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Liturgia in generale

Introduzione generale alla Liturgia (di don Pietro Jura)

I. Essenza e significato della Liturgia

I.1. Liturgia: il termine e la sua storia

La parola greca leiturgiaλειτουργία (verbo: leiturgéin - λειτουργείν) è composta dal sostantivo érgon - έργον (= opera) e dall’aggettivo léitos - λέιτος (= attinente il popolo; derivato da leós - λεóς, ionico laósλαóς = popolo). Tradotto letteralmente leiturgiaλειτουργία significa quindi opera-del-popolo. Si intendono ciò i servizi prestati per il bene del popolo sia da parte di cittadini benestanti sia da parte di singole città, come ad es. l’allestimento del coro nel teatro greco, l’armamento di una nave, l’accoglienza di una tribù in occasione di feste nazionali. Più tardi con questa parola si intese qualunque pubblica prestazione di servizio e dal II sec. a.C. anche il servizio cultuale.

I Settanta (traduzione greca dell’AT, circa nel 250-150 a.C.) usano il termine per il servizio nel Tempio da parte di sacerdoti e leviti. In questo senso la parola ricorre più volte anche nel NT (Lc 1, 23; Eb 9, 21; 10, 11); viene però usata anche in altri sensi, come per l’attività caritativa (ad es. 2Cor 9, 12) e il servizio degli angeli per le comunità (Eb 1, 7.14). Si trova anche nel significato di liturgia (At 13, 2). Una volta Cristo viene chiamato «liturgo del santuario e della vera tenda» (Eb 8, 2), e la sua mediazione «liturgia» (Eb 8, 6).

L’epoca postapostolica conosce leiturgìa nel senso di servizio sia per Dio che per la comunità. Lentamente tuttavia nell’Oriente di lingua greca l’uso della parola si restringe alla celebrazione dell’eucaristia, un significato che ivi si è mantenuto fino al presente. In Occidente la parola dapprima è sconosciuta, e in suo luogo vengono usate per indicare le azioni liturgiche numerose espressioni latine, che ancor oggi si trovano in testi di preghiera tradizionali. Solo nel sec. XVI il termine "liturgia" viene introdotto anche in Occidente, soprattutto dagli umanisti, e nel sec. XVIII – XIX questo termine viene adottato anche dalle chiese della Riforma, e precisamente nel senso ampio di liturgia cristiana; così e accaduto anche nel CIC del 1917, dove si dice che è competenza unicamente della Sede Apostolica «regolare la sacra liturgia e approvare i libri liturgici» (can. 1257).

Per amore di completezza occorre ancora dire che "liturgia", nel senso di studio scientifico di quanto attiene al culto, sottintende il riferimento alla parola "scienza", per cui la dizione completa sarebbe "scienza liturgica". Un liturgista è quindi da distinguere da un liturgo: il primo indaga sulla liturgia nel suo divenire storico, nelle sue strutture essenziali, nei suoi contenuti, effetti e forme, mentre il secondo compie le azioni liturgiche.

 


I. 2. Essenza della liturgia

Per cogliere l’essenza della liturgia la miglior cosa è partire dalle affermazioni del Vaticano II, e precisamente dalla SC, che è il risultato di uno sforzo di decenni per una retta conoscenza e pratica del fatto liturgico. Le ultime due frasi del n. 7 possono essere considerate come una delle affermazioni più essenziali: «Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della missione sacerdotale di Gesù Cristo, mediante la quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado».

Risulta chiaro che nella liturgia non si tratta in primo luogo di uno sforzo umano, ma della redenzione - compiuta da Dio in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito Santo - che continua a operare. «Come il Cristo fu inviato dal Padre, così anche egli ha inviato gli apostoli, pieni di Spirito Santo, non solo perché predicando il vangelo ad ogni creatura, annunziassero che il Figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di satana e dalla morte e ci ha trasferiti nel regno del Padre, ma anche perché attuassero (exercerent), per mezzo del sacrificio e dei sacramenti, sui quali s’impernia tutta la vita liturgica, l’opera della salvezza che annunziavano» (SC 6). "Per realizzare un’opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua chiesa, specialmente nelle azioni liturgiche" (SC 7).

Da queste affermazioni emerge che nella liturgia l’iniziativa parte da Dio, che in essa la storia della salvezza continua in linea diretta, e che protagonista e attore principale della liturgia è il sommo sacerdote Cristo. Per questo la liturgia è primariamente un evento di grazia, sia nella proclamazione del messaggio divino che nei sacramenti (misteri), con il mistero pasquale di Cristo in essi ripresentato. Scopo è la santificazione dell’uomo. La liturgia, come parola e sacramento, è quindi primariamente caratterizzata dalla linea strutturale discendente (linea di catabasi).

Tuttavia questo non significa che l’uomo nella liturgia possa comportarsi in modo puramente passivo. Da lui, quale creatura libera e spirituale, viene richiesta innanzitutto la disponibilità a udire e a credere, ad ascoltare e a ubbidire. La parola di Dio lo spinge alla risposta, l’amore di Dio al contraccambio di amore, la sua azione misericordiosa lo chiama alla lode riconoscente... Ma questa non è solo voce di un uomo singolo, bensì di un membro di quella comunità che nella teologia di s. Paolo è designata come corpo mistico, il cui capo è Cristo stesso. Così all’azione salvifica di Dio risponde la lode dell’intera chiesa, alla quale si associa Cristo. Per questo si ha nella liturgia anche la linea ascendente (linea di anabasi). La liturgia ha un secondo attore, un secondo soggetto attivo, e cioè la chiesa. Così una definizione adatta è rappresentata dalla frase essenziale: La liturgia è l’operare congiuntamente del sommo sacerdote Cristo e della sua chiesa per la santificazione dell’uomo e la glorificazione del Padre celeste.

Alla luce di questa visione essenziale risulta chiara l’insufficienza e anche la falsità di tante concezioni della liturgia. Ciò vale innanzitutto per l’idea falsa ma molto diffusa per cui la liturgia sarebbe la somma di tutte le cerimonie e le prescrizioni (rubriche) riguardanti le azioni liturgiche. Contro questa concezione superficiale protestava già Pio XII nella sua enciclica Mediator Dei (1947), dove si dice: «Non hanno perciò una esatta nozione della sacra liturgia coloro i quali la ritengono come una parte soltanto esterna e sensibile del culto divino o come un cerimoniale decorativo; né sbagliano meno coloro, i quali la considerano come una mera somma di leggi e precetti con i quali la gerarchia ecclesiastica ordina il compimento dei riti».

Anche in ambito protestante ci sono correnti che vogliono far passare la liturgia per l’ordinamento degli atti ufficiali o della loro "veste di preghiera". Una valutazione totalmente sbagliata, che si riscontra presso taluni psicologi del profondo e sociologi, vede in essa solo dei simboli sviluppati di una socializzazione.

Molto comune è l’equazione liturgia = culto. Questa espressione (da colere = dedicarsi a, onorare) significa l’adorazione di Dio con la lode e il ringraziamento, per mezzo di segni e di simboli, attraverso il canto e la musica e con i più diversi sacrifici. Si tratta quindi di ciò che gli uomini e precisamente la chiesa, fanno per onorare Dio e ottenere la grazia divina. Emerge qui la linea ascendente, l’actio dell’uomo. Ancora Pio XII faceva propria questa concezione scrivendo nella Mediator Dei: «La sacra liturgia è pertanto il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre come capo della chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo capo e, per mezzo di Lui, all’Eterno Padre: è, per dirla in breve, il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra».

Veramente si deve dire ad onore dell’enciclica che la linea discendente, che qui non appare, emerge in altri luoghi. In genere si ha l’impressione che nei documenti della chiesa la parola culto, contrariamente al suo significato proprio, venga intesa sempre più in un senso ampio, che comprende anche la linea discendente della santificazione. Così suona anche il nome dell’ente romano preposto alla liturgia, costituito proprio dopo il Vaticano II: Congregatio pro cultu divino. Felicemente il nuovo CIC del 1983, nel can. 834, ha fatto propria la definizione di liturgia della SC nei suoi due aspetti: esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo, nel quale... «viene significata e realizzata... la santificazione degli uomini e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle membra, il culto di Dio pubblico integrale».

Dall’analisi dei diversi studi (anche nell’ambito protestante, soprattutto quello evangelico), si potrebbe prendere come più appropriata l’espressione "servizio divino" o "servizio di Dio". Solo non si deve considerare il genitivo "di Dio" unicamente come oggettivo, bensì anche come soggettivo, e cioè non solo la comunità serve Dio ma anche Dio serve gli uomini, dona loro il "servizio della salvezza" in Cristo, il quale ha detto appunto di non essere venuto «per farsi servire, ma per servire...» (Mt 20, 28; Mc 10, 45).

Una liturgia così compresa fa parte delle manifestazioni essenziali della vita della chiesa; insieme con l’annunzio della fede (martyría) e col servizio di carità (diakonía) essa è una funzione fondamentale la chiesa. La SC non esita ad assegnarle il rango più alto parlando del «culmine verso cui tende l’azione della chiesa» e della «fonte da cui promana tutto il suo vigore » (SC 10). «Nessun’altra azione della chiesa» raggiunge la sua efficacia «allo stesso titolo e allo stesso grado» (SC 7).

Se si considera che la liturgia nasce dal mistero pasquale di Cristo e ne attualizza i frutti (santificazione degli uomini e suprema glorificazione di Dio) allora veramente non si può citare alcun’altra attività della chiesa più preziosa, più efficace e più necessaria, assegnando naturalmente, tra i singoli settori della liturgia, il primo posto all’eucaristia.

L’alta dignità riconosciuta alla liturgia non significa tuttavia alcuna pretesa di esclusività nell’ambito della vita ecclesiale. Il concilio sa che prima di essa ci devono essere molte altre cose come ad es. annunzio missionario, la conversione, l’adesione dell’uomo a Cristo e la disposizione alla comunione con i fratelli. L’attività liturgica inoltre non può richiudersi in se stessa. Chi nella liturgia e attraverso di essa viene sempre maggiormente incorporato a Cristo sa di esser tenuto, sul suo esempio, a operare per la salvezza di tutti gli uomini. La liturgia fornisce la giusta motivazione e la forza per superare l’egoismo e per dedicarsi disinteressatamente al servizio del prossimo e alla salvezza del mondo intero. Il dono ricevuto nella liturgia non può mai condurre all’autosufficienza, ma deve diventare impegno nel e per il regno di Dio. In tal modo appare nettamente svuotata di senso l’obiezione per cui la valorizzazione della liturgia porterebbe al «deprezzamento della vita cristiana». Essa da un lato realizza l’irrinunciabile linea "verticale" (uomo-Dio) e d’altro lato dà la forza e fa sentire l’obbligo a perseguire correttamente la linea "orizzontale" (uomo-prossimo-sviluppo del mondo).

