con l’acqua benedetta e ne asperge l’infermo, poi gli impone il cilicio. Le formule che accompagnano questi riti tuttavia invocano sempre la guarigione. La comunione eucaristica, che faceva parte di tutti i rituali della preghiera per gli infermi, diventa chiaramente il viatico.
Si noterà che le espressioni extrema unctio o unctio exeuntium che, a partire dal XII sec., saranno usate dai teologi e dai canonisti, non figurano affatto nei rituali prima del XV sec.
Dobbiamo toccare ora il tema del Rituale abbreviato che fu praticamente in vigore dal XIII al XX sec.
Mentre le Chiese utilizzavano ancora il lungo ordo degli infermi diffuso tramite il Pontificale romano-germanico, le Consuetudines cluniacenses (secc. XI-XII) proponevano già un rituale molto abbreviato e più logico. Poiché l’infermo s’era confessato in precedenza, dopo il saluto Pax huic domui, l’incensazione e l’aspersione, il sacerdote dice l’orazione Omnipotens sempiterne Deus qui per beatum apostolum... Poi, mentre la comunità canta i salmi con le loro antifone, il sacerdote fa le unzioni sui cinque sensi. Poi prende dalla chiesa il corpo di Cristo per comunicare l’infermo[6]. L’influenza di questo rituale di Cluny, diffuso tramite il testo dei suoi consuetudinari attraverso tutta l’Europa, si fa sentire sul Pontificale della Curia romana, soprattutto nella recensione ‘lunga’ della metà del XIII sec.
E’ in questo ultimo stato che i Francescani adottano e popolarizzano, abbreviandolo ulteriormente, l’ordo dell’unzione degli infermi[7]. Con alcune varianti, esso ormai sfiderà i secoli: accolto nel XVI sec. nel Rituale di Alberto Castellani (1523)[8] e dal cardinale G.A. Santori (fine XVI sec.)[9] passò nel Rituale di Pio V (1614) e conoscerà una sola modifica notevole nell’edizione del 1925. Le principali varianti riguardano il posto dell’aspersione, della confessione e soprattutto della comunione ma anche di certe preghiere. Dopo aver rivolto il saluto, il sacerdote dice tre orazioni che provengono dal Pontificale della Curia: Introeat Domine, Oremus et deprecemur, Exaudi nos Domine. Mentre il sacerdote compie le unzioni, coloro che assistono sono invitati a dire i sette salmi penitenziali. Le unzioni sono nel numero di sette, una delle quali ai lombi, che scomparirà definitivamente nel 1917 (can. 946§2) ed una ai piedi, che poi cesserà d’essere obbligatoria (can. 947§3). Le unzioni sono precedute da una formula: «In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti extinguatur in te omnis virtus diaboli…», destinata evidentemente all’imposizione delle mani (per impositionem manuum mearum), ma le rubriche medioevali hanno spesso omesso il gesto (o piuttosto utilizzavano la formula per fare un’unzione ad caput), seguite in ciò dal Rituale del 1614; sarà invece ristabilito dal Rituale del 1925. Dopo le unzioni, il Pater e dei capitella di versetti di salmi introducono tre orazioni: Domine Deus qui per apostolum, che si trovava già, come abbiamo visto, nei sacramentari del IX sec., poi Respice quaesumus Domine, proveniente dal Sacramentario d’Adriano e Dominus sancte Pater... qui benedictionis tuae gratiam del Gelasiano.
Il rituale francescano aveva fatto sparire tutte le reminiscenze della penitenza ad mortem. L’ordo ad communicandum infirmum è rimasto distinto dall’ordo dell’unzione e, per un certo tempo, collocato dopo di esso; poi, senza che se ne capisca il motivo, a partire dalla fine del XIV sec. in certi manoscritti lo precede. Alla fine del XVI sec. si arriva all’uso di dare prima la comunione e poi l’estrema unzione. Questo modo di fare, benché contrario all’uso antico è diventato universale nella Chiesa: anomalia che sarà soppressa solo dopo il Vaticano II.
Il Rituale del 1614 ha creato, inoltre, un ordo della visita agli infermi, completamente distinto dall’ordo dell’unzione. Esso costituisce un raggruppamento originale di salmi, di letture e di orazioni che non ha equivalenti negli antichi libri liturgici. Infatti comporta quattro serie, con una pericope evangelica, per ciascuna un’orazione ed un salmo. Questo ordo, utilizzando le liste tradizionali di salmi e di orazioni dei sacramentari e del Pontificale romano-germanico, non può che essere stato composto a Roma, perché la scelta delle letture evangeliche sembra ispirata all’ufficio votivo romano pro infirmis.
3. Concilio Vaticano II ed il Rituale di Paolo VI
Leggendo ed analizzando i testi biblici possiamo scoprire come l’imposizione delle mani ai malati fosse stata praticata da Gesù e dai suoi apostoli. Si tratta però di una cosa diversa. Nell’antichità l’olio era utilizzato per la farmacopea (cf. Lc 10, 34), ma anche per la cosmesi femminile e per la fabbricazione dei profumi (Lc 8, 38; Mc 14, 3-4 e par). Qui lo scopo è diverso, anche se la guarigione dei malati non viene dimenticata. L’invio dei dodici in missione al tempo del ministero di Gesù (o dei settantadue, secondo Lc 10, 1-12) comportava, secondo Luca, un’istruzione relativa alla guarigione dei malati (Lc 10, 9; cf. 9, 2). Il racconto che ne fa Marco contiene questa precisazione: «Essi scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6, 13). Tuttavia quest’annotazione sopravviene in un contesto in cui viene nettamente precisato l’oggetto essenziale della missione: «E partiti, predicavano che la gente si convertisse». Ci si riallaccia così allo scopo primario della missione evangelica di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1, 15). Il pentimento e la fede nel Vangelo prevalgono evidentemente sui segni che possono accompagnare la predicazione, menzionata ugualmente dal finale di Marco insieme all’imposizione delle mani ai malati (Mc 16, 18).
Quest’unzione con olio fatta ai malati riappare in un solo testo del Nuovo Testamento: la lettera di Giacomo (5, 13-16). Questo passo merita di essere esaminato perché, senza dire che si tratta di un gesto liturgico, chiama in causa dei detentori di ministeri. «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri (τούς πρεσβυτέρους) della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio (αλείψαντες έλαίω), nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti».
L’alleviamento della sofferenza non viene scartato, ma la «salvezza» dovuta alla preghiera - quella del malato che crede e quella dei presbiteri - va al di là di questa guarigione fisica. Essa include la remissione dei peccati, legata evidentemente alla «preghiera fatta con fede». Si vedono così abbozzati i tratti di quello che diventerà il «sacramento degli infermi».
Vedete: la guarigione degli infermi da parte di Gesù era un segno del Regno, spesso legata con la remissione dei peccati. Gli apostoli hanno ricevuto da lui, a loro volta, il potere di guarire con dei segni: unzione con l’olio (Mc 6, 12) e imposizione delle mani (Mc 16, 18). Questa missione non si limita ai primi tempi della Chiesa: la lettera di Giacomo, infatti, ci dà per questo delle consegne durevoli.
Queste indicazioni del NT, soprattutto le consegne della Lettera di Giacomo, lungo il corso della storia della Chiesa, saranno la norma della liturgia degli infermi e della teologia dell’unzione, anche quando non se ne fa menzione esplicita. Esse spiegano specialmente l’ambivalenza che la tradizione riconoscerà a questo sacramento, destinato sia alla guarigione, sia alla remissione dei peccati.
Ciò che la comunità, o la Chiesa, deve fare non è che la logica continuazione del compito di Gesù ai suoi discepoli. La preghiera accompagnata dall’unzione dell’olio e dall’imposizione delle mani opera salvezza corporale e spirituale, sollievo e eventualmente anche perdono dei peccati.
Occorre inoltre notare subito che non si tratta qui di morenti, ma in genere di malati; ad essi deve essere prestato un servizio di vita e di guarigione. E’ importante anche il fatto che essi vengono indirizzati ai presbiteri, quindi ai responsabili della comunità e non a dei carismatici qualunque. Il servizio biblico dei malati è un’attività ufficiale della chiesa.
Da questa breve indagine biblica risultano due conclusioni importanti:
- Quando la Chiesa nel nome e nella potenza del suo Signore glorificato opera con segni visibili per la salvezza dei credenti, noi parliamo di un sacramento. Ora poiché il servizio biblico dei malati descritto nella Lettera di Giacomo corrisponde chiaramente all’intenzione di Cristo e, in connessione con la preghiera e il segno visibile, comporta la promessa di effetti soprannaturali di salvezza, esso è un’attività sacramentale della Chiesa, è un sacramento. Questo però significa, come anche nel caso degli altri sacramenti, che l’unzione degli infermi è in definitiva un intervento a pro del malato da parte del Cristo glorificato, il quale per così dire utilizza il sacerdote solo come uno strumento nelle sue mani. E’ lui che nella preghiera e nel segno dell’unzione degli infermi continua per l’uomo dei nostri giorni il suo servizio di amore e di aiuto, iniziato un tempo in Palestina. Di fronte all’immensa schiera dei malati egli dice anche oggi la parola di solidarietà e di disponibilità all’aiuto: «Sento compassione di questa folla» (Mt 15, 32; Mc 8, 2). Egli si piega su di essi pieno di misericordia e li solleva; egli dà loro nuova forza, speranza e perdono delle colpe se sono in peccato; egli diventa il buon Samaritano, che si prende a cuore il malato che giace a terra. L’unzione degli infermi non ha dunque nulla a che fare con la magia e la superstizione. Essa è un intervento salvifico del Signore per l’uomo bisognoso di salvezza.
- Un’altra importante osservazione riguarda la comprensione dell’unzione degli infermi. Poiché essa è la continuazione del servizio biblico di Gesù e degli apostoli verso i malati, essa non può essere vista come «sacramento della consacrazione della morte», o come una sorta di suggello ufficiale dell’imminente arrivo della morte. Essa è piuttosto il sacramento di sollievo corporale e spirituale del malato, un sacramento di aiuto e di guarigione.
Tale è stata la comprensione della chiesa antica, in Oriente e in Occidente; ne danno testimonianza innanzitutto i testi di benedizione dell’olio degli infermi dagli inizi a oggi.
