a) Segni e simboli
In altre parole: ogni celebrazione liturgica “comporta segni e simboli relativi alla creazione (luce, acqua, fuoco), alla vita umana (lavare, ungere, spezzare il pane…) e alla storia della salvezza (i riti della Pasqua). Inseriti nel mondo della fede e assunti dalla forza dello Spirito Santo, questi elementi cosmici, questi riti umani, queste gesta memoriali di Dio diventano portatori dell’azione di salvezza e di santificazione compiuta da Cristo” (CCC 1189).
Ci vuole a questo punto un chiarimento e un breve approfondimento: i riti della Chiesa sono anche definiti “segni sensibili”: si possono vedere, udire, sentire e, nello stesso tempo, non rappresentano qualcosa da sé e in sé, ma rimandano ad altre realtà che non sono recepibili direttamente. Vengono anche definite come “misteri”. Questo termine non vuole indicare qualcosa d’incomprensibile o d’inconoscibile, quanto, invece il piano eterno di salvezza di Dio realizzato in Cristo Signore per mezzo del suo Mistero pasquale (morte e risurrezione) e continuato nella Chiesa con la forza dello Spirito Santo.
Si tratta allora d’azioni rituali costituite dai segni - simboli che nella Chiesa sono conosciute con il nome “sacramenti”. Sono le sette azioni liturgiche che, per la fede, producono effetti divini nella vita dei cristiani, santificandoli nel corso delle tappe della loro vita (riti di passaggio): Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza, Unzione degli infermi, Ordine, Matrimonio (cf. CCC 1152).
Accanto a queste azioni rituali, la liturgia pone altre diverse realtà, chiamate “sacramentali”, vale a dire segni e strumenti che significano e stabiliscono l’unione con Dio e gli uomini che partecipano al mistero di salvezza di Cristo (la ”raccolta” di questi si trova nel libro chiamato “Benedizionale”).
Nella liturgia non entrano però solo le parole, le azioni e le cose, ma è tutto l’uomo ad essere soggetto e oggetto del culto gradito a Dio. Si pensi, ad esempio, all’uso dei sensi nella vita di tutti i giorni: anche nella liturgia essi hanno un ruolo. L’udito per la proclamazione della Parola, i canti, le preghiere; la vista per l’estetica e la bellezza del luogo di culto, la bellezza e la pedagogia degli oggetti, delle vesti, delle immagini, l’espressività dei gesti e degli atteggiamenti; il tatto per il gesto della pace, per la comunione nella mano, per il contatto con l’acqua; l’odorato per il profumo dell’incenso, dei fiori, dell’olio; il gusto per il sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo, sotto i segni del pane e del vino.
Tutti partecipanti alla liturgia sono chiamati a capire il significato dei simboli che arricchiscono le celebrazioni con gesti e segni ereditati dalle generazioni precedenti e sono un linguaggio valido anche per noi oggi. Se ben compiuti, contengono ancora una grande forza d’espressione.b) Parole e azioni
c) Canto e musica
Basta sfogliare le pagine dell’AT per renderci conto che il canto dei Salmi, accompagnati spesso da strumenti musicali, è legato alle celebrazioni liturgiche dell’Antica Alleanza. Di conseguenza, anche la Chiesa continua e sviluppa questa tradizione. San Paolo scrive alla comunità di Efeso: “Intrattenetevi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore” (Ef 5, 19)[1]. E Sant’Agostino aggiunge: “Chi canta prega due volte”[2]. Bisogna ricordare che il “canto e la musica svolgono la loro funzione di segni in una maniera tanto più significativa quanto più sono strettamente uniti all’azione liturgica” (SC 112), e secondo tre criteri principali: “la bellezza espressiva della preghiera, l’unanime partecipazione dell’assemblea nei momenti previsti e il carattere solenne della celebrazione. In questo modo essi partecipano alla finalità delle parole e delle azioni liturgiche: la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli” (SC 112)[3].
d) Sacre immagini
Sappiamo che nell’Antico Testamento si trova il divieto assoluto di qualsiasi rappresentazione di Dio, assolutamente trascendente, fatta dalla mano dell’uomo[4]. Tuttavia, proprio fin dall’Antico Testamento, “Dio ha ordinato o permesso di fare immagini che simbolicamente condussero alla salvezza operata dal Verbo incarnato: così il serpente di rame (cf. Nm 21, 8-9; Sap 16, 5-14; Gv 3, 14-15), l’arca dell’alleanza e i cherubini (cf. Es 25, 10-22; 1Re 6, 23-28; 7, 23-26)”[5].