I.3. Ambito (settori della liturgia)
La liturgia come servizio divino inteso dialogicamente offre un molteplice quadro di forme espressive. Al centro, incontrastata, sta la celebrazione eucaristica con la ripresentazione salvifica del mistero pasquale di Cristo. Poiché questo è il fondamento e la fonte di tutta la liturgia, i suoi settori vivono più o meno della celebrazione eucaristica, trovano in essa regola e coronamento, e si dispongono come centri concentrici attorno a questo loro centro. Così attorno all’eucaristia si dispone la celebrazione degli altri sacramenti; primi in ordine di tempo i sacramenti della rinascita (iniziazione), battesimo e confermazione, che introducono il credente nella comunità della chiesa con tutti gli effetti di grazia che questo processo comporta. Il sacramento della penitenza e l’unzione degli infermi vengono in aiuto del cristiano in particolari situazioni. L’ordine e il matrimonio sono una chiamata e una abilitazione, volta a volta, a particolari servizi nella chiesa ("sacramenti di stato"). Importante settore della liturgia è l’annunzio della parola di Dio nella lettura e nell’omelia, sia in connessione con la celebrazione di tutti i sacramenti sia anche come liturgia della Parola a sé stante. Il Vaticano II parla della «mensa della Parola», che si era deciso di preparare con maggiore abbondanza (SC 51). Una funzione importante è anche quella della liturgia delle ore della chiesa quale quotidiana liturgia di preghiera e di lettura. Appartengono inoltre alla liturgia anche i sacramentali, consacrazioni e benedizioni di vario genere. Infine si possono pure considerare liturgia in senso lato le speciali assemblee liturgiche (funzioni, ore di preghiera, processioni) «delle chiese particolari, che vengono celebrati per mandato dei vescovi, secondo le consuetudini o i libri legittimamente approvati» (SC 13). Esse possono essere designate con buoni motivi come liturgia diocesana anche se la SC cerca di distinguerli dalla liturgia vera e propria (pii esercizi), la quale è per sua natura di gran lunga superiore (SC 13).

I.4. Agente (soggetto) della liturgia
Dalla considerazione dell’essenza della liturgia è già emerso chiaramente che i due soggetti essenziali del culto cristiano sono Cristo e la chiesa. Nella concreta celebrazione liturgica la chiesa è costituita dalla comunità radunata o dal gruppo. In essa assumono un rango particolare i ministri costituiti in forza del sacramento dell’ordine nei suoi tre gradi, ossia i vescovi, i presbiteri e i diaconi. Alcune azioni liturgiche sono riservate esclusivamente ad essi, e precisamente in certi settori della liturgia, non solo per una semplice determinazione giuridica, ma sulla base del potere sacramentale. Ma anche i laici, in forza del loro sacerdozio universale ricevuto nel battesimo e nella confermazione, sono soggetti della liturgia, sono un «sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio» (1Pt 2, 3.9). Ogni singolo fedele è quindi chiamato nelle azioni liturgiche ad aprirsi alla parola di Dio, ad unirsi e a collaborare alla preghiera di lode, di ringraziamento e di domanda della comunità e, durante e dopo la celebrazione, ad essere testimone di Cristo nella fede, nella speranza e nell’amore.

Il concilio Vaticano II esprime questo atteggiamento con la parola partecipazione attiva (participatio actuosa). La sola SC parla in non meno di 16 luoghi di questo essenziale atteggiamento dei credenti e lo determina più esattamente come partecipazione piena, consapevole, attiva, devota e comunitaria, che è richiesta dalla natura della liturgia, e alla quale il popolo cristiano «ha diritto e dovere in forza del battesimo» (SC 14). Anche se l’intima partecipazione spirituale dell’anima è indispensabile e deve stare al primo posto, tuttavia essa, essendo l’uomo composto di anima e di corpo, richiede anche un’espressione corporale, visibile e sensibile. Questa partecipazione attiva può articolarsi in molte forme ed espressioni, come ad es. in acclamazioni, risposte, preghiere e canti di stili diversi, in posizioni corrispondenti come inchinarsi, genuflettere e inginocchiarsi, stare in piedi e sedere, in gesti delle mani e azioni esteriori come il presentare i doni eucaristici e le offerte caritative. L’ascoltare e il guardare attentamente, ed eventualmente anche il tacere meditativo non possono essere disattesi in questa enumerazione (cf. SC 30). Senza dubbio è un importante compito pastorale-liturgico rendere possibile ai fedeli tale partecipazione alla liturgia e spiegarne il senso profondo.

Tra i laici come attori della liturgia assumono un particolare ruolo alcuni gruppi. La SC ricorda espressamente «i ministranti, i lettori, i commentatori e i membri della "schola cantorum"», i quali svolgono «un vero ministero liturgico» (SC 29). Ad essi sono da aggiungere i ministri straordinari della comunione e gli incaricati di presiedere le celebrazioni in assenza del sacerdote, gli organisti, i cantori e in certo senso anche i sacrestani e gli addetti al culto. Senza dubbio tali servizi presuppongono, accanto alla necessaria conoscenza tecnica, una buona formazione liturgica

Un particolare significato ha anche il "gruppo liturgico", che come commissione del consiglio parrocchiale, in stretta collaborazione con i sacerdoti della parrocchia, si adopera per una messa in opera ottimale della liturgia.

 

II. Storia della Liturgia

La panoramica che segue può evidenziare solo le più importanti linee di sviluppo della liturgia cristiana (la maggior importanza viene data chiaramente alla liturgia occidentale).
Si potrebbe paragonare lo sviluppo della liturgia alla crescita di un albero, che ha le sue radici nella comunità primitiva ma in parte anche nell’epoca precristiana, e specialmente nella liturgia ebraica. Nel corso dei secoli esso produce nuovi rami, si libera di altri, cresce «nel segno della più grande varietà e tuttavia come un tutto unico, nutrito dall‘unico terreno vitale, Gesù Cristo. Un altro paragone si potrebbe fare con un edificio, ad es. un castello o una cattedrale, il cui impianto originario è stato notevolmente cambiato nel corso del tempo da trasformazioni o aggiunte e con nuove sistemazioni dell’interno. Spesso non è possibile riconoscere la forma originaria al primo sguardo, ma solo con uno studio approfondito. E di qui emergono anche dei criteri per giudicare se queste mutazioni corrispondono alla forma e all’intenzione originaria, e se e come devono essere operate delle riforme.

II.1. L’epoca degli inizi

II.1.a) La liturgia negli scritti neotestamentari
Nel NT non si trova alcuna descrizione sistematica della primitiva liturgia cristiana, ma piuttosto una quantità di particolari e di accenni, che hanno bisogno di una spiegazione differenziata.

Come espressione abituale per indicare la celebrazione liturgica della comunità primitiva si trovano nel NT i verbi "convenire" e "riunirsi". Luogo del raduno era per la comunità primitiva a Gerusalemme dapprima il Tempio, nel quale i cristiani insieme con i loro concittadini ebrei partecipavano ai tradizionali uffici di preghiera (At 2, 46a; 5, 1; 5,12.42; 22, 17). Accanto ad esso, le riunioni nelle case di abitazione acquistarono progressivamente di importanza. Come luogo esclusivo di riunione liturgica il Tempio aveva perso il suo ruolo per i cristiani. Sia dal racconto dei pasti col Risorto che dal miracolo di pentecoste risulta chiaro che l’incontro con il Signore glorificato e l’invio del suo Spirito non sono collegati con il Tempio.

Come contenuto di queste riunioni nelle case gli Atti menzionano la «frazione del pane» e i pasti presi «con letizia e semplicità di cuore» (2, 46). In ciò si deve vedere, alla luce di altri passi biblici (ad es. At 20, 7; 1Cor 10, 16s.; 11, 17-34) sia l’agape fraterna sia la cena eucaristica. Unite a esse sono la lode di Dio e la preghiera di intercessione (ad es. At 2, 14.24.42.47; 4, 24-31; 12, 5b). Era quasi naturale che in questo insieme confluissero forme della preghiera giudaica come le Berakot (= preghiera di benedizione) ed elementi singoli come "Alleluia", "Amen", "Osanna". In tutte le riunioni liturgiche la comunità era consapevole della presenza, che le era stata promessa, del suo Signore (Mt 18, 20; 28, 20) e dello Spirito ugualmente promesso. Nell’annuncio degli apostoli e degli altri testimoni oculari della vita di Gesù il ricordo delle opere salvifiche di Dio diveniva vivente. Questa "scuola di fede" rendeva i singoli discepoli capaci non solo di essere assidui all’insegnamento degli apostoli (At 2, 42), ma anche di divenire essi stessi testimoni della buona novella.

In particolare la riunione liturgica in domenica guadagnò ben presto di importanza. Questa, come primo giorno della settimana, era il giorno della risurrezione di Gesù, al quale la memoria di questo dato fondamentale della fede cristiana si addiceva particolarmente (cf. At 20, 7; 1Cor 16, 2; Ap 1, 10). Che la domenica di pasqua già presto avesse un particolare rilievo come "pasqua annuale" si può dedurre tra l’altro da 1Cor 5, 7, dove Paolo con riferimento al rito della festa ebraica afferma: «infatti Cristo, nostra pasqua, è stato immolato». Con questo evento salvifico la festa di pasqua ebraica ha acquistato per i cristiani un senso nuovo, anche se nelle comunità guideo-cristiane il distacco definitivo dalla festa pasquale ebraica, quale giorno commemorativo della storia veterotestamentaria della salvezza, si compì con probabilità salo lentamente.

Un elemento fondamentale della liturgia neotestamentaria era la celebrazione del battesimo. Dagli scritti neotestamentari non emerge con chiarezza se essa fosse già connessa con la pasqua settimanale annuale.

Il NT ha anche una viva consapevolezza del fatto che Gesù, il quale ha perdonato personalmente i peccati, ha lasciato alla sua chiesa il potere di perdonare nella forza dello Spirito Santo (Mt 16, 19; 18, 15-18; Gv 20, 23).

Non c’è alcun dubbio che le primitive comunità cristiane collegassero strettamente con le loro celebrazioni e realizzassero nella vita quotidiana la parola e l’esempio del loro Signore sul fattivo amore del prossimo. Vi fanno riferimento già passi biblici come At 4, 32-34; 6, 1; Rm 12, 10.13 e altri. Ciò faceva parte di quell’atteggiamento spirituale dei cristiani che Paolo in Rm 12, 1 richiede come «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» e proclama «culto spirituale».

Non è possibile identificare per questa epoca primitiva uno stabile ordinamento delta liturgia. Grandissima è la varietà dei carismi esercitati da molti membri della comunità, quale è documentata dagli Atti degli apostoli, dalle lettere paoline e da quelle postpaoline. Paolo vuole che ai carismi dello Spirito sia assicurato un ampio spazio: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5, 19-21). Ciò che oggi chiamiamo "partecipazione attiva" dei membri della comunità, è espresso nella raccomandazione: «Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle» (1Cor 14, 26). Questa ricca varietà appare anche nelle comunità postpaoline, quando ad es. in Ef 5, 19 si dice: «intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo». Di fronte a un certo eccesso soggettivo di contributi celebrativi, come appare in 1Cor 14, Paolo sottolinea che ogni cosa deve avvenire in modo che «tutto si faccia per l’edificazione... tutto avvenga decorosamente e con ordine» (1Cor 14, 26.42).