Per quanto riguarda i più antichi formulari: le collezioni canoniche dell’antichità trattano soprattutto della benedizione dell’olio per gli infermi, di cui propongono dei formulari. Il primo in assoluto, per quanto ci risulta, è quello della Tradizione apostolica, dell’inizio del III sec. Ippolito, dopo aver citato la preghiera eucaristica, aggiunge:
«Se qualcuno offre dell’olio, (il vescovo) renda grazie come fa per l’oblazione del pane e del vino, - si esprima non con le stesse parole, bensì nello stesso senso, -: dicendo: “O Dio, mentre santifichi quest’olio, tu doni la salute a coloro che ne sono unti e che lo ricevono, (quest’olio) con cui hai unto i re, i sacerdoti ed i profeti: che esso dia conforto a coloro che ne gustano (gustantibus) e salute a coloro che ne fanno uso (utentibus)”».
Questa preghiera, che beneficia della grande diffusione dell’opera di Ippolito, avrà un’influenza sui formulari ulteriori; Roma conserverà inoltre l’uso di far benedire l’olio alla fine del canone della Messa. Tuttavia, solo la versione etiopica della Tradizione apostolica la riprodurrà.
Il Testamentum Domini proveniente dalla Siria (V sec.) dà una formula diversa, in cui già appare una confusione, frequente in seguito in Oriente, tra l’olio degli infermi e l’olio dell’esorcismo dei catecumeni: «Signore Iddio, che ci hai donato lo Spirito Paraclito, Signore, nome salutare, nome incrollabile, nascosto agli stolti e rivelato ai sapienti; Cristo che ci hai santificati ed hai istruito nella tua misericordia questi servi (= i sacerdoti) che hai scelto nella tua sapienza; tu che hai inviato la scienza del tuo Spirito a noi peccatori con la tua santità quando ci hai fatto dono dello Spirito; tu che guarisci ogni malattia ed ogni sofferenza, che hai conferito il dono della guarigione a coloro che hai giudicato degni: manda su quest’olio, che è simbolo della tua dolcezza, la pienezza della tua compassione perché liberi coloro che soffrono, ridoni ai malati la salute, santifichi coloro che si convertono e vengono alla fede, perché tu sei forte e degno di lode nei secoli dei secoli».
E’ generalmente una benedizione dell’acqua e dell’olio che viene riportata dal compilatore delle Costituzioni apostoliche (fine del IV sec. o inizio del V) tra un gruppo di canoni d’origine sconosciuta: il vescovo o, in sua assenza, il sacerdote pregherà in nome di colui o di colei che offre quest’acqua e quest’olio e chiederà al Signore di conferire a questi elementi «efficacia per produrre la salute, scacciare le malattie, mettere in fuga i demoni, sventare le insidie».
Pure l’Eucologio (= raccolta di preghiere) del vescovo egiziano Serapione di Tmuis (sec. IV): «Noi preghiamo te, che hai ogni forza e potenza, salvatore di tutti gli uomini.., te ne supplichiamo, dal cielo del tuo Figlio unico si spanda su quest’olio potere di guarigione, affinché per coloro che riceveranno l’unzione... queste tue creature distruggano ogni male e ogni infermità.., rechino la grazia e la remissione dei peccati, il rimedio della vita e della salvezza, la salute e l’integrità dell’anima, del corpo e della mente, e la pienezza della forza»[1].
Queste idee si sono mantenute nella preghiera di benedizione dell’olio degli infermi, che il vescovo consacra il Giovedì santo. Anche nelle preghiere che hanno accompagnato e fatto seguito all’unzione degli infermi nel rito fin qui in uso, il sollievo corporale e spirituale e la guarigione hanno un ruolo essenziale.
Tra i formulari latini della benedizione dell’olio per gli infermi, uno, almeno, è anteriore al secolo VIII: è la preghiera romana, quella che, malgrado diverse modifiche del suo testo, è rimasta in uso fino ai nostri giorni e figura ancora, un po’ ritoccata, nell’Ordo benedicendi oleum... del 1971 e nell’Ordo unctionis... del 1972. Essa si trovava già nel Sacramentario gelasiano (Ge 382) e nel Sacramentario gregoriano (Gr 334): e quest’ultimo che sembra darne il testo originale; A. Chavasse crede anche di poter datarlo attorno al V sec. o alla fine del IV: «O Signore, manda dall’alto dei cieli lo Spirito Santo, il Paraclito, in questo grasso dell’olivo, che ti sei degnato di trarre da quest’albero vigoroso in vista di sollevare i nostri corpi, affinché, con la tua santa benedizione, diventi per chiunque si unge... (in Ge c’è un aggiunta: gustandi = lo beve) o se l’applica, un rimedio del corpo, che vi scacci ogni sorta di dolore, di debolezza, di malattia, l’olio col quale hai unto i sacerdoti, i re, i profeti ed i martiri, il tuo buon olio che tu hai benedetto, Signore, e che rimane in noi, in nome del nostro Signore Gesù Cristo»[2]
2. Breve «excursus» storico
Tralascio la storia di questo sacramento in Oriente cristiano e passo subito alla sua storia nella Chiesa Latina a partire dal sec. VII.
E’ proprio nella seconda metà di questo secolo che inizia nella Chiesa il periodo d’organizzazione dei rituali riguardanti la cura degli infermi. I primi sacramentari romani non segnalano, per la verità, né imposizione delle mani, né unzione. Essi offrono solo, nei supplementi che hanno ricevuto in quel tempo, una raccolta di ‘orazioni’ il cui raggruppamento influirà sugli sviluppi ulteriori.
Se uno volesse conoscere la formazione e sviluppo del rituale degli infermi rimando ai numerosi studi. Si dovrebbe inoltre prendere in considerazione alcuni Sacramentari: Sacramentario d’Adriano, Gelasiano antico, i Gelasiani del sec. VIII, i vari supplementi (ad es quello Carolingio)...
E’ importante il Supplemento appena citato (al Sacramentario d’Adriano): in esso il rituale degli infermi è collocato dopo la Riconciliazione dei penitenti il giovedì santo e seguito allo stesso modo dalla Reconciliatio paenitentis ad mortem e dalla liturgia della morte (Gr 1386-1395). Ma la riforma carolingia non permette più che i fedeli stessi usino l’olio per gli infermi; perciò i sacramentari del IX sec, inseriscono l’unzione sacramentale e spesso un’imposizione delle mani in mezzo a questi testi.
I libri, soprattutto monastici, vi aggiungono delle antifone, dei salmi, delle litanie, degli inni che costituiscono un ufficio da celebrare in chiesa oppure presso l’infermo secondo tutto un rituale talvolta con la presenza di più sacerdoti.. Il rito inizia normalmente con l’aspersione dell’acqua benedetta e comporta la confessione, qualche volta le preghiere della riconciliazione ad mortem la comunione ed una benedizione dell’infermo.
Nell’area celtica, la visita all’infermo e l’unzione danno luogo ad una missa sicca comportante preghiere, lettura, professione di fede, preghiere prima e dopo la comunione.
Il Pontificale compilato verso il 950 nell’Abbazia Sant’Albano di Magonza e destinato a diffondersi rapidamente in tutta la Chiesa latina propone due grandi rituali degli infermi: l’uno, Ordo ad visitandum et unguendum infirmum, non comporta unzione, nonostante il titolo: consiste, dopo il saluto iniziale dei sacerdoti, nell’aspersione ed incensazione, nel canto dei salmi penitenziali, in una litania, in capitella di versetti di salmi, in quattro orazioni, poi ancora in un Salmo - il 142 -, seguito sempre da capitella e quattordici formule di benedizione dell’infermo[3]. L’altro Ordo ad unguendum infirmum inserisce i riti sacramentali in una celebrazione meno prolissa: l’infermo deve essersi già confessato; si inizia con l’aspersione e l’orazione Deus qui per apostolum; poi si cantano i due salmi 6 e 49 con la relativa antifona; tutti i sacerdoti impongono le mani sull’infermo; si canta il Salmo 119 con la sua antifona, seguito da due orazioni; è allora che hanno luogo le unzioni (perunguant singuli sacerdotes...); si canta l’inno Christe, caelestis medicina Patris; in seguito l’Ordo propone cinque orazioni. Poi l’infermo comunica sotto le due specie; quindi si dicono ancora tre orazioni. Senza soluzione di continuità, il Pontificale aggiunge delle formule d’assoluzione ed altre orazioni che dovrebbero trovare posto dopo la confessione, poi quattro formule di benedizione dell’infermo da parte del vescovo, se è presente, oppure da parte dei sacerdoti[4].
E’ negli ambienti soprattutto monastici che i riti sull’infermo, nei sec. IX-X, hanno raggiunto queste proporzioni che sono quasi paragonabili a quelle degli eucologi orientali. Tutto lo sforzo dei secoli seguenti mirerà a ridurre questa esuberanza ed a mettere un certo ordine nel seguito dei riti.
A differenza delle altre Chiese, Roma riservava la benedizione dell’olio degli infermi alla solenne messa crismale del giovedì santo presieduta dal vescovo; progressivamente, la disciplina romana s’è estesa a tutto l’Occidente.
I primi rituali della visita agli infermi che segnalano l’unzione sono forse quelli che provengono dalla Spagna o dall’Irlanda. Il rituale ispanico si limita ad annunciare una rubrica. Gli ordines irlandesi propongono la formula: Ungo te de oleo sanctificato in nomine Trinitatis ut salveris in saecula saeculorum.
Una grande diversità regnerà almeno per due secoli, tanto sul numero delle unzioni quanto sulle formule che le accompagnano, diversità che le rubriche dei manoscritti del IX sec, talvolta attestano.
Bisogna notare che quasi sempre i rituali prescrivono, oltre alle unzioni, un’imposizione delle mani, sottolineata dalla preghiera che l’accompagna.
Essa riveste una particolare importanza nella liturgia ambrosiana.
Dobbiamo ora affrontare il passaggio dall’Unzione degli Infermi alla cosiddetta «Estrema Unzione».