Uno dei Padri della Chiesa, San Giovanni Damasceno, scrive: “Un tempo Dio, non avendo né corpo, né figura, non poteva in alcun modo essere rappresentato da una immagine. Ma ora che si è fatto vedere nella carne e che ha vissuto con gli uomini, posso fare una immagine di ciò che ho visto di Dio… A viso scoperto, noi contempliamo la gloria del Signore”[6].
Da quest’affermazione possiamo capire che la sacra immagine, “l’Icona liturgica, rappresenta soprattutto Cristo. Essa non può rappresentare il Dio invisibile e incomprensibile; è stata l’Incarnazione del Figlio di Dio ad inaugurare una nuova «economia» delle immagini” (CCC 1159).
La questione delle immagini sacre fu molto discussa lungo i secoli. Si è arrivato anche ad una vera “guerra” contro le immagini. Il II Concilio di Nicea, nell’anno 787, ci insegna: “In poche parole, noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni della Chiesa, sia scritte che orali. Una di queste riguarda la raffigurazione del modello mediante un’immagine, in quanto si accordi con la lettera del messaggio evangelico, in quanto serva a confermare la vera e non fantomatica Incarnazione del Verbo di Dio e procuri a noi analogo vantaggio, perché le cose rinviano l’una all’altra in ciò che raffigurano come in ciò che senza ambiguità esse significano”[7]. In altre parole: l’iconografia cristiana trascrive attraverso l’immagine il messaggio evangelico che la Bibbia trasmette attraverso la Parola. “Immagine e Parola si illuminano a vicenda” (CCC 1160).
Questo Concilio, infine, chiarì e giustificò il culto delle icone di Cristo, della Madre di Dio, degli angeli e di tutti i Santi: “Procedendo sulla via regia, seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri santi padri e la tradizione della Chiesa cattolica - riconosciamo, infatti, che lo Spirito Santo abita in essa - noi definiamo con ogni rigore e cura che, a somiglianza della raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l’immagine del signore Dio e salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell’immacolata signora nostra, la santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giusti” (DS 600).
Come abbiamo già detto: a partire dall’Incarnazione del Figlio di Dio, il culto cristiano delle sacre immagini è giustificato, “poiché si fonda sul Mistero del Figlio di Dio fatto uomo, nel quale il Dio trascendente si rende visibile” (CCCComp 446). E questo vuol dire che il culto cristiano delle immagini non è contrario al primo comandamento che proscrive gli idoli. In effetti, dice S. Basilio di Cesarea “l’onore reso ad un’immagine appartiene a chi vi è rappresentato”[8], e chi “venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto” (SC 126; LG 67).Il CCC al n° 2132, dice: “L’onore tributato alle sacre immagini è una «venerazione rispettosa», non un’adorazione che conviene solo a Dio”.
Infine, l’OGMR, al n° 318, si dice: “Negli edifici sacri si espongano alla venerazione dei fedeli le immagini del Signore, della beata Vergine Maria e dei Santi”. Infatti, le nostre chiese, nella loro quasi totalità, sono dotate di un vasto patrimonio iconografico (dipinti su tavola e su tela, affreschi, mosaici, sculture, vetrate, ecc.) e decorativo (cf. CEI, L’adeguamento della chiese secondo la riforma liturgica, n° 36).
Sappiamo ormai che tutti i segni della celebrazione liturgica sono riferiti a Cristo, e lo sono anche le sacre immagini della Madre di Dio e dei Santi, “poiché significano Cristo che in loro è glorificato. Esse manifestano «il nugolo di testimoni» (Eb 12, 1) che continuano a partecipare alla salvezza del mondo e ai quali noi siamo uniti, soprattutto nella celebrazione sacramentale. Attraverso le loro icone, si rivela alla nostra fede l’uomo creato «a immagine di Dio», e trasfigurato «a sua somiglianza», (cf. Rm 8, 29; 1Gv 3, 2) come pure gli angeli, anch’essi ricapitolati in Cristo” (CCC 1161).