Con l’aumentare degli eretici e degli pseudo carismatici, cresce alla fine del I sec, la preoccupazione di mantenere pura la dottrina e la liturgia. Ciò emerge soprattutto nelle Lettere pastorali. «Solo i ministri e cioè episcopi, presbiteri, e diaconi, che grazie all’imposizione delle mani si trovano nella successione apostolica, hanno il diritto di agire nel nome di Gesù, anche nell’ambito del culto. A questi sono passate le funzioni dei maestri e dei profeti... Solo di passaggio viene ancora menzionato l’elemento profetico (1Tm 1, 18; 4, 14). La caratterizzazione della liturgia in rapporto all’ufficio e al diritto è la conseguenza necessaria di questo sviluppo».

II.1.b) La liturgia nei documenti dei secoli II-III
Uno dei più antichi scritti cristiani dell’era subapostolica - la Didachè o Dottrina dei dodici apostoli, scoperta solo nel 1873, ci dà alcuni importanti chiarimenti sulla vita liturgica tra l’80 e il 130, ad es. sulla celebrazione del battesimo (cap. 7), sul digiuno e la preghiera (cap. 8) e sulla celebrazione dell’agape e dell’eucaristia (cap. 9s.), specialmente in domenica (cap. 14), e qui essa, con citazione di Ml 1, 11.14, è designata come «sacrificio» (thysía). Nel capitolo 15, 2 si ha una ammonizione a frequenti riunioni, per la salvezza dell’anima.

La Lettera del papa Clemente alla comunità di Corinto, scritta nell’anno 96, è un esempio dell’uso, che si diffondeva, di accogliere nell’ambito cristiano testi di preghiera ebraici (cap. 59-61).

Le sette Lettere del vescovo Ignazio di Antiochia redatte verso anno 110 lasciano trasparire con particolare chiarezza la preoccupazione, già emergente nelle Lettere pastorali, di salvaguardare la liturgia da adulterazioni da parte di eretici. Perciò sia il battesimo che l’eucaristia, l’agape e il matrimonio si devono compiere solo in accordo con vescovo: «Quello che egli approva è gradito a Dio, perché tutto ciò che si fa sia legittimo e sicuro». Mentre Ignazio considera come segno caratteristico degli eretici il tenersi «lontani dall’eucaristia e dalla preghiera», nella lettera alla comunità di Efeso ammonisce di radunarsi più frequentemente per l’eucaristia e per la preghiera di lode, perché così «le forze di Satana vengono abbattute e il suo flagello si dissolve nella concordia della fede», una ammonizione che come Didachè 15, 2 ed Eb 10, 25 lascia dedurre un’iniziale indifferenza e rilassatezza nella frequenza alla liturgia.

La lettera del proconsole Plinio il giovane dalla Bitinia all’imperatore Traiano nell’anno 112 riferisce di due riunioni liturgiche dei cristiani in un giorno stabilito. L’una ha luogo ancora prima dello spuntare del giorno; in essa vengono innalzati alternativamente dei canti di lode a Cristo «come a un Dio» e i cristiani si impegnano con giuramento all’osservanza di determinati comandamenti. La sera essi si radunano insieme per un pasto innocuo. J.A. Jungmann suppone che la prima riunione sia la celebrazione dell’eucaristia e la seconda un’agape.

Preziose conoscenze sulla liturgia cristiana verso l’anno 150 ci sono comunicate dalla prima Apologia del filosofo e martire Giustino (†~165). Accanto all’esposizione sul battesimo (cap. 16), i capitoli 65-67 incontrano il nostro particolare interesse, in quanto descrivono la celebrazione eucaristica. All’inizio c’è una liturgia della Parola, nella quale vengono lette le «memorie degli apostoli» e gli scritti dei profeti. Seguono l’omelia del presidente, e la preghiera dei fedeli. Dopo la preparazione dei doni (vengono portati pane, vino e acqua), il presidente dice la «preghiera di ringraziamento», alla quale il popolo risponde con l’Amen. «Quindi si fa la distribuzione e la spartizione a ciascuno degli alimenti consacrati e se ne manda per mezzo dei diaconi anche ai non presenti».

Troviamo dei testi liturgici per la prima volta nell’ordinamento ecclesiastico scritto attorno al 215 dal prete romano e più tardi antipapa Ippolito (†235) che, come rappresentante dei circoli conservatori, cerca di preservare la "Tradizione apostolica" (così la traduzione del titolo greco) da contraffazioni. Questi testi si riferiscono al battesimo, all’eucaristia, ai tre gradi dell’ordine, alle benedizioni, alle preghiere e all’agape. Tra essi si trova anche una "preghiera eucaristica" che dopo il Vaticano II fu accolta nel Messale Romano con alcuni adattamenti come Preghiera eucaristica II. Pur presentando dei testi Ippolito riconosce il diritto di libera formulazione da parte del vescovo, se questi ne è all’altezza.

Quanto Ippolito riferisce su battesimo, eucaristia e conferimento del ministero ecclesiale, è confermato per l’essenziale anche dagli scritti di Tertulliano (†~220) e Cipriano (†258).

In sintesi si può affermare per i primi tre secoli che, pur con tutta la varietà nella formulazione dei testi e nei singoli riti, c’era tuttavia nel complesso della chiesa una struttura unitaria della liturgia cristiana. Ciò vale soprattutto per la celebrazione dell’eucaristia. Nonostante tutta la varietà nei particolari si può parlare di forma fondamentale unitaria della santa Cena. Le differenze non sono di tipo fondamentale; si tratta piuttosto di accentuazioni. Si è parlato di uno «schema di Giustino», che è alla base delle celebrazioni eucaristiche della maggior parte delle liturgie fino a oggi. Così diventa anche comprensibile come il vescovo Policarpo di Smirne nella sua visita a Roma nell’anno 154, su invito del papa Aniceto, possa celebrare l’eucaristia e come questo gesto di comunione venga raccomandato dalla Didascalia siriaca (verso il 250) per casi simili.

II.2. La liturgia cristiana nei secoli IV-VI
Con il programma di tolleranza dell’imperatore Costantino, che egli aveva progettato assieme a Licinio nel 313 a Milano e che aveva inviato ai governatori delle province in forma di editto ("Editto di tolleranza di Milano"), il cristianesimo sperimenta piena libertà ed equiparazione con le altre religioni. Seguono parecchi privilegi a favore dei cristiani fino alla proclamazione del cristianesimo come unica religione di stato legittima, nell’anno 380, sotto gli imperatori Graziano (Occidente) e Teodosio (Oriente). Alla chiesa perseguitata di un tempo succede la chiesa privilegiata di stato.

II.2.a) Effetti della svolta costantiniana sulla liturgia
La svolta costantiniana ebbe anche conseguenze sulla liturgia della chiesa. Ciò appare già nell’immagine esteriore della chiesa. Le celebrazioni, specialmente nelle grandi città, hanno luogo ora in splendide basiliche costruite soprattutto con l’aiuto dell’imperatore e dei membri della sua famiglia (ad es. la madre dell’imperatore, Elena). Ciò comporta naturalmente una liturgia più solenne. A ciò si aggiunge che i vescovi sono equiparati ai più alti funzionari dell’impero. Secondo il cerimoniale imperiale di corte ora essi vengono accompagnati, quando entrano solennemente nelle basiliche, da portatori di lumi e di incensieri, e vengono condotti a un trono. Come all’imperatore e ai suoi più alti funzionari viene tributato a essi, come segno d’onore, l’inchino e la proskynesis (il prostrarsi e il toccate terra con la fronte). La valorizzazione sociale del vescovo e del suo clero porta anche a un solenne abbigliamento di tipo ufficiale con determinate insegne come stola, pallio e manipolo, da cui si sviluppa l’abbigliamento liturgico più tardivo. Per quello che noi sappiamo, soltanto pochi vescovi esitarono a dare importanza alle loro insegne e prerogative di origine statale, e a usarne negli edifici sacri. E’ però anche vero che questi pochi riluttanti costituivano le migliori personalità del loro tempo: Ilario di Poitiers, Martino di Tours, Fulgenzio di Ruspe e Agostino. Ma la maggioranza era certamente persuasa che l’autorità della chiesa avrebbe acquistato prestigio se i rappresentanti di questa autorità fossero stati circondati anche dallo splendore delle insegne di un rango statale e dal corrispettivo cerimoniale.

Mentre in questo modo la chiesa si mostra aperta a un certo aumento dello sfarzo esteriore, essa rimane riluttante di fronte alla ricca cultura musicale dell’antichità. Ciò potrebbe essere causato soprattutto dal fatto che nei vari sacrifici pagani gli strumenti musicali avevano un grande ruolo ed erano considerati come parte del culto. Presso i Romani in ogni sacrificio era prescritto il flauto, presso i Greci, la lira e il timpano. Si usava la musica per allontanare i demoni... e per avvicinare gli dei. I cristiani invece si accontentavano del canto responsoriale; solo più tardi venne in uso anche quello antifonico (con due cori). Il canto liturgico ebbe particolare incremento grazie ad Ambrogio di Milano, il quale non solo con la sua comunità praticava il canto dei salmi, ma anche componeva degli "inni".

Una facilitazione essenziale della frequenza alla liturgia domenicale è costituita dalla legge di Costantino del 3 marzo 321. Essa dichiara «il venerabile giorno del sole» giorno di riposo per tutti i giudici, la popolazione della città e tutti gli artigiani. La popolazione della campagna deve attendere al proprio lavoro per non perdere le ore di tempo favorevole. Alcuni mesi più tardi (3 luglio) un’altra legge dispone che l’auspicabile liberazione degli schiavi non cada sotto il comando del riposo. L’evoluzione ulteriore porta a che il riposo dal lavoro sia posto sempre più al centro della santificazione della domenica. Le "opere servili" in domenica sono considerate gravi infrazioni delle leggi statali ed ecclesiastiche, e vengono punite con misure draconiane. In tutto ciò ci si richiama alla legislazione veterotestamentaria del sabato, anche se già prima numerosi scrittori cristiani avevano messo in luce che questa proibizione appartiene alle leggi cerimoniali ebraiche e non obbliga i cristiani.