Diverse cause hanno progressivamente portato a dare il sacramento dell’unzione non più in vista della guarigione d’un infermo, ma per preparare un cristiano alla morte. E’ certamente prima di tutto dovuto al semplice fatto della vicinanza, nei libri liturgici e già nei Sacramentari gelasiani del sec. VIII, del rituale dell’unzione a quello della penitenza ad mortem ed a quello della Commendatio animae. In seguito è stato più fortemente accentuato l’effetto penitenziale dell’unzione. La penitenza ad mortem dipendeva dalla disciplina dell’antica penitenza pubblica, cioè il penitente, anche dopo aver ricevuto la riconciliazione, doveva osservare fino alla morte le rigorose conseguenze, specialmente l’astensione dai rapporti coniugali e l’astinenza dalla carne. Quando la penitenza ad mortem perse questo carattere e fu sostituita dalla penitenza privata, l’unzione unì le preghiere e le particolarità che la prima comportava. Ecco perché si vede comparire nei rituali e specialmente in un Pontificale romano dei XII sec. il seguente dialogo[5]: «Il sacerdote dice all’infermo: “Perché mi hai chiamato, o fratello?” – “Perché tu mi dia l’unzione”. Allora il sacerdote dice: “Nostro Signore ti dia un’unzione vera e facile; ma se il Signore volge su di te il suo sguardo e ti guarisce, la custodirai?” Risposta: “Sì, la custodirò”».
Il sacerdote benedice allora un cilicio e delle ceneri; mescola delle ceneri con l’acqua benedetta e ne asperge l’infermo, poi gli impone il cilicio. Le formule che accompagnano questi riti tuttavia invocano sempre la guarigione. La comunione eucaristica, che faceva parte di tutti i rituali della preghiera per gli infermi, diventa chiaramente il viatico.
Si noterà che le espressioni extrema unctio o unctio exeuntium che, a partire dal XII sec., saranno usate dai teologi e dai canonisti, non figurano affatto nei rituali prima del XV sec.
Dobbiamo toccare ora il tema del Rituale abbreviato che fu praticamente in vigore dal XIII al XX sec.
Mentre le Chiese utilizzavano ancora il lungo ordo degli infermi diffuso tramite il Pontificale romano-germanico, le Consuetudines cluniacenses (secc. XI-XII) proponevano già un rituale molto abbreviato e più logico. Poiché l’infermo s’era confessato in precedenza, dopo il saluto Pax huic domui, l’incensazione e l’aspersione, il sacerdote dice l’orazione Omnipotens sempiterne Deus qui per beatum apostolum... Poi, mentre la comunità canta i salmi con le loro antifone, il sacerdote fa le unzioni sui cinque sensi. Poi prende dalla chiesa il corpo di Cristo per comunicare l’infermo[6]. L’influenza di questo rituale di Cluny, diffuso tramite il testo dei suoi consuetudinari attraverso tutta l’Europa, si fa sentire sul Pontificale della Curia romana, soprattutto nella recensione ‘lunga’ della metà del XIII sec.
E’ in questo ultimo stato che i Francescani adottano e popolarizzano, abbreviandolo ulteriormente, l’ordo dell’unzione degli infermi[7]. Con alcune varianti, esso ormai sfiderà i secoli: accolto nel XVI sec. nel Rituale di Alberto Castellani (1523)[8] e dal cardinale G.A. Santori (fine XVI sec.)[9] passò nel Rituale di Pio V (1614) e conoscerà una sola modifica notevole nell’edizione del 1925. Le principali varianti riguardano il posto dell’aspersione, della confessione e soprattutto della comunione ma anche di certe preghiere. Dopo aver rivolto il saluto, il sacerdote dice tre orazioni che provengono dal Pontificale della Curia: Introeat Domine, Oremus et deprecemur, Exaudi nos Domine. Mentre il sacerdote compie le unzioni, coloro che assistono sono invitati a dire i sette salmi penitenziali. Le unzioni sono nel numero di sette, una delle quali ai lombi, che scomparirà definitivamente nel 1917 (can. 946§2) ed una ai piedi, che poi cesserà d’essere obbligatoria (can. 947§3). Le unzioni sono precedute da una formula: «In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti extinguatur in te omnis virtus diaboli…», destinata evidentemente all’imposizione delle mani (per impositionem manuum mearum), ma le rubriche medioevali hanno spesso omesso il gesto (o piuttosto utilizzavano la formula per fare un’unzione ad caput), seguite in ciò dal Rituale del 1614; sarà invece ristabilito dal Rituale del 1925. Dopo le unzioni, il Pater e dei capitella di versetti di salmi introducono tre orazioni: Domine Deus qui per apostolum, che si trovava già, come abbiamo visto, nei sacramentari del IX sec., poi Respice quaesumus Domine, proveniente dal Sacramentario d’Adriano e Dominus sancte Pater... qui benedictionis tuae gratiam del Gelasiano.
Il rituale francescano aveva fatto sparire tutte le reminiscenze della penitenza ad mortem. L’ordo ad communicandum infirmum è rimasto distinto dall’ordo dell’unzione e, per un certo tempo, collocato dopo di esso; poi, senza che se ne capisca il motivo, a partire dalla fine del XIV sec. in certi manoscritti lo precede. Alla fine del XVI sec. si arriva all’uso di dare prima la comunione e poi l’estrema unzione. Questo modo di fare, benché contrario all’uso antico è diventato universale nella Chiesa: anomalia che sarà soppressa solo dopo il Vaticano II.
Il Rituale del 1614 ha creato, inoltre, un ordo della visita agli infermi, completamente distinto dall’ordo dell’unzione. Esso costituisce un raggruppamento originale di salmi, di letture e di orazioni che non ha equivalenti negli antichi libri liturgici. Infatti comporta quattro serie, con una pericope evangelica, per ciascuna un’orazione ed un salmo. Questo ordo, utilizzando le liste tradizionali di salmi e di orazioni dei sacramentari e del Pontificale romano-germanico, non può che essere stato composto a Roma, perché la scelta delle letture evangeliche sembra ispirata all’ufficio votivo romano pro infirmis.
3. Concilio Vaticano II ed il Rituale di Paolo VI
a) «Unzione degli Infermi» piuttosto che «Estrema Unzione»
Si sa, stando alla storia dei dibattiti del Concilio di Trento, che l’insegnamento della XIV sessione sul sacramento dell’estrema unzione, segnava, da parte dei Padri, la volontà di prendere le distanze dalla teologia medioevale ed il rifiuto di vedere nell’estrema unzione il sacramento di coloro che stanno per morire. Approfittando della maggior luce proiettata sulla tradizione di questo sacramento da parte degli studi patristici e liturgici, il Concilio Vaticano II ha potuto fare un passo in avanti. Senza rinnegare il termine medioevale di «estrema unzione», ha affermato la sua preferenza per quello di «unzione degli infermi» (SC 73). A due riprese, ha suggerito che ivi non si trattava solo di un problema di vocabolario: «Perciò il tempo di riceverla (l’unzione degli infermi) si ha certamente già quando il fedele, per malattia o per vecchiaia, incomincia ad essere in pericolo di morte» (SC 73, LG 11).
b) Il segno sacramentale
Il rituale latino, nel suo insieme, era certamente rimasto fedele alla dottrina della Lettera di S. Giacomo, che citava sempre; ma la formula che accompagnava ogni unzione esprimeva solo uno degli effetti del sacramento: la remissione dei peccati; e le unzioni, applicate agli organi dei sensi, avevano preso un aspetto soprattutto penitenziale. La prima e più importante riforma apportata dalla Costituzione di Paolo VI del 30 novembre 1972 Sacram unctionem in applicazione del Concilio[10] è consistita precisamente nel modificare la formula sacramentale con delle espressioni che ricordavano il testo di Giacomo e quello di Trento: «Per istam sanctam unctionem et suam piissimam misericordiam adiuvet te Dominus gratia Spiritus sancti, ut a peccatis liberatum te salvet atque propitius allevet» (= Per questa santa unzione e per la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo, e liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi). E ciò ricorda due notevoli prospettive tradizionali: la prima, è che la grazia data è opera dello Spirito Santo, come l’hanno sempre professato le formule delle liturgie antiche, specialmente la preghiera romana di benedizione dell’olio; la seconda, è che il sacramento dell’unzione è un rimedio per l’anima e per il corpo: anche se ha un effetto penitenziale al punto di supplire alla penitenza, quando questa è impossibile, il sacramento apporta soprattutto una grazia di salvezza, di conforto, di sollievo, talvolta anche di guarigione.
Il cambiamento della formula delle unzioni s’accompagna a due altre decisioni concernenti il segno sacramentale. L’una ha di mira il numero delle unzioni: infatti il Concilio Vaticano II aveva espresso il voto che «il numero delle unzioni fosse adattato secondo che parrà opportuno» (SC 75). Tra la molteplicità delle unzioni prevista dal rituale ereditato dal Medio Evo ed il segno ridotto ad una sola unzione nel caso di necessità, è stata cercata una via di mezzo. Il rito comprenderà ormai due unzioni: sulla fronte e sulle mani, ma con un’unica formula. I rituali particolari potranno d’altronde conservare o introdurre delle unzioni più numerose o applicate in modo diverso, a seconda del genio dei diversi popoli (cf. Praenotanda, 24).
L’altra decisione di Paolo VI risponde alla preoccupazione delle Conferenze episcopali dei Paesi del Terzo Mondo: benché l’olio d’oliva sia stato tradizionalmente obbligatorio come materia dell’unzione degli infermi perché corrisponde all’uso biblico che gli conferisce il suo simbolismo sacramentale di rimedio, di lenimento, tuttavia ormai si ammetterà che, se occorre, si utilizzi un altro olio, purché sia di origine vegetale.
c) Il nuovo Rituale
A questi cambiamenti che esigevano l’intervento del papa, il nuovo Rituale Romanum…., Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, ed. typica, Typis polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1972, promulgato il 7 dicembre 1972 aggiunge delle disposizioni liturgiche importanti.
S’è visto, poco più indietro, che in Oriente e talvolta in Occidente, il sacramento degli infermi ha dato luogo ad una concelebrazione. Il nuovo Rituale prevede che qualora siano presenti più sacerdoti, benché uno solo faccia le unzioni con la rispettiva formula, ciascuno degli altri sacerdoti interverrà per l’imposizione delle mani e si potranno dividere le preghiere di preparazione e di conclusione (Praenotanda, 19).
Poiché la benedizione dell’olio degli infermi non è mai stata riservata al vescovo come invece lo fu strettamente la confezione del crisma, il nuovo Rituale, pur mantenendo il principio che, in via normale, il sacerdote deve servirsi dell’olio benedetto dal vescovo nella Messa Crismale, prevede «il caso di vera necessità» in cui il sacerdote potrebbe benedire l’olio durante lo stesso rito dell’unzione (Praenotanda, 21; Ordo benedicendo oleum infirmorum…, 8; CIC can 999§2). Al di fuori di questo caso, prima di fare le unzioni, una preghiera d’azione di grazie sull’olio benedetto ne esprimerà il simbolismo sacramentale.