Comunque, nelle nostre chiese, bisogna prestare attenzione che il numero delle immagini sacre non sia troppo eccessivo e che la loro disposizione non distolga l’attenzione dei fedeli dalla celebrazione liturgica (cf. SC 125). “Di un medesimo Santo poi non si abbia abitualmente che una sola immagine” (OGMR 318). Infine, la contemplazione delle sante icone, unita alla meditazione della Parola di Dio e al canto degli inni liturgici, “entra nell’armonia dei segni della celebrazione in modo che il mistero celebrato si imprima nella memoria del cuore e si esprima poi nella novità di vita dei fedeli” (CCC 1162).
e) Partecipazione consapevole, piena, attiva e comunitaria
Per questo, come si legge nella SC al n° 14: “La Madre Chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia e alla quale il popolo cristiano, «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto» (1Pt 2, 9)[10] ha diritto e dovere in forza del Battesimo”.
La partecipazione consapevole significa che bisogna sapere quello che si fa, quello che si celebra e come deve essere celebrato, supponendo il minimo della conoscenza biblica e liturgica, penetrando i riti e inserendosi nel mistero, dando vita ed attualità ai simboli, conoscendoli per viverli.
Ma la partecipazione deve essere anche piena. E che cosa significa questo? Poiché il servizio liturgico è fatto di azioni dette sacre, potremmo essere portati a credere che va curato solo l’elemento soprannaturale dell’uomo, il suo spirito, e non tenere conto che l’uomo è costituito di corpo ed anima, di carne e spirito.Ora la partecipazione piena richiede non solo la presenza del cuore, dell’intelligenza e della fantasia, ma anche del corpo (anima e corpo); con tutti i cinque sensi, in sintonia con quanto avviene in modo palese (letture, preghiere, canti, movimenti) e con quanto avviene come mistero di salvezza (perdono, conversione, condivisione, speranza, comunione).
Siamo tutti convinti che non possiamo dire determinate formule, pensando ad altro; per lo meno non sarebbe corretto, educato, sia nei riguardi di Dio che dei fratelli. Siamo convinti che fare un gesto di pace, avendo nel proprio cuore l’odio e la vendetta, non è leale.E quando questi gesti li facciamo insieme (segno della “comunione”), come gruppo o come intera comunità parrocchiale, indichiamo anche esteriormente l’unità di fede.
Inoltre ogni partecipazione deve essere attiva. Qui occorre ribadire la nozione che l’assemblea non deve restare “spettatrice” della celebrazione. “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è «sacramento di unità», cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. Perciò tali azioni appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; i singoli membri poi vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità di ordini, di compiti, e di partecipazione attiva” (SC 26).
L’assemblea deve diventare attiva, perché è un dovere ed un diritto di ogni battezzato pregare, pregare comunitariamente, pregare attivamente. E allora, prendendo parte a ciò che si fa, come membra sollecite, ognuno secondo la sua funzione e le sue possibilità, ciascuno svolgendo il ruolo proprio, partecipando con le risposte, il canto, la preghiera, i movimenti, i gesti, il silenzio interiore, vivendo la celebrazione personalmente e in comunione con Dio e con gli altri presenti.[1] “La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre” (Col 3, 16-17).
[2] Enarratio in Psalmos, 72, 1.
[3] Cf. anche: SC 118-119 e 121.
[4] “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra” (Es 20, 4); “Poiché dunque non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita, perché non vi corrompiate e non vi facciate l’immagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, la figura di qualunque animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra; perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito del cielo, tu non sia trascinato a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle; cose che il Signore tuo Dio ha abbandonato in sorte a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli” (Dt 4, 15-19).
[5] Cf. CCC 2130.
[6] De sacris imaginibus orationes, 1, 16, in PG 96, 1245A.
[7] Conciliorum oecumenicorum decreta, 111.
[8] PG 32, 149C.
[9] Summa theologiae, II-II, 81, 3, ad 3.