In connessione con la difesa dall’arianesimo, che combatte la divinità di Cristo, cambiano anche talune forme di preghiera. Cosi dalla domanda molto diffusa al «Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo» si passa alla formula conclusiva «al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo». Anche talune preghiere si rivolgono ora immediatamente a Gesù Cristo e non più al Padre. La riverenza per il Signore presente nell’eucaristia, quale Figlio consostanziale di Dio, si accentua sempre più. Si parla di mysterium tremendum, il mistero terribile, al quale ci si può accostare soltanto con timore e tremore. Già nel sec. IV ci sono esempi del fatto che le parole dell’istituzione e le preghiere prima e dopo (Postsanctus e Anamnesi) sono pronunciate solo sottovoce. La linea di separazione tra altare e assemblea è accentuata in quanto le transenne dell’altare vengono sopraelevate e munite di cortine (specialmente in Oriente) per impedire, durante la preghiera culminante dell’Anafora (= preghiera eucaristica), la vista dell’altare. Di qui si sviluppa la più tardiva iconostasi delle chiese bizantine. Ma la conseguenza più deplorevole fu la riduzione della partecipazione alla comunione. In Oriente già nel sec. IV ci si accontenta di ricevere la comunione da una a due volte l’anno, un uso al quale l’Occidente si adegua solo un po’ più tardi. Questa prassi non poggiava certo sul comando istituzionale di Cristo!

Nella misura in cui, per la posizione privilegiata della chiesa e la sua elevazione a religione di stato obbligatoria, grandi masse popolari si riversano nella chiesa, sorge il pericolo di un appiattimento della partecipazione liturgica. Ne siamo informati ad es. da Agostino. Non solo egli lamenta vivamente il fatto che molti si accontentano di entrare nelle liste dei catecumeni e rimandano il battesimo, ma biasima la «massa di pubblico teatrale», che nei giorni di festa frequenta le celebrazioni più per motivi esteriori che per vera devozione. «Non si è ormai radunata nella chiesa una massa così grande che per la gran pula non vediamo quasi più il grano?... Se si dice o si raccomanda qualcosa di spirituale essi si ribellano, seguono la carne e si oppongono allo Spirito santo».

Con la fine delle persecuzioni dopo la svolta costantiniana, i martiri della fede diventano oggetto di particolare attenzione e venerazione. Incontriamo gli inizi di questo culto già presto soprattutto in Oriente, dove ad es. verso la metà del sec. II la comunità di Smirne in Asia Minore celebra la memoria annuale del suo vescovo e martire Policarpo (†133 o 136). Anche in Occidente il culto dei martiri guadagna sempre più in popolarità. La loro morte come testimoni è vista in connessione con il mistero pasquale di Cristo, e all’invocazione dei martiri si attribuisce grande efficacia, specie se innalzata presso la loro tomba. Più tardi anche altre comunità adottano il culto di martiri importanti nel loro calendario e sostituiscono la tomba mancante con reliquie (anche reliquie da toccare: brandea), e in un’epoca più tardiva anche con immagini.

Per l’elaborazione della preghiera, specialmente per lo sviluppo della quotidiana Preghiera delle ore fu di particolare importanza il consolidamento del monachesimo nel sec. IV. Monaci e vergini consacrate a Dio, a partire dal sec. IV si unirono ovunque in comunità. Essi hanno eretto di preferenza i loro monasteri nella solitudine. Ma proprio in Italia tali monasteri sono sorti anche nella città e soprattutto in vicinanza di celebri tombe di martiri, presso la loro basilica. Queste fondazioni conventuali erano nate evidentemente dal desiderio che nella basilica costruita sulla tomba non venisse mai a mancare la preghiera delle ore alla maniera dei monaci.

II.2.b) La formazione delle famiglie liturgiche in Oriente e Occidente
Di grande significato per la formazione ulteriore della liturgia è l’influsso dei grandi centri ecclesiali, che dopo la svolta costantiniana aumenta sotto l’aspetto teologico-disciplinare e liturgico. Non dappertutto si riesce tuttavia a eliminare le diversità regionali. Al contrario sorgono e si consolidano nuovi gruppi di riti sotto l’azione sia delle controversie teologiche sulla trinità e la cristologia sia anche di componenti etnico-culturali e politiche. Occorre un occhio esercitato per orientarsi in questo "labirinto" delle forme liturgiche in Oriente e in Occidente. Certo la nostra rapida panoramica non permette di dare descrizione approfondita dei contenuti.

II.2.b.1) Le liturgie orientali
In Oriente il patriarcato più antico e centro ecclesiale predominante era Antiochia, la capitale della provincia romano-bizantina di Siria. Mentre la città e il territorio costiero erano di lingua e di cultura greca, i territori interni e quelli confinanti con la Persia parlavano il loro dialetto siro-aramaico. La liturgia formatasi nei primi secoli ad Antiochia (liturgia siro-occidentale) si chiama anche liturgia di s. Giacomo a motivo dell’anafora di s. Giacomo proveniente da Gerusalemme. Essa è documentata nella Didascalia, nelle Costituzioni apostoliche della fine del sec. IV e nelle omelie di s. Giovanni Crisostomo (†407) del vescovo Teodoro di Mopsuestia (†428).

Da questa liturgia di s. Giacomo celebrata in lingua greca è da distinguere la liturgia giacobita del sec. VI, denominata così dal suo organizzatore Giacomo Baradai (†577). Essa traduce la liturgia di s. Giacomo in siriaco e la collega con tendenze monofisite ed elementi siro-orientali. Più tardi si aggiungono influssi bizantini.

Vengono designati come Melchiti i cristiani rimasti ortodossi, i quali si appoggiano a Bisanzio e dal sec. XII adottano il rito bizantino. I Maroniti del Libano, chiamati così dal monaco Marone, hanno una Liturgia di tipo siro-occidentale con particolarità siro-orientali. Dal tempo delle crociate, dopo l’unione con Roma, essa è stata fortemente latinizzata.

I territori siro-orientali con i centri di Edessa e Nisibi (Mesopotamia = Iraq) caddero ben presto sotto il dominio dei Persiani e si trovarono così in un forte isolamento nei confronti dell’Occidente. Dopo il concilio di Efeso (431) aderirono al nestorianesimo. La loro liturgia detta anche siro-mesopotamica contiene numerosi elementi primitivi e presenta dei problemi agli studiosi. Così la "Anafora degli apostoli", dei santi Addai e Mari, molto usata, non contiene le parole dell’Istituzione.

Una vivace attività missionaria di questa "chiesa nestoriana" estese il cristianesimo tra l’altro anche nelle coste sud-occidentali dell’India (Malabar, oggi Kerala), dove si mantenne attraverso i secoli. Poiché questi indiani fanno risalire la loro fede all’apostolo Tommaso, essi si chiamano anche cristiani di s. Tommaso. Quando i Portoghesi nel sec. XVI prendono piede in quella regione, si inizia una rigorosa latinizzazione, e in quell’occasione una parte di questi cristiani malabaresi si staccò da Roma e col nome di "Malankaresi" aderì al patriarcato siro-antiocheno. Nel 1962 e ancor più dopo il Vaticano II ai Malabaresi fu nuovamente permesso il loro antico rito.

Sono designati come Caldei i cristiani del rito siro-mesopotamico uniti a Roma, i quali vivono soprattutto nell’attuale Siria e in Iran, ma anche a Cipro.

Nel patriarcato di Alessandria troviamo dapprima la cosiddetta liturgia di s. Marco, fortemente influenzata dalla Siria. Uno dei pochi documenti rimastici è l’Eucologio del vescovo Serapione di Tmuis (basso Egitto) della metà del sec. IV. Dopo il concilio di Calcedonia (451) il patriarcato aderisce al monofisismo. Da una rielaborazione e traduzione della liturgia di s. Marco si sviluppa il rito copto (= egiziano) ed etiopico (abissino). I cristiani che rimangono ortodossi (soprattutto sui tratti costieri) aderiscono più saldamente al rito bizantino e vengono chiamati, come nella Siria occidentale, Melchiti (gli imperiali).

Particolare importanza per la storia della liturgia acquista Gerusalemme. Secondo il diritto ecclesiastico essa fu elevata a patriarcato solo al concilio di Calcedonia (451); ma il suo collegamento con la storia della salvezza cristiana la fa diventare specialmente dal sec. IV un luogo privilegiato di pellegrinaggio e un centro di devozione. Costantino e la sua famiglia fanno costruire sui luoghi santi splendide chiese, nelle quali nel corso dell’intero anno si radunano numerosi pellegrini e dove quotidianamente vengono celebrate liturgie. Su ciò ci informa diffusamente verso l’anno 400 la pellegrina della Francia meridionale Egeria (o Aetheria). Le celebrazioni liturgiche di Gerusalemme, attraverso i numerosi pellegrini vengono conosciute anche in altri paesi e vengono volentieri imitate. Importanti conoscenze sulla liturgia di Gerusalemme ci sono fornite anche dalle Catechesi mistagogiche, prima attribuite per lo più a Cirillo di Gerusalemme, ma oggi più frequentemente, al suo successore Giovanni. Nella celebrazione eucaristica viene usata per lo più l’Anafora di s. Giacomo che di lì si diffuse anche in altre regioni. Anche la preghiera delle ore e il ciclo delle feste di Gerusalemme furono determinanti per altre parti della chiesa (così la Settimana santa e la celebrazione della pasqua, l’ascensione del Signore, pentecoste e diverse feste mariane). A partire di qui penetra chiaramente nella liturgia un elemento storicizzante, che emerge anche nella scelta delle letture per le singole feste.

La maggiore diffusione tra le numerose liturgie orientali l’ottenne quella di Bisanzio. E ciò per parecchi motivi: il patriarca di Bisanzio, in connessione con il fatto della residenza dell’imperatore, ottiene un rango preminente su tutti gli altri patriarchi dell’Oriente (ufficialmente dal 451); gli antichi patriarcati di Antiochia e di Alessandria diventano monofisiti e cadono ben presto sotto il potere dell’Islam. Di grande importanza per l’ulteriore espansione della liturgia bizantina è l’attività missionaria dei santi Cirillo e Metodio, dai quali è tradotta in paleoslavo (seconda metà del sec. IX), e la sua adozione da parte dell’impero russo (987).

Le sue radici si estendono dapprima verso Antiochia e la Cappadocia, ma anche, con un movimento di ritorno, verso Gerusalemme. La sua liturgia eucaristica più frequentemente usata è quella detta di s. Giovanni Crisostomo (354-407), la quale però fu terminata solo nel sec. VIII. In dodici giorni all’anno viene celebrata la liturgia di s. Basilio (329-379), un cappadoce. Inoltre in particolari giorni c’è ancora la "liturgia dei (doni) presantificati".

Molto simile alla bizantina è la liturgia armena. Essa in parte si rifà a comuni radici antiochene e cappadoci, ma ha conosciuto anche influssi bizantini diretti.

Infine è il caso di menzionare la liturgia georgiana o grusiana diffusa nell’ambito dell’attuale Georgia con capitale Tiflis. All’origine fortemente dipendente dall’Armenia e dalla Siria, venne più tardi "russificata", e cioè cadde sotto l’influsso della liturgia bizantino-russa.

II.2.b.2) Le liturgie occidentali
In Occidente si possono constatare due tipi fondamentali di liturgie: quella nordafricano-romana e quella gallicana.