Il gesto tradizionale dell’imposizione della mano, ristabilito nel 1925, assume un rilievo maggiore nel nuovo Ordo. E’ compiuto in silenzio; pur non essendo essenziale, esso è parte integrante del rito (Praenotanda, 5), secondo il modello fornito dalla Lettera di Giacomo.
L’Ordo del 1972 consiglia, tutte le volte che è possibile, l’inserimento del sacramento in una celebrazione liturgica più completa: saluto del sacerdote ed aspersione, monizione catechetica - o meglio, l’orazione tradizionale, ma abbreviata, Domine Deus qui per apostolum (Praenotanda, 239) - atto penitenziale (o, se ha luogo, confessione sacramentale dell’infermo), lettura della Sacra Scrittura, per la quale l’Ordo propone un’abbondante scelta di testi, preghiera litanica; dopo l’imposizione delle mani e le unzioni, una preghiera conclusiva, il Pater e la benedizione.
L’Ordo prevede pure che l’insieme del rito sia eventualmente compiuto nel corso della Messa e soprattutto descrive ed incoraggia «la celebrazione dell’Unzione in una grande assemblea di fedeli» (Praenotanda, 83-92), cosa che si fa, per esempio, nei luoghi di pellegrinaggio o nel corso di una giornata dedicata agli infermi e ciò con evidente beneficio spirituale: queste celebrazioni danno a delle persone seriamente malate o molto avanti nell’età il mezzo di consacrare la loro condizione, di unirsi alle sofferenze di Cristo e di ricevere le grazie di cui hanno bisogno nella loro prova; a tutti quelli che partecipano, esse fanno scoprire la vera natura di questo sacramento.
Infine, come si auspicava il Concilio Vaticano II (SC 74) l’Ordo del 1972, nei casi di necessità, propone un «Rito continuo della penitenza, dell’unzione e del viatico», ristabilendoli nel loro ordine logico ed evitando i doppioni.
Si rileggano spesso i Praenotanda, poiché iniziano con un riassunto dottrinale sul significato della malattia nell’economia della salvezza, contengono una breve catechesi del sacramento ed inseriscono la sua celebrazione nella prospettiva più larga d’una pastorale degli infermi, di cui, insieme col sacerdote, è responsabile tutta quanta la comunità cristiana (Praenotanda, 1-7; 32-37; 42-45).
4. Chi riceve e chi amministra questo Sacramento? (CCC 1514-1526)
Bisogna soprattutto sottolineare che il sacramento dell’Unzione degli infermi “non è il sacramento di coloro soltanto che sono in fin di vita. Perciò il tempo opportuno per riceverla si ha certamente già quando il fedele, per malattia o per vecchiaia, incomincia ad essere in pericolo di morte” (SC 73; CIC 1004§1; 1005; 1007).
Se un malato che ha ricevuto l’Unzione riacquista la salute, può, in caso di un’altra grave malattia, ricevere nuovamente questo sacramento. Nel corso della stessa malattia il sacramento può essere ripetuto se si verifica un peggioramento. E’ opportuno ricevere l’Unzione degli infermi prima di un intervento chirurgico rischioso. Lo stesso vale per le persone anziane la cui debolezza si accentua (cf. CCC 1515).
Per quanto riguarda il ministro di questo Sacramento: soltanto i sacerdoti (vescovi e presbiteri) sono i ministri dell’Unzione degli infermi (cf. DS 1697; CIC 1003; CCC 1516).
5. Pastorale profetica d’evangelizzazione nel mondo dei malati
La Chiesa ha il dovere di condurre una pastorale profetica che denunci le ingiustizie, annunci la salvezza e mantenga la speranza mediante la proclamazione della Buona Novella e la fede profonda nel Vangelo. Questo comporta la parola e i segni o testimonianze. Quanto alla parola, occorre annunciarla, ma è molto difficile annunciarla in maniera credibile in quella situazione. Il nostro linguaggio risulta spesso nuovo all’infermo, lontano e strano. Tra i molti consigli che potrei darvi al riguardo, segnalo i seguenti:
- Accettazione positiva dell’altro. Il primo atteggiamento per un incontro è l’accettazione dell’alterità. Accettare l’altro significa riconoscerlo e accoglierlo come è, senza prevenzioni, senza riduzionismi. Significa inoltre, quali che siano la sua vita, la sua situazione, la sua malattia, dargli la nostra stima gratuita e sincera.
- Il rispetto e l’accettazione del suo insegnamento. Il malato sta facendo un’esperienza unica e irripetibile. Merita rispetto e ammirazione, escludendo ogni atteggiamento discriminatorio. Quando siamo convinti che è più quello che possiamo imparare che quello che possiamo insegnargli, allora potremo iniziare a offrirgli qualcosa.
- La capacità di stare in silenzio. Non possiamo considerarci come «saggi consiglieri» «specialisti per situazioni difficili», «portatori dell’ultima parola su Dio e sull’uomo». Davanti al dolore, molte volte l’unica parola è il silenzio. Quando si riesce a stare davanti all’altro in silenzio senza arrossire o impazientirsi è segno che c’è comprensione e fiducia.
- L ‘ascolto e la comprensione. Colui che è ascoltato sinceramente trova la possibilità di comunicarsi e di incontrarsi con se stesso. Saper ascoltare significa: rinunciare a mettersi al centro della conversazione; non prendere l’atteggiamento di giudice che esamina la verità delle parole dell’altro; sforzarsi di comprendere quello che l’altro dice, pensa o vive; essere disposto a non rifiutare l’immagine che l’altro dà di se stesso; condividere la sua angoscia per attenuarla, o la sua gioia per completarla.
- L’autenticità della parola. Le parole bugiarde sono dannose, occorrono parole sincere. Quando si parla con il malato non si deve mentire. Affinché l’incontro sia veritiero è indispensabile che le nostre parole siano autentiche.
Questa parola deve essere accompagnata dai segni: la testimonianza, il servizio disinteressato, l’amore e la sollecitudine. Solo allora l’evangelizzatore diventa «segno» che rivela, memoriale che ricorda, chiamata che provoca. Se all’incontro umano sincero, che è già una testimonianza, uniamo la nostra azione e la nostra lotta perché le istituzioni, le strutture, i mezzi e il comportamento con gli infermi siano più giusti e umani, avremo messo le basi per un incontro col Vangelo nell’autenticità della fede. Come per il buon samaritano, non bastano le parole, occorrono i fatti che, senza dimenticare nessuna categoria di infermi (anziani, menomati, cronici, ricoverati, bambini...), curino in modo speciale i più soli e abbandonati, i più bisognosi di mezzi e i più umili.
6. Visita e comunione dei malati
Tra i segni più chiaramente cristiani per gli infermi ci sono la visita intesa come azione caritativa-liturgica e la comunione come aiuto eucaristico e vincolo comunitario.
a) La visita agli infermi
Costituisce un elemento integrante essenziale della pastorale degli infermi e la forma più classica di continuare la missione e il ministero di Cristo, testimoniando la carità. Fin dal principio la Chiesa si sentì obbligata dalle parole di Gesù: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25, 36). Questa visita non si deve intendere come un incontro di protocollo o dell’ultimo momento, ma come un’azione permanente della comunità sollecita verso gli infermi. Quando si cerca di fare tutto quello che si può per sollevare lo spirito e il corpo di chi soffre si compie la parola di Cristo; il quale riferendosi al malato, intende l’uomo nell’integralità del suo essere umano: chi quindi visita il malato, deve recargli sollievo nel fisico e conforto nello spirito.
Ma se questa è l’intenzione, si deve dire che la responsabilità è di tutta la Chiesa, di tutti e di ciascuno dei figli, come si legge nelle Premesse: «Si ricordino i sacerdoti, e soprattutto i parroci ... che è loro dovere visitare personalmente e con premurosa frequenza i malati e aiutarli con senso profondo di carità» (35). La visita agli infermi ha dunque lo scopo di confortarli, di animarli, attenti alle loro necessità fisiche, materiali, psicologiche e spirituali. È un’azione che spetta a tutti i membri della comunità, inquadrata nel servizio e nella sollecitudine di Cristo stesso e della Chiesa verso gli infermi.
D’altra parte, la visita agli infermi è stata ed è intesa dalla Chiesa come azione liturgica in vari sensi: è un esercizio del sacerdozio sia ministeriale che universale, un servizio di mediazione; in essa si offre una parola di fede più o meno esplicita che li invita a unirsi a Cristo sofferente e a riflettere (Premesse, 7); stimola alla preghiera e ai sacramenti, talvolta a una preghiera comunitaria, come la celebrazione della Parola: colloquio, lettura o commento, salmo, preghiera, benedizione e imposizione delle mani (Premesse, 36).
E’ evidente che il Rituale dà questo carattere alla visita non solo per il momento in cui la situa, ma anche per gli elementi che vi include. Lo stesso senso teologico di questa azione mette in rilievo la sua dimensione anamnetica, attualizzante e salvifica come se si trattasse di un sacramento esistenziale. Perché della visita dobbiamo dire che è: una continuazione e realizzazione della missione che Cristo ha affidato alla Chiesa; un segno della presenza liberatrice di Cristo, che attraverso gli uomini continua la lotta contro la malattia offrendo a chi soffre una parola di conforto e di speranza; un gesto di solidarietà e di servizio nella carità o di offerta della Chiesa per gli altri; un preludio sacramentale della stessa celebrazione dei sacramenti; un impegno per un compimento più sincero e autentico della missione con i malati.
b) La comunione dei malati
Si deve affermare subito che l’Eucaristia non è un sacramento specifico della malattia, ma essendo il sacramento per eccellenza della vita cristiana, lo è anche nei momenti di malattia. Non si tratta di un’azione sporadica, ma di un servizio permanente che la comunità ha l’obbligo di prestare e gli infermi hanno diritto di ricevere (non solo in vista di Pasqua o Natale!!!). La comunione eucaristica è parte importante della pastorale dei malati nella Chiesa. Così l’intese anche la Chiesa primitiva, che introdusse l’abitudine di conservare le specie eucaristiche proprio perché i malati potessero partecipare all’Eucaristia[11]. Così l’intese la Chiesa lungo la sua storia e così lo intende oggi quando chiede ai pastori di facilitare al massimo l’accesso dei malati e degli anziani all’Eucaristia, anche se il loro stato non è grave e non sono in pericolo di morte (Premesse, 46) e quando, per facilitare la comunione, permette che i laici possano portarla ai malati in determinate condizioni[12].