Sulla forma della liturgia nordafricana siamo informati soprattutto dagli scritti di s. Agostino. La lingua era fin dall’inizio il latino, a differenza di Roma dove il greco (cf. l’ordinamento ecclesiastico di Ippolito) dovette cedere alla lingua latina solo nel corso del sec. IV. Da un sinodo di Ippona nell’anno 343 sappiamo che nelle singole diocesi non c’erano testi unitari. Piuttosto ogni vescovo poteva usare testi propri o di altri; prima però doveva farli esaminare da confratelli competenti. Questa disposizione ritorna in seguito in parecchi sinodi africani. Tuttavia quanto alla struttura complessiva, soprattutto della messa e dell’anno liturgico, esiste una forte affinità con la liturgia romana.

Di questa conosciamo precisamente per i secoli IV-VI talune particolarità, ma i testi liturgici veri e propri - inaspettatamente - vengono trasmessi relativamente tardi. Il documento più antico è il Sacramentarium Veronense, a lungo attribuito al papa Leone I (440-461), ma sorto in realtà solo nella seconda metà del sec. VI. Si tratta di una composizione di "libelli" più antichi, e cioè di fogli o quaderni, nei quali sono registrati i testi di determinate celebrazioni romane nel corso dell’anno; per certe feste sono stati accolti più formulari (ventotto solo per la festa dei santi Pietro e Paolo). I mesi la gennaio ad aprile, comprese Quaresima e festa di pasqua, non sono contenuti. Il secondo sacramentario fu attribuito al papa Gelasio I (492-496), ma certo ebbe origine (come Gelasiano antico) solo a metà del sec. VII come sacramentario di una chiesa titolare romana. Il Sacramentario gregoriano poté esser stato redatto dal papa Gregorio I (590-604) verso il 392, e precisamente come sacramentario annuale per le liturgie papali (liturgie-stazionali). Il papa Adriano I (772-795) ne inviò un esemplare rimaneggiato all’imperatore Carlo Magno. Per le necessità della chiesa franca esso venne ivi provvisto di un supplemento (Hucusque). Sorsero poi, nel sec. VIII e più tardi, numerose forme miste, che vengono designate anche come Gelasiani del sec. VIII o Gelasiani recenti.

Nonostante l’epoca relativamente tarda in cui sono sorti i sacramentari romani, la ricerca ha dimostrato che taluni testi risalgono a Leone I, altri ai papi Gelasio I e Vigilio (537-535). Gregorio I acquistò particolari meriti nel riordinamento della liturgia romana. In tutte le antiche preghiere romane troviamo un linguaggio conciso, obiettivo e quasi giuridico e il rifiuto di ogni caratterizzazione poetica e sentimentale del rito. Questo tipo di linguaggio corrispondeva all’apprezzatissima retorica romana di allora. Caratteristico per la messa romana è l’uso di un’unica Preghiera eucaristica (Canone), la quale prevede solo per poche parti piccole variazioni.

Al tipo liturgico gallicano appartengono tutti i riti occidentali fuori dell’ambiente romano. Nonostante tutte le diversità essi concordano nel fatto di essere influenzati fortemente dai riti orientali, specialmente da quello bizantino; la lingua (latina) è più prolissa e colorita, il cerimoniale più drammatico. Per effetto della reazione antiariana le preghiere, contrariamente all’abitudine romana, spesso si rivolgono direttamente a Cristo.

In particolare distinguiamo:

- L’antica liturgia ispanica, detta anche gotico-occidentale o, dopo l’occupazione della Spagna meridionale da parte degli Arabi maomettani, anche liturgia mozarabica.

- L’antica liturgia della Gallia o gallicana fu celebrata in Gallia, con numerose particolarità locali, poiché mancava un centro preminente e unificatore.

- La liturgia celtica presso gli Irlandesi, gli Scozzesi e nel Galles, è fortemente caratterizzata da elementi ispanici, gallicani e anche romani. Essa è stata tramandata in modo molto incompleto e data da un’epoca più tardiva. Il documento più importante è il Messale di Stowe (sec. VIII e X).
- La liturgia milanese è praticata ancor oggi in tutta la provincia milanese. Solo nel sec. VIII fu fatta risalire a s. Ambrogio e perciò fu detta anche liturgia ambrosiana. La sua vera origine è ancora nel mistero. Forse essa ha la stessa forma originale della liturgia romana. Sulla sua forma antica numerose particolarità ci vengono riferite dagli scritti di s. Ambrogio (circa340-397), De mysteriisDe sacramentis. Il Canone è essenzialmente quello romano, inoltre si trovano molti elementi in comune con la liturgia gallicana.

II.3. La liturgia occidentale nel Medioevo
Quello che diremo adesso è dedicato prevalentemente allo sviluppo della liturgia romana.

II.3.a) L’epoca delle relazioni di scambio tra le liturgie
Con il sec. VII comincia a Nord delle Alpi un ampio processo di fusione della liturgia romana e di quella gallicano-franca, così che si può parlare di secoli di transizione. La spinta era data sia dal generale apprezzamento della chiesa romana, per la sua origine da Pietro, sia anche da una diffusa insicurezza e insoddisfazione del multiforme tipo liturgico gallicano da parte di molti vescovi e abati. Per il vescovo missionario anglosassone Bonifacio un importante intento era quello di unire più saldamente le stirpi germaniche a Roma e alla sua liturgia. Un intento del genere caratterizza anche gli sforzi del re Pipino, nell’anno 754 prescrive la liturgia romana per il suo regno. Carlo Magno porta a compimento l’opera con leggi simili nell’anno 785/786.

Però ciò che si adottava supponendo che fosse liturgia romana, era già mescolato con elementi gallicani e conobbe in seguito ulteriori adattamenti e trasformazioni gallicano-franche. Tutto ciò appare specialmente nella predilezione per le azioni drammatiche, per la moltiplicazione e il prolungamento delle preghiere e dei riti, per elementi soggettivi, che si trovano in numerose preghiere silenziose del vescovo e del sacerdote celebrante.

Verso la fine del sec. VIII si introduce lentamente l’uso di dire il Canone della messa ormai solo sottovoce. Ciò è motivato col fatto che qui il sacerdote entra nell’intimo del santuario e le parole sacre sono devono essere protette dalla profanazione. La spiegazione allegorica della messa determina la comprensione della liturgia. Ai fedeli si insegna a vedere dietro a ogni particolare liturgico un significato profondo che spesso è fittizio e del tutto artificiale. Tutto quanto viene interpretato, persone, paramenti, oggetti liturgici, indicazioni cronologiche, azioni, e precisamente in modo che ne vengono fuori ora ammonizioni morali (allegoresi morale), ora attuazioni dell’Antico Testamento (allegoresi tipologica), ora avvenimenti della storia della salvezza (allegoresi rememorativa), ora riferimenti al compimento alla fine dei tempi (allegoresi escatologica o anagogica). Principali rappresentanti di questa interpretazione allegorica furono nell’epoca carolingia Alcuino e il suo discepolo Amalario, vescovo di Metz, che furono anche i principali consiglieri di Carlo Magno.

Gli uomini di quest’epoca sono caratterizzati da un senso profondo di indegnità e di colpevolezza. Ciò porta tra l’altro a introdurre nei libri di preghiera e soprattutto nella messa numerosi riconoscimenti di colpevolezza (Apologie). E’ anche l’epoca in cui i monaci itineranti iro-scozzesi diffondono nel continente la confessione privata. Verso l’anno 800 essa è prescritta per l’intero regno dei Franchi. La penitenza pubblica tramandata dall’antichità ha la peggio.

Mentre gli antichi libri liturgici romani contengono quasi solo testi ma nessuna descrizione dello svolgimento del rito, sorgono lentamente anche istruzioni per la regia, che oggi si potrebbero designare come libretti di rubriche o di cerimonie, e che allora però si chiamavano Ordines (ordinamenti). La maggior parte appaiono a Nord delle Alpi. Tra essi a fatica si possono scoprire i pochi Ordines romani che spesso vi furono mescolati. Tali Ordines riuniti insieme danno origine a libri liturgici del tipo compendio. L’opera del genere più importante viene scritta verso il 950 dai monaci del monastero di S. Albano a Magonza e riceve più tardi il nome di Pontificale romano-germanico. Oltre all’Ordo Romanus Antiquus contiene testi gallicano-franchi con aggiunte proprie del redattore. Nella seconda metà del sec. X, sotto Ottone I questo libro giunge a Roma, dove la vita ecclesiastico-culturale si trova in una situazione desolata (saeculum obscurum - secolo oscuro viene chiamato dagli storici). Poiché nel sec. IX e nella prima metà del X a malapena si producevano ancora manoscritti con tanta maggiore gratitudine e prontezza si accolse a Roma questa opera e la si ricevette supponendo che essa fosse autentica liturgia romana. Lo stesso accadde con altri manoscritti. Così la liturgia romana di un tempo, ritorna in veste gallicano-franca a Roma e di lì quale «liturgia della curia romana» inizia il suo cammino vittorioso come liturgia unitaria dell’Occidente.

Quando con l’aiuto del regno dei Franchi si ebbe la cacciata degli Arabi (Mori) dalla Spagna anche l’antica liturgia ispanica (mozarabica) perdette di importanza a favore di quella (neo)romana e alla fine si mantenne ancora solo in una cappella a Toledo. Anche il tipo liturgico celtico dovette cedere a quelle romano. In Scozia ciò accadde nel sec. XI e in Irlanda lo stesso avvenne al sinodo di Cashel nel 1172. In Inghilterra la liturgia romana aveva già preso piede molto prima e precisamente per opera dell’abate benedettino Agostino, il quale per incarico di Gregorio I aveva avviato l’evangelizzazione degli Anglosassoni.

II.3.b) Da Gregorio VII alla vigilia della Riforma
Con papa Gregorio VII (1073-85) si inizia a Roma una fase di consolidamento non solo della vita ecclesiastica nel suo insieme, ma anche della liturgia. Egli e i suoi successori richiedono ora a tutti i vescovi di attenersi alla liturgia della curia romana. L’obiettivo stabilito poté essere raggiunto solo nel sec. XIII, allorché l’Ordine francescano con migliaia di predicatori itineranti adottò la liturgia della "curia romana" e si adoperò dovunque per la sua diffusione. Con l’epoca del Gotico, che non fu solo uno stile architettonico, ma interessò l’intera sfera pubblica e privata come uno stile di pensiero e di vita, nuove forze e nuove forme si introducono anche nella liturgia. Tratti caratteristici di questo nuovo atteggiamento spirituale sono individualismo, soggettivismo e moralismo.

Anche se la liturgia, secondo la sua natura, era sempre compresa e celebrata come azione comunitaria, pure si manifestano ora tendenze individualistiche e soggettivistiche. I messali plenari, che ora fanno la loro comparsa, permettono al sacerdote di celebrare la messa completamente da solo come messa privata senza lettore e senza coro dei cantori. Ma anche là dove essi prendevano parte attiva alle liturgie solenni, il celebrante si sentiva obbligato a recitare sottovoce i testi delle letture e dei canti. La liturgia diventa sempre più la liturgia del clero, nella quale i soli chierici fanno tutto, una tendenza che è ancor più rafforzata dal pergamo posto tra il presbiterio e l’altare. Esso divide lo spazio della chiesa in una "chiesa dei chierici" e una "chiesa del popolo" e così rompe già architettonicamente l’unità dell’unica comunità di Cristo costituita da chierici e da laici. Certo ora alla parte del pergamo rivolta al popolo è addossato un particolare altare per la "messa del popolo", ma anche qui la "messa letta" non favorisce alcuna partecipazione attiva dei fedeli.