Purtroppo, oggi, questo ministero è talvolta trascurato o per indolenza, o per mancanza di tempo; o per riserve sacramentaliste dei sacerdoti; altre volte per paura, trascuratezza e dimenticanza dei malati. Non mancano neppure atteggiamenti di poca stima o concezioni magiche del rito. Nondimeno, la comunione agli infermi ha il suo pieno significato e valore, e dovrebbe occupare un posto importante in questa pastorale. Perciò si deve tenere conto di quanto segue:
b) Il segno sacramentale
Il rituale latino, nel suo insieme, era certamente rimasto fedele alla dottrina della Lettera di S. Giacomo, che citava sempre; ma la formula che accompagnava ogni unzione esprimeva solo uno degli effetti del sacramento: la remissione dei peccati; e le unzioni, applicate agli organi dei sensi, avevano preso un aspetto soprattutto penitenziale. La prima e più importante riforma apportata dalla Costituzione di Paolo VI del 30 novembre 1972 Sacram unctionem in applicazione del Concilio[10] è consistita precisamente nel modificare la formula sacramentale con delle espressioni che ricordavano il testo di Giacomo e quello di Trento: «Per istam sanctam unctionem et suam piissimam misericordiam adiuvet te Dominus gratia Spiritus sancti, ut a peccatis liberatum te salvet atque propitius allevet» (= Per questa santa unzione e per la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo, e liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi). E ciò ricorda due notevoli prospettive tradizionali: la prima, è che la grazia data è opera dello Spirito Santo, come l’hanno sempre professato le formule delle liturgie antiche, specialmente la preghiera romana di benedizione dell’olio; la seconda, è che il sacramento dell’unzione è un rimedio per l’anima e per il corpo: anche se ha un effetto penitenziale al punto di supplire alla penitenza, quando questa è impossibile, il sacramento apporta soprattutto una grazia di salvezza, di conforto, di sollievo, talvolta anche di guarigione.
Il cambiamento della formula delle unzioni s’accompagna a due altre decisioni concernenti il segno sacramentale. L’una ha di mira il numero delle unzioni: infatti il Concilio Vaticano II aveva espresso il voto che «il numero delle unzioni fosse adattato secondo che parrà opportuno» (SC 75). Tra la molteplicità delle unzioni prevista dal rituale ereditato dal Medio Evo ed il segno ridotto ad una sola unzione nel caso di necessità, è stata cercata una via di mezzo. Il rito comprenderà ormai due unzioni: sulla fronte e sulle mani, ma con un’unica formula. I rituali particolari potranno d’altronde conservare o introdurre delle unzioni più numerose o applicate in modo diverso, a seconda del genio dei diversi popoli (cf. Praenotanda, 24).
L’altra decisione di Paolo VI risponde alla preoccupazione delle Conferenze episcopali dei Paesi del Terzo Mondo: benché l’olio d’oliva sia stato tradizionalmente obbligatorio come materia dell’unzione degli infermi perché corrisponde all’uso biblico che gli conferisce il suo simbolismo sacramentale di rimedio, di lenimento, tuttavia ormai si ammetterà che, se occorre, si utilizzi un altro olio, purché sia di origine vegetale.
c) Il nuovo Rituale
A questi cambiamenti che esigevano l’intervento del papa, il nuovo Rituale Romanum…., Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, ed. typica, Typis polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1972, promulgato il 7 dicembre 1972 aggiunge delle disposizioni liturgiche importanti.
S’è visto, poco più indietro, che in Oriente e talvolta in Occidente, il sacramento degli infermi ha dato luogo ad una concelebrazione. Il nuovo Rituale prevede che qualora siano presenti più sacerdoti, benché uno solo faccia le unzioni con la rispettiva formula, ciascuno degli altri sacerdoti interverrà per l’imposizione delle mani e si potranno dividere le preghiere di preparazione e di conclusione (Praenotanda, 19).
Poiché la benedizione dell’olio degli infermi non è mai stata riservata al vescovo come invece lo fu strettamente la confezione del crisma, il nuovo Rituale, pur mantenendo il principio che, in via normale, il sacerdote deve servirsi dell’olio benedetto dal vescovo nella Messa Crismale, prevede «il caso di vera necessità» in cui il sacerdote potrebbe benedire l’olio durante lo stesso rito dell’unzione (Praenotanda, 21; Ordo benedicendo oleum infirmorum…, 8; CIC can 999§2). Al di fuori di questo caso, prima di fare le unzioni, una preghiera d’azione di grazie sull’olio benedetto ne esprimerà il simbolismo sacramentale.
Il gesto tradizionale dell’imposizione della mano, ristabilito nel 1925, assume un rilievo maggiore nel nuovo Ordo. E’ compiuto in silenzio; pur non essendo essenziale, esso è parte integrante del rito (Praenotanda, 5), secondo il modello fornito dalla Lettera di Giacomo.
L’Ordo del 1972 consiglia, tutte le volte che è possibile, l’inserimento del sacramento in una celebrazione liturgica più completa: saluto del sacerdote ed aspersione, monizione catechetica - o meglio, l’orazione tradizionale, ma abbreviata, Domine Deus qui per apostolum (Praenotanda, 239) - atto penitenziale (o, se ha luogo, confessione sacramentale dell’infermo), lettura della Sacra Scrittura, per la quale l’Ordo propone un’abbondante scelta di testi, preghiera litanica; dopo l’imposizione delle mani e le unzioni, una preghiera conclusiva, il Pater e la benedizione.
L’Ordo prevede pure che l’insieme del rito sia eventualmente compiuto nel corso della Messa e soprattutto descrive ed incoraggia «la celebrazione dell’Unzione in una grande assemblea di fedeli» (Praenotanda, 83-92), cosa che si fa, per esempio, nei luoghi di pellegrinaggio o nel corso di una giornata dedicata agli infermi e ciò con evidente beneficio spirituale: queste celebrazioni danno a delle persone seriamente malate o molto avanti nell’età il mezzo di consacrare la loro condizione, di unirsi alle sofferenze di Cristo e di ricevere le grazie di cui hanno bisogno nella loro prova; a tutti quelli che partecipano, esse fanno scoprire la vera natura di questo sacramento.
Infine, come si auspicava il Concilio Vaticano II (SC 74) l’Ordo del 1972, nei casi di necessità, propone un «Rito continuo della penitenza, dell’unzione e del viatico», ristabilendoli nel loro ordine logico ed evitando i doppioni.
Si rileggano spesso i Praenotanda, poiché iniziano con un riassunto dottrinale sul significato della malattia nell’economia della salvezza, contengono una breve catechesi del sacramento ed inseriscono la sua celebrazione nella prospettiva più larga d’una pastorale degli infermi, di cui, insieme col sacerdote, è responsabile tutta quanta la comunità cristiana (Praenotanda, 1-7; 32-37; 42-45).
4. Chi riceve e chi amministra questo Sacramento? (CCC 1514-1526)
Bisogna soprattutto sottolineare che il sacramento dell’Unzione degli infermi “non è il sacramento di coloro soltanto che sono in fin di vita. Perciò il tempo opportuno per riceverla si ha certamente già quando il fedele, per malattia o per vecchiaia, incomincia ad essere in pericolo di morte” (SC 73; CIC 1004§1; 1005; 1007).
Se un malato che ha ricevuto l’Unzione riacquista la salute, può, in caso di un’altra grave malattia, ricevere nuovamente questo sacramento. Nel corso della stessa malattia il sacramento può essere ripetuto se si verifica un peggioramento. E’ opportuno ricevere l’Unzione degli infermi prima di un intervento chirurgico rischioso. Lo stesso vale per le persone anziane la cui debolezza si accentua (cf. CCC 1515).
Per quanto riguarda il ministro di questo Sacramento: soltanto i sacerdoti (vescovi e presbiteri) sono i ministri dell’Unzione degli infermi (cf. DS 1697; CIC 1003; CCC 1516).
5. Pastorale profetica d’evangelizzazione nel mondo dei malati
La Chiesa ha il dovere di condurre una pastorale profetica che denunci le ingiustizie, annunci la salvezza e mantenga la speranza mediante la proclamazione della Buona Novella e la fede profonda nel Vangelo. Questo comporta la parola e i segni o testimonianze. Quanto alla parola, occorre annunciarla, ma è molto difficile annunciarla in maniera credibile in quella situazione. Il nostro linguaggio risulta spesso nuovo all’infermo, lontano e strano. Tra i molti consigli che potrei darvi al riguardo, segnalo i seguenti:
- Accettazione positiva dell’altro. Il primo atteggiamento per un incontro è l’accettazione dell’alterità. Accettare l’altro significa riconoscerlo e accoglierlo come è, senza prevenzioni, senza riduzionismi. Significa inoltre, quali che siano la sua vita, la sua situazione, la sua malattia, dargli la nostra stima gratuita e sincera.
- Il rispetto e l’accettazione del suo insegnamento. Il malato sta facendo un’esperienza unica e irripetibile. Merita rispetto e ammirazione, escludendo ogni atteggiamento discriminatorio. Quando siamo convinti che è più quello che possiamo imparare che quello che possiamo insegnargli, allora potremo iniziare a offrirgli qualcosa.
- La capacità di stare in silenzio. Non possiamo considerarci come «saggi consiglieri» «specialisti per situazioni difficili», «portatori dell’ultima parola su Dio e sull’uomo». Davanti al dolore, molte volte l’unica parola è il silenzio. Quando si riesce a stare davanti all’altro in silenzio senza arrossire o impazientirsi è segno che c’è comprensione e fiducia.
- L ‘ascolto e la comprensione. Colui che è ascoltato sinceramente trova la possibilità di comunicarsi e di incontrarsi con se stesso. Saper ascoltare significa: rinunciare a mettersi al centro della conversazione; non prendere l’atteggiamento di giudice che esamina la verità delle parole dell’altro; sforzarsi di comprendere quello che l’altro dice, pensa o vive; essere disposto a non rifiutare l’immagine che l’altro dà di se stesso; condividere la sua angoscia per attenuarla, o la sua gioia per completarla.
- L’autenticità della parola. Le parole bugiarde sono dannose, occorrono parole sincere. Quando si parla con il malato non si deve mentire. Affinché l’incontro sia veritiero è indispensabile che le nostre parole siano autentiche.
Questa parola deve essere accompagnata dai segni: la testimonianza, il servizio disinteressato, l’amore e la sollecitudine. Solo allora l’evangelizzatore diventa «segno» che rivela, memoriale che ricorda, chiamata che provoca. Se all’incontro umano sincero, che è già una testimonianza, uniamo la nostra azione e la nostra lotta perché le istituzioni, le strutture, i mezzi e il comportamento con gli infermi siano più giusti e umani, avremo messo le basi per un incontro col Vangelo nell’autenticità della fede. Come per il buon samaritano, non bastano le parole, occorrono i fatti che, senza dimenticare nessuna categoria di infermi (anziani, menomati, cronici, ricoverati, bambini...), curino in modo speciale i più soli e abbandonati, i più bisognosi di mezzi e i più umili.
6. Visita e comunione dei malati
Tra i segni più chiaramente cristiani per gli infermi ci sono la visita intesa come azione caritativa-liturgica e la comunione come aiuto eucaristico e vincolo comunitario.
a) La visita agli infermi
Costituisce un elemento integrante essenziale della pastorale degli infermi e la forma più classica di continuare la missione e il ministero di Cristo, testimoniando la carità. Fin dal principio la Chiesa si sentì obbligata dalle parole di Gesù: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25, 36). Questa visita non si deve intendere come un incontro di protocollo o dell’ultimo momento, ma come un’azione permanente della comunità sollecita verso gli infermi. Quando si cerca di fare tutto quello che si può per sollevare lo spirito e il corpo di chi soffre si compie la parola di Cristo; il quale riferendosi al malato, intende l’uomo nell’integralità del suo essere umano: chi quindi visita il malato, deve recargli sollievo nel fisico e conforto nello spirito.
Ma se questa è l’intenzione, si deve dire che la responsabilità è di tutta la Chiesa, di tutti e di ciascuno dei figli, come si legge nelle Premesse: «Si ricordino i sacerdoti, e soprattutto i parroci ... che è loro dovere visitare personalmente e con premurosa frequenza i malati e aiutarli con senso profondo di carità» (35). La visita agli infermi ha dunque lo scopo di confortarli, di animarli, attenti alle loro necessità fisiche, materiali, psicologiche e spirituali. È un’azione che spetta a tutti i membri della comunità, inquadrata nel servizio e nella sollecitudine di Cristo stesso e della Chiesa verso gli infermi.
D’altra parte, la visita agli infermi è stata ed è intesa dalla Chiesa come azione liturgica in vari sensi: è un esercizio del sacerdozio sia ministeriale che universale, un servizio di mediazione; in essa si offre una parola di fede più o meno esplicita che li invita a unirsi a Cristo sofferente e a riflettere (Premesse, 7); stimola alla preghiera e ai sacramenti, talvolta a una preghiera comunitaria, come la celebrazione della Parola: colloquio, lettura o commento, salmo, preghiera, benedizione e imposizione delle mani (Premesse, 36).
E’ evidente che il Rituale dà questo carattere alla visita non solo per il momento in cui la situa, ma anche per gli elementi che vi include. Lo stesso senso teologico di questa azione mette in rilievo la sua dimensione anamnetica, attualizzante e salvifica come se si trattasse di un sacramento esistenziale. Perché della visita dobbiamo dire che è: una continuazione e realizzazione della missione che Cristo ha affidato alla Chiesa; un segno della presenza liberatrice di Cristo, che attraverso gli uomini continua la lotta contro la malattia offrendo a chi soffre una parola di conforto e di speranza; un gesto di solidarietà e di servizio nella carità o di offerta della Chiesa per gli altri; un preludio sacramentale della stessa celebrazione dei sacramenti; un impegno per un compimento più sincero e autentico della missione con i malati.
b) La comunione dei malati
Si deve affermare subito che l’Eucaristia non è un sacramento specifico della malattia, ma essendo il sacramento per eccellenza della vita cristiana, lo è anche nei momenti di malattia. Non si tratta di un’azione sporadica, ma di un servizio permanente che la comunità ha l’obbligo di prestare e gli infermi hanno diritto di ricevere (non solo in vista di Pasqua o Natale!!!). La comunione eucaristica è parte importante della pastorale dei malati nella Chiesa. Così l’intese anche la Chiesa primitiva, che introdusse l’abitudine di conservare le specie eucaristiche proprio perché i malati potessero partecipare all’Eucaristia[11]. Così l’intese la Chiesa lungo la sua storia e così lo intende oggi quando chiede ai pastori di facilitare al massimo l’accesso dei malati e degli anziani all’Eucaristia, anche se il loro stato non è grave e non sono in pericolo di morte (Premesse, 46) e quando, per facilitare la comunione, permette che i laici possano portarla ai malati in determinate condizioni[12].
Purtroppo, oggi, questo ministero è talvolta trascurato o per indolenza, o per mancanza di tempo; o per riserve sacramentaliste dei sacerdoti; altre volte per paura, trascuratezza e dimenticanza dei malati. Non mancano neppure atteggiamenti di poca stima o concezioni magiche del rito. Nondimeno, la comunione agli infermi ha il suo pieno significato e valore, e dovrebbe occupare un posto importante in questa pastorale. Perciò si deve tenere conto di quanto segue:
c) Comunione e vincolo con la comunità eucaristica
La comunione dell’infermo è un atto con il quale si manifesta il vincolo reciproco. Questo sarà più evidente: se anche la comunità prega, porta il suo conforto e i doni eucaristici ai malati; se anche il malato legge la Parola che i suoi fratelli proclamano nella Chiesa, se partecipa alla comunione, se apporta qualcosa all’Eucaristia sia egli stesso (nel caso che vi possa andare), o mediante gli altri (offerta, simbolo).
Questa partecipazione e questo vincolo esprimono il significato della comunione dell’infermo, cioè:
· L’unione a Cristo che, con la sua passione, morte e risurrezione, dà un senso al nostro dolore, e con il suo corpo e sangue ci dà la forza di superare le difficoltà della malattia.
· La solidarietà e fraternità cristiana, che si rendono visibili nel segno che meglio le esprime, poiché la comunione non unisce solo l’infermo alla comunità, ma anche la comunità dimostra la sua unione con lui.
d) Possibilità per una comunione significativa degli infermi
E’ evidente che la prima cosa da fare è avvisare il sacerdote della parrocchia, spiegandogli la situazione del malato, in modo che lo si possa visitare e portargli la comunione, se la desidera. È la comunione portata «in privato» dal sacerdote. Ma se nella comunità parrocchiale esiste un’équipe di responsabili del servizio ai malati, essi (o alcuni di essi) potrebbero essere inviati a distribuire la comunione ai malati alla fine dell’Eucaristia domenicale. Sarebbe un vero atto comunitario nel quadro della celebrazione eucaristica. È la comunione «comunitaria e pubblica» per i laici.
Una terza possibilità, quando le circostanze lo permettono e lo esigono, è che la comunione sia portata da qualcuno dei familiari dello stesso malato, il quale, dopo aver partecipato all’Eucaristia domenicale, o in altro momento opportuno, compie questo ministero, anche a nome dell’intera comunità e in relazione con l’Eucaristia[13].
Non è un rito privato, ma una vera celebrazione che prolunga quella eucaristica, e allora conviene che i parenti e altre persone vicine al malato partecipino anch’essi alla celebrazione. «Coloro che assistono l’infermo possono ricevere la santa comunione con lui, osservando le norme prescritte» (Premesse, 46). La celebrazione si deve svolgere secondo l’«ordo» stabilito dal rituale e con gli adattamenti che si ritengono opportuni. Le parti e il loro significato sono queste (cf. CCC 1517-1519):
· Saluto: fatto con naturalezza, semplicità e amabilità.
· Aspersione con acqua benedetta: la benedizione ricorda il Battesimo.
· Atto penitenziale: si possono usare diverse forme.
· Lettura della parola di Dio: si scelgono secondo l’opportunità magari quelle della Messa, lette da un partecipante, commentate.
· Padre nostro: proclamato da tutti insieme al malato.
· Comunione: se è necessario, si può dare sotto le sole specie del vino.
· Azione di grazie e preghiera finale: per la salvezza totale.
· Congedo: con i gesti e con le parole adatte al caso (Premesse, 49-60).
Il rituale propone anche il «rito breve», «quando si deve distribuire la santa comunione a più infermi degenti in diversi ambienti di una stessa casa, come avviene, per esempio in un ospedale, o in una clinica». Il rito può aver inizio in una cappella o nella stanza del malato, poi si distribuisce la comunione ai diversi malati e si conclude nello stesso posto che si è iniziato (Premesse, 61-65).
7. Situazioni e forme di celebrazione del Sacramento
L’antico rituale prevedeva soltanto due forme di celebrazione: quella ordinaria e quella breve; il nuovo rituale invece propone otto forme che, adattate alle diverse circostanze, possono diventare anche più varie. Queste sono in sintesi:
- celebrazione dell’unzione senza la Messa;
- celebrazione dell’unzione durante la Messa;
- celebrazione in una grande assemblea di fedeli senza la Messa;
- celebrazione in una grande assemblea di fedeli durante la Messa;
- rito continuo per celebrare la Penitenza, l’Unzione, il Viatico;
- rito dell’unzione senza il Viatico;
- celebrazione con un solo malato;
- celebrazione con più malati.
Le tre forme più importanti però sono queste: la celebrazione senza Messa, la celebrazione nella Messa e la celebrazione in una grande assemblea di fedeli.