Una tendenza affine alla privatizzazione si manifesta anche per la Preghiera delle ore. Il sorgere del "Breviario", che contiene tutti i testi dell’Ufficio, favorisce e incrementa la celebrazione individuale delle ore, che pure originariamente era pubblica e riguardava l’intera comunità.

L’Anno liturgico conosce un forte ampliamento con l’introduzione di nuove feste del Signore, della Madonna e dei santi. Le crociate incrementano il culto all’umanità di Cristo e a tutte le tappe della sua vita terrena. In particolare è la passione del Signore che più profondamente interessa e commuove l’uomo dell’epoca gotica e fa fiorire la devozione e la mistica della passione. Opere d’arte ispirate ad esse ornano le chiese e le cappelle, e inoltre gli edifici pubblici e privati.

Di pari passo col crescente culto dei santi aumentano il culto delle reliquie e i pellegrinaggi. Tutte le volte che una comunità o un privato (nobile) riesce ad arrivare in possesso di una reliquia (supposta) importante, si sente toccato dalla grazia e più sicuro della salvezza. Agli antichi luoghi di pellegrinaggio se ne aggiungono parecchi di nuovi, la maggior parte dei quali sorge grazie a racconti di apparizioni, miracoli e avvenimenti inconsueti. Molti fedeli affrontano i più grandi disagi per raggiungere tali luoghi e pregare in essi non salo per le loro necessità temporali, ma sopratutto per la salvezza della loro anima.

La predilezione per il realistico e il concreto porta a un grande desiderio di vedere il santo e il divino. Si vorrebbe vedere passibilmente con i propri occhi ciò che la fede annuncia e promette. Così le cattedrali gotiche diventano una sconvolgente simbolizzazione della Gerusalemme celeste. Nell’elevazione dell’ostia consacrata dopo le parole dell’istituzione, riferita la prima volta per Parigi poco dopo 1200, la messa conosce un nuovo momento culminante nella cansiderazione degli uomini di allora. La festa del Corpus Domini con la relativa processione diventa, a partire dalla seconda metà del sec. XIII, insieme al natale con la sua rappresentazione del presepio, la festa più amata. Anche durante il corso della messa si vuole vedere fin da principio il "Salvatore" nell’ostia consacrata. Così si arriva alle messe con il Santissimo esposto che, nonostante il riserbo di Roma, si sono mantenute fino alla metà del nostro secolo e delle quali ancor oggi taluni fedeli hanno il rimpianto. A scapito della vera celebrazione eucaristica emergono forme di pietà isolata, imperniata sull’adorazione. Anche la partecipazione alla comunione eucaristica regredisce terribilmente, così che il concilio Lateranense IV (1215) deve prescrivere la comunione almeno una volta l’anno. Responsabile di ciò è non tanto una mancanza di devozione quanto la eccessiva riverenza per il sacramento. Essa è anche una causa del fatto che l’ostia non è più deposta sulla mano ma sulla lingua del comunicando e la comunione al calice va fuori uso poiché si temeva oltre misura il rischio di versare anche una sola goccia (ciò accanto ad altri motivi).

Le idee stravaganti sull’efficacia del sacrificio della messa portano a un modo di pensare e di agire imperniato sulla quantità. Così nell’Autunno del Medioevo si arriva a sempre nuove messe votive e a numerose serie di messe, dalle quali ci si aspettano frutti straordinari. La frequenza del «dire la messa» aumenta fortemente, insieme con la grande schiera di quei sacerdoti che (dopo una cattiva formazione), come "altaristi" non hanno altro compito che di celebrare quotidianamente una messa in forza di un legato. Così nel duomo di Strasburgo, nell’anno 1521, c’erano non meno di 120 beneficiari, e in due chiese di Breslavia, nel sec. XV, c’erano 236 altaristi. Ciò comportava naturalmente una gran quantità di altari nella stessa chiesa, il che a sua volta favorì l’uso grottesco delle «messe a catena». Questi e simili abusi risvegliarono in molti cristiani sensibili il desiderio di una «riforma nel capo e nelle membra».

Accanto a queste deplorevoli forme di involuzione non si può trascurare la profonda fede, interiorità e disposizione al sacrificio da parte di vasti ambienti. Ciò è documentato anche in quella corrente di pietà, che si designa come mistica, come arte dell’immersione nel più profondo «intimo dell’anima», nell’«apice dell’anima» per fare così la più intensa esperienza del divino. Come esponenti è il caso di citare, per il sec. XII, Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), Ildegarda di Bingen (1098-1179) ed Elisabetta di Schönau (1129.1164). Dal sec. XIII furono soprattutto gli Ordini dei Francescani e dei Domenicani, a promuovere la corrente mistica di questo tempo. In Germania il sec. XIV portò la mistica al punto più alto; è il caso di citare solo le figure eminenti come Maestro Eckehart, Giovanni Taulero ed Enrico Susone. Dalla loro schiera venne anche l’appello sempre rinnovato a una interiorizzazione della vita religiosa.

Da una simile aspirazione all’interiorità era dominato il movimento di rinnovamento della devotio moderna, che alla fine del sec. XIV prese le mosse dai Paesi Bassi (G. Groote, mistico e predicatore penitenziale, †1384) e si diffuse in tutta l’Europa occidentale. Essa aspirava a una approfondita devozione a Cristo e alla sua imitazione, che trovò una classica espressione nella famosa opera di Tommaso da Kempis (1379-1471), l’Imitatio Christi (Imitazione di Cristo).

Entrambe le correnti hanno fecondato oltre alla vita di preghiera anche la liturgia della chiesa e hanno reso più profonda la partecipazione ai riti nel senso di una maggiore interiorità. Ma tali tentativi non potevano eliminare il dato di fatto per cui la liturgia era diventata liturgia del clero. La fede dei laici cercava e trovava spazio di azione e alimento in settori periferici, ad es. anche nelle numerose rappresentazioni dei Misteri, specialmente nelle grandi feste di natale, epifania e pasqua, ma anche in onore dei patroni della chiesa e della città. Per ogni necessità si cercava e si trovava un patrono, col culto del quale non di rado si univano idee e pratiche superstiziose. Il culto dei santi e delle loro reliquie, vere o false, prende spesso forme esagerate. Si cerca protezione e benedizione in sempre nuove forme; nel Rituale compare un profluvio di nuove benedizioni. Vengono fondate confraternite ed elaborate nuove forme di devozione. La vita religiosa diventa sempre più complicata. In tutto ciò appare una crescente insicurezza ed una molteplice insufficienza.

II.4. Dal concilio di Trento al concilio Vaticano II

II.4.a) Il concilio di Trento e la liturgia
Di fronte agli abusi esistenti nel complesso della vita ecclesiale, della quale la liturgia è certo una parte essenziale, si rafforzò già all’inizio del sec. XVI l’aspirazione a una «riforma del capo e delle membra». L’aspirazione a libri liturgici rinnovati e unici per l’intera chiesa diventa sempre più forte. Ma al momento tutto rimase al punto di prima. I papi del Rinascimento avrebbero dovuto innanzitutto rinnovare se stessi.

Così i Riformatori poterono collegare le loro pesanti accuse con la richiesta di cambiamenti fondamentali e in tal modo incontrare ampia disponibilità e consenso. Dopo grandi difficoltà si giunse finalmente al concilio di Trento (1545-1563, con grandi interruzioni). Importante per il rinnovamento della liturgia fu l’ultimo periodo di sessioni: 1562-63. Una commissione fu incaricata di raggruppare gli abusi della messa esistenti (abusus missae). La lista preparata nella forma più concisa abbraccia sei pagine in quarto, «la più ampia raccolta di idee di riforma liturgica». Ma il concilio, dato il tempo limitato, non poté occuparsi della materia diffusamente. Tuttavia esso prese un’importante decisione in quanto incaricò il papa, con l’aiuto di una commissione di esperti, di preparare un nuovo catechismo e di rieditare tutti i libri liturgici. Dopo il Catechismus Romanus (1566) uscirono quindi sotto Pio V (1566-72) il Breviario romano (1568) e il Messale romano (1570). Nelle bolle di presentazione veniva stabilito che in futuro questi libri sarebbero stati obbligatori per tutti a meno che delle diocesi o comunità religiose avessero potuto attestare usi particolari di almeno 200 anni. La fondazione della Congregazione dei riti nel 1588 doveva vigilare sulla fedele osservanza delle norme. Secondo le parole della bolla premessa al nuovo Messale (Quo primum tempore) «nulla può mai essere aggiunto, tolto o cambiato», una disposizione disciplinare che giuridicamente non può obbligare in alcun modo i papi che seguono o i concili ecumenici. Servono alla unificazione della liturgia anche gli altri libri liturgici riformati: il Pontificale Romanum (1596), il Caeremoniale episcoporum (1600) e il Rituale Romanum (1614).

Così era prescritta per tutto l’Occidente una liturgia unitaria, che però non era l’antica liturgia romana, ma una liturgia mista romano-gallicano-germanica. L’intenzione del concilio era certo di riformare la preghiera delle ore «secondo il primitivo ordinamento della preghiera» e la messa «secondo la primitiva norma e i riti dei santi Padri», ma ciò era un obiettivo che con i mezzi di allora e nella situazione della scienza liturgica del tempo doveva rimanere irraggiungibile. La liturgia post-tridentina rimase continuazione del Medioevo, per quanto continuazione emendata e migliorata, una liturgia particolare del clero, che dapprima si svolgeva spesso ancora dietro il pergamo. La lingua è come fino allora quella latina. Anche le chiese parrocchiali compiono la liturgia a misura delle loro possibilità nella stessa maniera. Al popolo però, se si eccettua la predica, è dedicata solo poca attenzione. Esso «assiste alla messa»; la sua partecipazione si limita all’«udire» e al «vedere». Per il popolo semplice la liturgia rimane il mistero per lo più incompreso anche se il concilio di Trento aveva ammonito di «spiegare frequentemente durante la messa le letture o qualche altro aspetto del mistero, soprattutto nelle domeniche e nelle feste».