8. Effetti della celebrazione di questo Sacramento (CCC 1520-1523)
* un dono particolare dello Spirito Santo: la grazia fondamentale di questo Sacramento è una grazia di conforto, di pace e di coraggio per superare le difficoltà proprie dello stato di malattia grave o della fragilità della vecchiaia; questa grazia è un dono dello Spirito Santo che rinnova la fiducia e la fede in Dio e fortifica contro le tentazioni del maligno, cioè contro la tentazione di scoraggiamento e di angoscia di fronte alla morte (cf. Eb 2, 15); inoltre, questa assistenza del Signore attraverso la forza del suo Spirito vuole portare il malato alla guarigione dell’anima, ma anche a quella del corpo, se tale è la volontà di Dio (cf. DS 1325). Inoltre, “se ha commesso peccati, gli saranno perdonati” (Gc 5, 15; cf. DS 1717);
* l’unione alla Passione di Cristo: per la grazia di questo Sacramento il malato riceve la forza e il dono di unirsi più intimamente alla passione di Cristo; la sofferenza, conseguenza del peccato originale, riceve un senso nuovo, diviene cioè partecipazione all’opera salvifica di Gesù;
* una grazia ecclesiale: i malati che ricevono questo Sacramento, unendosi “spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo”, contribuiscono “al bene del popolo di Dio” (LG 11); celebrando questo Sacramento, la chiesa, nella comunione dei Santi, intercede per il bene del malato; e l’infermo, a sua volta, per la grazia di questo Sacramento, contribuisce alla santificazione della chiesa e al bene di tutti gli uomini per i quali la chiesa soffre e si offre, per mezzo di Cristo, a Dio Padre;
* una preparazione all’ultimo passaggio: se il sacramento dell’Unzione degli infermi è conferito a tutti coloro che soffrono di malattie e di infermità gravi, a maggior ragione è dato a coloro che stanno per uscire da questa vita (in exitu vitae constituti), per cui lo si è anche chiamato “sacramentum exeuntium” (DS 1698); l’Unzione degli infermi porta a compimento la nostra conformazione alla Morte e alla Risurrezione di Cristo, iniziata dal Battesimo; Essa completa le sante unzioni che segnano tutta la vita cristiana; quella del Battesimo aveva suggellato in noi la vita nuova; quella della Confermazione ci aveva fortificati per il combattimento di questa vita; quest’ultima unzione munisce la fine della nostra esistenza terrena come di un solido baluardo in vista delle ultime lotte prima dell’ingresso nella Casa del Padre (cf. DS 1694).
9. Viatico o preparazione alla morte (CCC 1524-1525)
Il viatico non va confuso né con la comunione degli infermi (che si può ricevere in qualsiasi malattia), né con il sacramento dell’unzione (che si celebra in caso di malattia grave). Il viatico è l’Eucaristia ricevuta in pericolo di morte, come forza per il transito alla vita eterna e garanzia di immortalità: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 54).
Purtroppo, nella società attuale si è perso il protagonismo della morte. Per molti secoli l’uomo desiderò di essere il protagonista della propria morte: la morte era annunziata e accettata, si sapeva che si doveva morire e ci si preparava; morire bene era l’«arte» più ammirata, non essere sorpresi dalla morte improvvisa era la più grande grazia. Oggi, invece, non c’è più questo atteggiamento personale dinanzi alla morte, né il suo carattere di solennità pubblica: il dovere non è quello di annunziare la morte, ma di nasconderla, e l’ideale non è quello di essere protagonista cosciente, ma soggetto incosciente; privato dei suoi diritti, il malato è costretto a volte a una morte clandestina, con cui la società cerca di nascondere il proprio destino.
Il cristiano vive in questa mentalità, ma non può accettarne le deformazioni. La morte, per un cristiano, non è un evento da nascondere o da trasformare in commedia sociale, ma un evento in cui si condensa la vita intera, e che esprime al più alto grado il «morire-con» Cristo. Perciò, sin dai primi tempi, si solennizzò questo momento con il viatico, poiché, come dice il concilio di Nicea (anno 325), «non dev’essere privato dell’ultimo e necessario viatico chi sta per morire» (ca. 13). La riserva dell’Eucaristia nel tabernacolo, anche per questo fine, indica l’importanza del viatico come partecipazione ultima al sacrificio di Cristo e garanzia per la vita eterna.
A partire dal secolo XI il rito, molto semplice all’inizio, cominciò a complicarsi con l’aggiunta di una serie di salmi e di litanie penitenziali (penitenzializzazione = «poenitentia viatica»), la raccomandazione dell’anima e altri riti complementari. Infine, si identificherà il viatico con la comunione degli infermi, collocandolo nell’«Ordo ad visitandum et unguendum infirmum», come faceva il rituale del 1614.
Il nuovo rituale degli infermi ha voluto ricuperare il vero senso del viatico. Perciò chiede di celebrarlo in vero pericolo di morte («In transitu ex hac vita»; «in proximo mortis periculo»: Premesse, 26.27.93); non prima ma dopo l’unzione (Premesse, 30); non in riferimento alla Penitenza, ma all’Eucaristia, permettendo di celebrarlo in essa (Premesse, 26); permettendo al diacono di portarlo, o a un fedele sia uomo o donna (Premesse, 29); chiedendo, se è possibile, di riceverlo in stato cosciente (Premesse, 27) e persino con una preparazione pastorale (Premesse, 43) in modo che sia una vera celebrazione (Premesse, 128-164).
Malgrado questi tentativi, è difficile che il viatico possa ricuperare o occupare il posto che gli compete se non riscopre e assume il suo significato teologico. Un significato che si riassume in questi aspetti:
- Il viatico è l’ultima partecipazione all’Eucaristia e al suo Mistero pasquale di salvezza per la morte e risurrezione di Cristo. Partecipazione che acquisisce un realismo speciale poiché il con-morire e il con-risuscitare si realizzano non solo a un livello mistico, ma anche a livello fisico o corporale. Si tratta del vertice dell’identificazione pasquale.
- Se ogni Eucaristia è un memoriale del «passaggio» o della Pasqua di Cristo alla quale partecipiamo nella comunione, il viatico attualizza in maniera speciale questo transito verso il Padre, poiché si sta realizzando nella forma più integrale nel moribondo.
- E se l’Eucaristia è «cibo di vita eterna» (Gv 6,54) e garanzia di risurrezione, il viatico ne è la massima espressione per l’uomo, non solo per la vicinanza alla morte, ma per l’immediatezza della speranza compiuta (Premesse, 26-29).
- Infine, il viatico è l’inizio di una nuova relazione con Dio e con la comunità, perché prepara alla visione di Dio «a faccia a faccia» e alla comunione dei santi nella nuova Gerusalemme. Questa dimensione escatologica si esprime pure nella «raccomandazione dell’anima» e nella professione della fede battesimale (Premesse, 138.157). Così come la prima comunione completa la nostra iniziazione cristiana, cominciata col Battesimo, l’ultima comunione ci introduce alla vita eterna, alla quale già partecipavamo in questa vita grazie al Battesimo e all’Eucaristia.
Per quanto riguarda la celebrazione del viatico, ricordo solamente le norme più importanti: se si può, è preferibile celebrarlo nella Messa (Premesse, 129); dopo l’omelia si fa la rinnovazione delle promesse battesimali (Premesse, 138); il rito della pace può essere compiuto in questo momento: tutti i partecipanti daranno il segno di pace al malato; è preferibile far la comunione sotto le due specie (Premesse, 93).
La Chiesa continua a dire che il viatico è un «diritto e un dovere dei fedeli» in pericolo di morte. Se quando arriva la morte fosse sempre possibile ricevere il viatico, sarebbe la prova che i cristiani hanno iniziato ad apprezzare la più grande realtà della vita.
Questa partecipazione e questo vincolo esprimono il significato della comunione dell’infermo, cioè:
· L’unione a Cristo che, con la sua passione, morte e risurrezione, dà un senso al nostro dolore, e con il suo corpo e sangue ci dà la forza di superare le difficoltà della malattia.
· La solidarietà e fraternità cristiana, che si rendono visibili nel segno che meglio le esprime, poiché la comunione non unisce solo l’infermo alla comunità, ma anche la comunità dimostra la sua unione con lui.
d) Possibilità per una comunione significativa degli infermi
E’ evidente che la prima cosa da fare è avvisare il sacerdote della parrocchia, spiegandogli la situazione del malato, in modo che lo si possa visitare e portargli la comunione, se la desidera. È la comunione portata «in privato» dal sacerdote. Ma se nella comunità parrocchiale esiste un’équipe di responsabili del servizio ai malati, essi (o alcuni di essi) potrebbero essere inviati a distribuire la comunione ai malati alla fine dell’Eucaristia domenicale. Sarebbe un vero atto comunitario nel quadro della celebrazione eucaristica. È la comunione «comunitaria e pubblica» per i laici.
Una terza possibilità, quando le circostanze lo permettono e lo esigono, è che la comunione sia portata da qualcuno dei familiari dello stesso malato, il quale, dopo aver partecipato all’Eucaristia domenicale, o in altro momento opportuno, compie questo ministero, anche a nome dell’intera comunità e in relazione con l’Eucaristia[13].
Non è un rito privato, ma una vera celebrazione che prolunga quella eucaristica, e allora conviene che i parenti e altre persone vicine al malato partecipino anch’essi alla celebrazione. «Coloro che assistono l’infermo possono ricevere la santa comunione con lui, osservando le norme prescritte» (Premesse, 46). La celebrazione si deve svolgere secondo l’«ordo» stabilito dal rituale e con gli adattamenti che si ritengono opportuni. Le parti e il loro significato sono queste (cf. CCC 1517-1519):
· Saluto: fatto con naturalezza, semplicità e amabilità.
· Aspersione con acqua benedetta: la benedizione ricorda il Battesimo.
· Atto penitenziale: si possono usare diverse forme.
· Lettura della parola di Dio: si scelgono secondo l’opportunità magari quelle della Messa, lette da un partecipante, commentate.
· Padre nostro: proclamato da tutti insieme al malato.
· Comunione: se è necessario, si può dare sotto le sole specie del vino.
· Azione di grazie e preghiera finale: per la salvezza totale.
· Congedo: con i gesti e con le parole adatte al caso (Premesse, 49-60).
Il rituale propone anche il «rito breve», «quando si deve distribuire la santa comunione a più infermi degenti in diversi ambienti di una stessa casa, come avviene, per esempio in un ospedale, o in una clinica». Il rito può aver inizio in una cappella o nella stanza del malato, poi si distribuisce la comunione ai diversi malati e si conclude nello stesso posto che si è iniziato (Premesse, 61-65).