II.4.b) La liturgia nell’epoca barocca
I libri liturgici editi per incarico del concilio di Trento, in particolare il Messale, danno l’avvio a un tempo in cui domina una forte unità liturgica sotto la piena autorità dei rubricisti. "Il giuridismo e la casuistica liturgica prendono una parte sempre più preponderante nella pratica del culto e nell’insegnamento" dal sec. XVII al XX. Il senso barocco della vita porta a celebrare la liturgia ufficiale della chiesa con pompa sempre maggiore. A ciò contribuisce non solo lo spazio solenne delle chiese barocche, ma anche il canto polifonico e la musica strumentale. La messa viene sentita come un «banchetto per gli occhi e per le orecchie». Questa "veste sfarzosa" appare soprattutto nelle processioni del Corpus Domini, nelle numerose rogazioni e pellegrinaggi e nelle sacre rappresentazioni. Quanto al soggettivismo poco è cambiato in paragone all’alto e basso Medioevo se si prescinde dalla cessazione dei maggiori abusi. Durante la messa i fedeli dicono o il rosario o le "devozioni della messa", che si trovano nei numerosi libri di preghiera (sviluppo dell’arte della stampa). Il tentativo del sacerdote francese Voisin di mettere alla portata del popolo i testi della messa, tradotti nella lingua del paese, viene condannato nel modo più severo con un Breve di Alessandro VII, come «profanazione del santuario». L’abuso crescente di distribuire la comunione solo dopo la messa, così che i fedeli che non comunicano possano lasciare prima la chiesa, rafforza la pietà della comunione isolata dalla messa. La predica viene tenuta per lo più prima della messa così che ci si può facilmente dispensare da essa. La devozione al Figlio di Dio presente nel "tabernacolo" sull’altare, al suo Sacratissimo Cuore e alla sua passione come pure il culto di Maria nelle sue innumerevoli forme, tutto ciò parlava ai devoti più che le forme della liturgia, nella maggior parte dei casi non più rettamente comprese.

Come dato positivo nell’epoca barocca è da registrare lo sviluppo della scienza liturgica. Numerosi studiosi, specialmente italiani e francesi pubblicano fonti liturgiche e trattazioni su temi attinenti. Tra essi meritano una menzione particolare i benedettini H. Ménardo (†1644), J. Mabillon (†1707) ed E. Martène (†1739), il cardinale teatino B.G.M. Tommasi (†1713), lo storico L.A. Muratori (†1750) di Modena, il papa Benedetto XIV (†1733) e l’abate benedettino tedesco M. Gerbert di St. Blasien (†1793). Ora molto più di prima era disponibile una documentazione scientifica che permetteva un confronto critico con la liturgia tridentina e spingeva a tentativi di rinnovamento. In Francia molte diocesi ritornarono alla liturgia gallicana pretridentina; in molte diocesi apparvero nuovi Messali e Breviari con numerosi cambiamenti. Per essersi compromesse, almeno in certi momenti e luoghi con il Giansenismo e il Gallicanesimo, a Roma tali liturgie caddero rapidamente in sospetto di eresia e vennero in parte proibite. La riforma liturgica progettata da Benedetto XIV non giunse a realizzazione.

II.4.c) La liturgia nell’epoca dell’Illuminismo
Sotto l’influsso di un nuovo atteggiamento di spirito che subentrò al senso barocco della vita, il cosiddetto Illuminismo, questi tentativi di rinnovamento acquistarono un nuovo slancio. In questo momento si vide la liturgia più nettamente sotto l’aspetto dell’utilità per la pastorale, si accentuò il suo carattere comunitario e si cercò di raggiungere una maggiore semplicità e "razionalità". A dire il vero si cadde così nel pericolo di ridurre la liturgia a un sussidio dell’educazione orale e a uno strumento della pedagogia. Merita di essere menzionato innanzitutto il sinodo di Pistoia (1786) con numerose ed apprezzabili proposte di riforma. Esso fu condannato con grande fermezza da Pio VI nel 1794. Anche nel congresso di Ems (1786), nel quale gli arcivescovi di Colonia, Treviri e Salisburgo si opposero in prima linea alle rivendicazioni del primato da parte del papa, furono espresse istanze di riforma liturgica.

Inoltre ci furono numerosi teologi, che fecero proprie le aspirazioni a una sana riforma della liturgia e in parte le trasmisero al sec. XIX. Si può parlare del loro tempo come del periodo di incubazione del movimento liturgico. A questi uomini appartengono V.A. Winter (†1814), B.M. Werkmeister (†1823), il decano del duomo di Bautzen più tardi vescovo FG. Lock (†1832), il vicario generale di Costanza J.H. von Wessenberg (†1860), il vescovo di Ratisbona J.M. Sailer (†1832), il teologo di Tubinga J.A. Möhler (†1838), J.B. Hirscher (†1865) di Friburgo e il rettore del seminario e canonico di Magonza L.A. Nickel (†1869).

II.4.d) Liturgia e restaurazione cattolica nel sec. XIX
Nei primi decenni del sec. XIX all’opposto dell’Illuminismo, come in un’oscillazione pendolare, si trova il Romanticismo. Esso rappresenta la controcorrente del razionalismo, in senso individualistico e soggettivistico, con una forte accentuazione del sentimento e dello stato d’animo anche in campo religioso. Tutta l’essenza della religiosità romantica si oppone allo spirito della liturgia. Non ci si deve quindi stupire del fatto che il vero Romanticismo non si occupa per nulla di liturgia e di cose liturgiche, nel migliore dei casi esso considera la liturgia come un dato storico o come qualcosa che piace esteticamente, ma l’essenza della liturgia è totalmente estranea a esso. Il Romanticismo inoltre non è un movimento cattolico e non deve essere equiparato con la restaurazione cattolica successiva, anche se alcuni romantici più tardi si unirono alla restaurazione cattolica, e in questa si trovano occasionalmente elementi romantici.

A partire dalla propria concezione la restaurazione cattolica intende ricostruire ciò che si suppone distrutto nell’Illuminismo. In ciò essa cerca lo stretto collegamento con Roma e con i tempi dell’alto Medioevo. Così si rapporta con essa lo Storicismo, che si esprime ad es. nella rinascita della teologia scolastica (neoscolastica) e nell’imitazione di stili architettonici medioevali (specialmente il Romanico e il Gotico). Questo atteggiamento impronta anche il rapporto verso la liturgia, che esso vuole coltivare nella sua supposta forma originaria romana come un valore degno di venerazione, e per la quale vuole suscitare entusiasmo. Esponente di questo atteggiamento di restaurazione nei confronti della liturgia è in Francia l’abate benedettino Prosper Guéranger di Solesmes (1805-1875). Nelle sue due opere principali Institutions liturgiques e L’année liturgique egli cerca di evidenziare la dignità e la bellezza della liturgia.

Egli accentua fortemente il suo carattere misterioso. Essa «secondo la sua natura è riservata al clero più della sacra Scrittura». «I libri liturgici sono destinati ai sacerdoti... I fedeli non possono quindi in alcun modo lamentarsi se si nega a essi ciò che non fu scritto per loro». Egli considera ogni cambiamento delle «formule e dei riti» come una mancanza contro la chiesa stessa e come una mancanza di spirito cattolico. Ciò vale anche per tutti gli sforzi per una liturgia nella lingua del popolo. Poiché secondo la sua idea solo la liturgia romana è immune da ogni errore, egli combatte le liturgie gallicane in molte diocesi francesi nella maniera più violenta e conseguì in ciò un pieno successo. Egli nutre perfino la speranza che «verrà il tempo in cui la lingua e la fede di Roma saranno per l’Oriente come per l’Occidente l’unico mezzo per raggiungere l’unità e il rinnovamento». Con la reintroduzione della liturgia romana in Francia andò perduto anche il prezioso patrimonio delle liturgie particolari. I suoi sforzi centralizzatori ebbero effetto anche oltre i confini della Francia e portarono anche in Germania (ad es. Treviri) alla rinuncia a interessanti usi particolari. Nonostante queste critiche, per i suoi enormi meriti per la fondamentale valorizzazione della liturgia, lo si deve riconoscere come padre del movimento liturgico. Particolari meriti acquistarono Guéranger e la sua abbazia nello studiare, nel coltivare e nel diffondere il canto gregoriano, il quale, ad es. in Germania, giunse in certe diocesi a soppiantare la "messa cantata" in tedesco.

Solesmes fu particolarmente importante per il fatto che i due fratelli Mauro e Placido Wolter di Colonia soggiornarono dal 1862 al 1863 a Solesmes per conoscere meglio lo spirito del monachesimo benedettino ivi restaurato e successivamente rifondare l’abbazia di Beuron. Questa divenne un centro di celebrazione e di studio della liturgia, e diffuse questo spirito anche nei numerosi nuovi monasteri fondati da Beuron (congregazione beuronese); tra di essi Maredsous in Belgio (1872) e Maria Laach (1892) e anche Mont César fondata da Maredsous presso Lovanio dovevano acquistare un’importanza decisiva per il movimento liturgico del sec. XX. Un evento promettente fu la traduzione del Messale romano da parte del monaco di Beuron Anselm Schott nell’anno 1884. Da allora milioni di esemplari del Messalino di Schott hanno favorito in modo essenziale la comprensione e la partecipazione alla liturgia della messa.

Importante per il rinnovamento liturgico posteriore è in quest’epoca della restaurazione l’attività scientifica che ha per oggetto la storia della liturgia. Sorgono ampie edizioni dei Padri e opere sulle fonti (Migne, Bibliothek der Kircheväter, Analecta hymnica di G.M. Dreves e C. Blume) e numerosi manuali di liturgia. È il caso di citare tra gli altri F.X. Schmid (†1871), V. Thalhofer (1823-1891) e E. Probst (1816-1899), il quale è diventato il vero fondatore e antesignano della moderna scienza liturgica. Così erano poste le premesse per considerare criticamente la liturgia medioevale e tridentina, spesso elogiata unilateralmente nella fase della restaurazione, e per accostare la sua essenza come di una cosa che riguarda l’intero popolo di Dio.

II.4.e) Il movimento liturgico del sec. XX (fino al Vaticano II)
All’inizio del sec. XX un documento del papa Pio X (1903-1914) pone con una sola frase il fondamento per l’inizio della vera fase pastorale del movimento liturgico, chiamato anche movimento liturgico "classico". Nel suo Motu proprio «Tra le sollecitudini», del 22 novembre 1903, sulla musica liturgica egli richiede la «partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della chiesa». Questa espressione, «partecipazione attiva» (lat. participatio actuosa) dei fedeli alla liturgia, fu ripresa dal benedettino belga Lambert Beauduin (1873-1960) dell’abbazia di Mont César, che ne fece il motto del suo lavoro liturgico-pastorale. Egli parlava della necessità di «democratizzare la liturgia», cioè di farne una cosa che riguarda tutto il popolo. Al congresso cattolico dell’archidiocesi di Malines nel 1909 egli ebbe l’occasione di esporre le sue idee a un vasto pubblico. Egli chiamò la liturgia la vera preghiera della chiesa, il vincolo dell’unità tra sacerdote e popolo e il grande strumento dell’insegnamento della chiesa. Le risoluzioni da lui proposte furono accolte unanimemente: diffusione delle traduzioni nella lingua del popolo dei testi della messa e dei vespri domenicali, l’orientamento della pietà nel suo insieme alla liturgia ed esercizi spirituali annuali per le corali. Questo "avvenimento di Malines" può essere considerato come il vero momento della nascita del movimento liturgico classico. Già poche settimane più tardi uscì una specie di messalino per fedeli nella forma di un mensile (dal 1911 come messalino domenicale) e nel 1910 ebbero luogo nell’abbazia di Mont César le prime settimane liturgiche, che ebbero un gran numero di partecipanti e suscitarono un entusiasmo contagioso.