7. Situazioni e forme di celebrazione del Sacramento
L’antico rituale prevedeva soltanto due forme di celebrazione: quella ordinaria e quella breve; il nuovo rituale invece propone otto forme che, adattate alle diverse circostanze, possono diventare anche più varie. Queste sono in sintesi:
- celebrazione dell’unzione senza la Messa;
- celebrazione dell’unzione durante la Messa;
- celebrazione in una grande assemblea di fedeli senza la Messa;
- celebrazione in una grande assemblea di fedeli durante la Messa;
- rito continuo per celebrare la Penitenza, l’Unzione, il Viatico;
- rito dell’unzione senza il Viatico;
- celebrazione con un solo malato;
- celebrazione con più malati.
Le tre forme più importanti però sono queste: la celebrazione senza Messa, la celebrazione nella Messa e la celebrazione in una grande assemblea di fedeli.
8. Effetti della celebrazione di questo Sacramento (CCC 1520-1523)
* un dono particolare dello Spirito Santo: la grazia fondamentale di questo Sacramento è una grazia di conforto, di pace e di coraggio per superare le difficoltà proprie dello stato di malattia grave o della fragilità della vecchiaia; questa grazia è un dono dello Spirito Santo che rinnova la fiducia e la fede in Dio e fortifica contro le tentazioni del maligno, cioè contro la tentazione di scoraggiamento e di angoscia di fronte alla morte (cf. Eb 2, 15); inoltre, questa assistenza del Signore attraverso la forza del suo Spirito vuole portare il malato alla guarigione dell’anima, ma anche a quella del corpo, se tale è la volontà di Dio (cf. DS 1325). Inoltre, “se ha commesso peccati, gli saranno perdonati” (Gc 5, 15; cf. DS 1717);
* l’unione alla Passione di Cristo: per la grazia di questo Sacramento il malato riceve la forza e il dono di unirsi più intimamente alla passione di Cristo; la sofferenza, conseguenza del peccato originale, riceve un senso nuovo, diviene cioè partecipazione all’opera salvifica di Gesù;
* una grazia ecclesiale: i malati che ricevono questo Sacramento, unendosi “spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo”, contribuiscono “al bene del popolo di Dio” (LG 11); celebrando questo Sacramento, la chiesa, nella comunione dei Santi, intercede per il bene del malato; e l’infermo, a sua volta, per la grazia di questo Sacramento, contribuisce alla santificazione della chiesa e al bene di tutti gli uomini per i quali la chiesa soffre e si offre, per mezzo di Cristo, a Dio Padre;
* una preparazione all’ultimo passaggio: se il sacramento dell’Unzione degli infermi è conferito a tutti coloro che soffrono di malattie e di infermità gravi, a maggior ragione è dato a coloro che stanno per uscire da questa vita (in exitu vitae constituti), per cui lo si è anche chiamato “sacramentum exeuntium” (DS 1698); l’Unzione degli infermi porta a compimento la nostra conformazione alla Morte e alla Risurrezione di Cristo, iniziata dal Battesimo; Essa completa le sante unzioni che segnano tutta la vita cristiana; quella del Battesimo aveva suggellato in noi la vita nuova; quella della Confermazione ci aveva fortificati per il combattimento di questa vita; quest’ultima unzione munisce la fine della nostra esistenza terrena come di un solido baluardo in vista delle ultime lotte prima dell’ingresso nella Casa del Padre (cf. DS 1694).
9. Viatico o preparazione alla morte (CCC 1524-1525)
Il viatico non va confuso né con la comunione degli infermi (che si può ricevere in qualsiasi malattia), né con il sacramento dell’unzione (che si celebra in caso di malattia grave). Il viatico è l’Eucaristia ricevuta in pericolo di morte, come forza per il transito alla vita eterna e garanzia di immortalità: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 54).
Purtroppo, nella società attuale si è perso il protagonismo della morte. Per molti secoli l’uomo desiderò di essere il protagonista della propria morte: la morte era annunziata e accettata, si sapeva che si doveva morire e ci si preparava; morire bene era l’«arte» più ammirata, non essere sorpresi dalla morte improvvisa era la più grande grazia. Oggi, invece, non c’è più questo atteggiamento personale dinanzi alla morte, né il suo carattere di solennità pubblica: il dovere non è quello di annunziare la morte, ma di nasconderla, e l’ideale non è quello di essere protagonista cosciente, ma soggetto incosciente; privato dei suoi diritti, il malato è costretto a volte a una morte clandestina, con cui la società cerca di nascondere il proprio destino.
Il cristiano vive in questa mentalità, ma non può accettarne le deformazioni. La morte, per un cristiano, non è un evento da nascondere o da trasformare in commedia sociale, ma un evento in cui si condensa la vita intera, e che esprime al più alto grado il «morire-con» Cristo. Perciò, sin dai primi tempi, si solennizzò questo momento con il viatico, poiché, come dice il concilio di Nicea (anno 325), «non dev’essere privato dell’ultimo e necessario viatico chi sta per morire» (ca. 13). La riserva dell’Eucaristia nel tabernacolo, anche per questo fine, indica l’importanza del viatico come partecipazione ultima al sacrificio di Cristo e garanzia per la vita eterna.
A partire dal secolo XI il rito, molto semplice all’inizio, cominciò a complicarsi con l’aggiunta di una serie di salmi e di litanie penitenziali (penitenzializzazione = «poenitentia viatica»), la raccomandazione dell’anima e altri riti complementari. Infine, si identificherà il viatico con la comunione degli infermi, collocandolo nell’«Ordo ad visitandum et unguendum infirmum», come faceva il rituale del 1614.
Il nuovo rituale degli infermi ha voluto ricuperare il vero senso del viatico. Perciò chiede di celebrarlo in vero pericolo di morte («In transitu ex hac vita»; «in proximo mortis periculo»: Premesse, 26.27.93); non prima ma dopo l’unzione (Premesse, 30); non in riferimento alla Penitenza, ma all’Eucaristia, permettendo di celebrarlo in essa (Premesse, 26); permettendo al diacono di portarlo, o a un fedele sia uomo o donna (Premesse, 29); chiedendo, se è possibile, di riceverlo in stato cosciente (Premesse, 27) e persino con una preparazione pastorale (Premesse, 43) in modo che sia una vera celebrazione (Premesse, 128-164).
Malgrado questi tentativi, è difficile che il viatico possa ricuperare o occupare il posto che gli compete se non riscopre e assume il suo significato teologico. Un significato che si riassume in questi aspetti:
- Il viatico è l’ultima partecipazione all’Eucaristia e al suo Mistero pasquale di salvezza per la morte e risurrezione di Cristo. Partecipazione che acquisisce un realismo speciale poiché il con-morire e il con-risuscitare si realizzano non solo a un livello mistico, ma anche a livello fisico o corporale. Si tratta del vertice dell’identificazione pasquale.
- Se ogni Eucaristia è un memoriale del «passaggio» o della Pasqua di Cristo alla quale partecipiamo nella comunione, il viatico attualizza in maniera speciale questo transito verso il Padre, poiché si sta realizzando nella forma più integrale nel moribondo.
- E se l’Eucaristia è «cibo di vita eterna» (Gv 6,54) e garanzia di risurrezione, il viatico ne è la massima espressione per l’uomo, non solo per la vicinanza alla morte, ma per l’immediatezza della speranza compiuta (Premesse, 26-29).
- Infine, il viatico è l’inizio di una nuova relazione con Dio e con la comunità, perché prepara alla visione di Dio «a faccia a faccia» e alla comunione dei santi nella nuova Gerusalemme. Questa dimensione escatologica si esprime pure nella «raccomandazione dell’anima» e nella professione della fede battesimale (Premesse, 138.157). Così come la prima comunione completa la nostra iniziazione cristiana, cominciata col Battesimo, l’ultima comunione ci introduce alla vita eterna, alla quale già partecipavamo in questa vita grazie al Battesimo e all’Eucaristia.
Per quanto riguarda la celebrazione del viatico, ricordo solamente le norme più importanti: se si può, è preferibile celebrarlo nella Messa (Premesse, 129); dopo l’omelia si fa la rinnovazione delle promesse battesimali (Premesse, 138); il rito della pace può essere compiuto in questo momento: tutti i partecipanti daranno il segno di pace al malato; è preferibile far la comunione sotto le due specie (Premesse, 93).
La Chiesa continua a dire che il viatico è un «diritto e un dovere dei fedeli» in pericolo di morte. Se quando arriva la morte fosse sempre possibile ricevere il viatico, sarebbe la prova che i cristiani hanno iniziato ad apprezzare la più grande realtà della vita.
[1] Traduzione da A. Hamman, Preghiere dei primi cristiani, Milano 1955, 179-180. Fino al sec. IX le unzioni con l’olio benedetto furono praticate anche da laici.
[2] Dalla tradizione di A. Cavasse.
[3] PRG, Ordo 139, v. 2, 246-256.
[4] PRG, Ordo 142, v. 2, 257-270
[5] London , British Library, ms. Add. 17005, Andrieu, PR 1, p. 267. Gli stessi riti con delle formule appena diverse in quasi tutti gli esemplari del Pontificale della Curia Romana del XIII sec.: Andrieu, PR 2, 488.
[6] Liber tramitis aevi Odilonis abbatis, nn. 193-194.
[7] L. Bracaloni, Il primo rituale francescano nel breviario di S. Chiara, in Arcbivium franciscanum historicum 16, 1923, 76-77.
[7] L. Bracaloni, Il primo rituale francescano nel breviario di S. Chiara, in Arcbivium franciscanum historicum 16, 1923, 76-77.
[8] Liber sacerdotalis..., Venetiis 1523, ff. 114v-122.
[9] Rituale sacramentorum Romanum Gregorii papae XIII... iussu editum, Romae 1584 (data indicata sul frontespizio, ma in realtà inesatta), 301-339.
[10] AAS 65(1973), 5-9.
[11] Cf. J. Jungmann, Missarum Sollemnia, Torino 1963, v. II, 307ss.
[10] AAS 65(1973), 5-9.
[11] Cf. J. Jungmann, Missarum Sollemnia, Torino 1963, v. II, 307ss.
[12] Istruzione Immensae caritatis, n. 1 (in: EV 4, 1215ss). Cf Rito della comunione fuori della Messa e culto eucaristico, CEI 1979, n. 17; nn. 58-59.
[13] Cf. Istruzione Immensae caritatis, n. 1, 1-1V. Il CIC, can. 910§2 dice: «Ministro straordinario della sacra comunione è l’accolito o anche un altro fedele incaricato a norma del canone 230§3».