In Germania fu soprattutto l’abbazia di Maria Laach, che con il suo abate (dal 1913) Ildefons Herwegen promosse la comprensione e la partecipazione alla liturgia. Ivi ci si rivolse dapprima agli accademici, che nel 1913 furono invitati per la prima volta a partecipare alla Settimana santa all’abbazia. Tra i partecipanti si trovavano anche H. Brüning, in seguito cancelliere tedesco, e R. Schumann, in seguito presidente dei ministri francese. Ancora durante la prima guerra mondiale apparve nella collana "Ecclesia orans" (ed. I. Herwegen) come primo volume l’opera di Romano Guardini, Lo spirito della Liturgia, che è considerata l’opera classica del movimento liturgico nei suoi anni iniziali, e fino al presente in numerose edizioni incrementò la comprensione della liturgia.

Dopo la prima guerra mondiale apparvero numerosi studi scientifici sulla liturgia ad es. nella collana Liturgiegeschichtliche Quellen und Forschungen, lo Jahrbuch für Liturgiewissenschaft, le pubblicazioni di F.J. Dölger (cf. Antike und Christentum, Münster 1929-1950, vv. I-VI) e dei suoi discepoli tra cui T. Klauser (cf. Jahrbuch für Antike und Christentum, Münster 1958 s.), e in Italia l’opera in più volumi Liber sacramentorum dell’abate benedettino, più tardi cardinale di Milano, I. Schuster. Tra gli studiosi di liturgia emerge particolarmente il monaco di Maria Laach Odo Casel (1886-1948). I suoi studi patristici e di scienza delle religioni lo portarono a convincersi che la liturgia è la celebrazione dei misteri (mistero del culto), nella quale il «mistero primordiale», Gesù Cristo, diviene presente con la sua opera salvifica come portatore di salvezza. Ai più meritevoli promotori del movimento liturgico (per la Germania) appartengono tra gli altri I. Pinsk (Berlino), J.A. Jungmann (Innsbruck), K. Mohlberg (Maria Laach) e J. Quasten (Washington).

Mentre i monaci di Maria Laach si rivolgevano innanzitutto agli accademici, R. Guardini portò lo «spirito della liturgia» tra le file dei giovani studenti, che sotto la sua guida si riunivano nell’associazione "Quickborn" al castello di Rothenfels. Lo spirito di una celebrazione intelligente della liturgia fu promosso anche nell’associazione "Neudeutschland". Strati più vasti della gioventù operaia furono raggiunti dal presidente generale dell’unione dei giovani cattolici Ludwig Wolker. Il suo lavoro: Preghiera della chiesa per la liturgia comunitaria della gioventù cattolica con i testi di Prima, Messa, Compieta e alcune altre preghiere e canti fu diffuso nel 1939 in cinque milioni di esemplari. Di importanza ancor maggiore fu l’ampio lavoro "liturgico-popolare" del canonico regolare di Klosterneuburg Pio Parsch (1884-1950). Solo dei suoi testi della messa domenicale, che erano messi a disposizione in molte chiese, furono diffuse nel 1930 più di 25 milioni di copie. Egli fuse in una sintesi felice formazione biblica e formazione liturgica, una sintesi che anche R. Guardini riuscì a compiere.

Dopo la prima guerra mondiale, già a partite dal 1921, nella cripta di Maria Laach fu celebrata la "messa recitata", nella quale il sacerdote celebrava versus populum, e i fedeli circondavano da vicino l’altare e davano le risposte in latino ("messa dialogata"). Da essa derivò poi la "messa comunitaria", nella quale un commentatore in sincronia con il celebrante proclamava in lingua parlata preghiere e letture, e i partecipanti recitavano insieme talune parti. In Germania, con l’inserzione di canti tedeschi ne derivò la betsingmesse (messa recitata e cantata). Già prima Pio Parsch aveva introdotto la Chormesse (messa corale) e la Volkschoralamt (messa in canto popolare). In tutte le forme fu raggiunto un considerevole grado di «partecipazione attiva». Attraverso queste forme, che divennero dapprima abituali presso le associazioni giovanili, si poté familiarizzare anche molte parrocchie con gli intenti del movimento liturgico.

Il buon avvio della causa liturgica non rimase senza opposizione e sospetti. Taluni lo contrastarono come passatempo superficiale e moda giovanile, altri gli rimproverarono di dividere la comunità e di avere carattere elitario. A metà della seconda guerra mondiale si giunse così alla cosiddetta "crisi del movimento liturgico". A un certo chiarimento della situazione servì una lettera di R. Guardini al vescovo A. Stohr di Mainz nell’anno 1940. In essa egli chiarisce alcuni equivoci, rifiuta certe esagerazioni e mette in guardia dai pericoli del liturgicismo, praticismo, dilettantismo, conservatorismo e di decisioni affrettate dell’autorità. Nello stesso anno i vescovi tedeschi istituirono una commissione liturgica, che da allora in poi doveva guidare il movimento liturgico e in tempi molto difficili (regime nazista con la sua persecuzione della chiesa, seconda guerra mondiale) doveva evitate una crisi interna della chiesa. Ad una situazione critica si giunse ancora una volta nell’anno 1943, quando fu inviata all’episcopato tedesco la lettera di una commissione cardinalizia romana istituita appositamente a motivo di queste tensioni liturgiche, nella quale si parlava delle preoccupazioni di Roma, e i vescovi tedeschi erano invitati a interrompere ogni iniziativa autonoma in materia di liturgia. I vescovi tedeschi risposero attraverso il loro presidente card. von Bertram (Breslavia) il 10 aprile 1943. Con franchezza e tono convincente inquadrarono esattamente le obiezioni romane sdrammatizzandole. Il 24 dicembre 1943 la Segreteria di Stato scrisse in tono conciliante che i vescovi sospendessero ogni iniziativa autonoma e nello stesso tempo permise la messa comunitaria, la Betsingmesse e il deutsches Hochamt (messa cantata in tedesco), nel quale il celebrante recita tutte le parti in latino ma contemporaneamente vengono cantati dei canti corrispondenti in tedesco. Così era evitato il pericolo che Guardini temeva di decisioni affrettate dell’autorità.

Un’altra svolta a favore del movimento liturgico fu impressa dall’enciclica Mediator Dei di Pio XII nell’anno 1947, che fondamentalmente ne riconosceva gli sforzi. Sotto la sua spinta furono fondati in numerosi paesi degli "Istituti liturgici". Si giunse a numerosi congressi liturgici nazionali e a incontri internazionali di studio, tra i quali particolare importanza acquistò il congresso di Liturgia pastorale di Assisi nel 1956. In un saluto ai congressisti il papa esprime il più alto riconoscimento del movimento liturgico: «Il movimento liturgico è in tal modo apparso come un segno delle disposizioni provvidenziali di Dio riguardo al tempo presente, come un passaggio dello Spirito Santo nella sua chiesa, miranti ad avvicinare sempre più gli uomini ai misteri della fede e alle ricchezze della grazia, che hanno la loro sorgente nella partecipazione attiva dei fedeli alla vita liturgica».

Mentre nei primi decenni del movimento liturgico si trattava della rinnovata partecipazione dei fedeli alla liturgia tridentina esistente, verso la metà del secolo si riconobbe sempre più chiaramente che la liturgia stessa aveva bisogno di riforma e di rinnovamento. Un inizio si ebbe già con la nuova traduzione latina dei salmi, che Pio XII fece pubblicare nell’anno 1945 (Salterio piano). Verso la metà de secolo Roma approvò parecchi Rituali nazionali con un crescente uso delle lingue nazionali. Il 9 febbraio 1951 apparve il decreto sulla riforma della liturgia della veglia pasquale e il suo spostamento dal mattino del Sabato santo all’inizio della notte di pasqua; esso fu dapprima delimitato cautamente ad experimentum e l’applicazione nelle diocesi fu rimessa ai singoli vescovi. Così la «madre di tutte le veglie» ottenne nuovamente nella coscienza dei fedeli un’alta stima. Alla riforma della veglia pasquale seguì il 16 novembre 1953 il nuovo ordinamento dell’intera Settimana santa, questa volta come obbligatorio per tutta la chiesa a partire dal 1956. Si sentì improvvisamente che la tetragona liturgia unitaria tridentina aveva ceduto. Anche se l’Istruzione della Congregazione dei riti «De musica sacra et sacra liturgia» del 1958 fu vista dapprima come un regresso, non fu più possibile contenere la spinta verso ulteriori riforme.

II.5. Il concilio Vaticano II e lo sviluppo postconciliare
I tempi erano diventati maturi per una riforma fondamentale e generale della liturgia. Essa giunse più presto di quanto si pensasse con l’annuncio inatteso di un concilio ecumenico da parte di Giovanni XXIII, il 25 gennaio 1959 e con il modo con cui questo concilio fu attuato in spirito di libertà e nell’onesta ricerca della via migliore possibile.

Fu possibile superare ogni resistenza nonostante un ultimo tentativo di ambienti curiali, che molto volentieri sarebbero rimasti attestati su posizioni di rubricismo, centralismo, immutabilità e consolidamento della liturgia. E’ da considerare sotto questo aspetto la affrettata pubblicazione del Codex rubricarum del 27 luglio 1960. Bene o male si doveva vedere in questa edizione un’opera che doveva anticipare le successive decisioni del concilio, e più tardi sarebbe apparso quanto poco questa supposizione fosse inventata. Il 5 aprile 1961 fu pubblicata una nuova editio typica del Breviario, e il 23 giugno 1962 una edizione corrispondente del Messale romano, altre due iniziative della Congregazione dei riti, che sono da interpretare nella stessa prospettiva del Codex rubricarum. Anche nella preparazione dello "Schema" conciliare della liturgia (SC) ci furono tensioni e tentativi di un’ultima impennata contro cambiamenti di fondo; ma anche queste resistenze poterono essere superate al concilio.

Fu un avvenimento di importanza storica, non solo per la storia della liturgia, ma anche per la vita dell’intera chiesa, allorché il 4 dicembre 1963, esattamente 400 anni dopo la seduta conclusiva del concilio di Trento, come primo documento del concilio fu approvata la Sacrosanctum Concilium con 2147 voti positivi contro solo 4 voti negativi. In essa vengono fatte importanti affermazioni sull’essenza e l’importanza della liturgia e vengono dati gli orientamenti per una riforma fondamentale. E ciò avviene non per qualche intendimento marginale, ma nell’ambito dell’obiettivo complessivo che il concilio si era prefisso: «di far crescere sempre più la vita cristiana tra i fedeli, di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti, di favorire tutto ciò che può contribuire all’unione di tutti i credenti in Cristo e di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della chiesa» (SC 1). Con questo documento il concilio vuole non solo rinnovare la liturgia ma, attraverso di essa, gli uomini.

Le ampie e varie dichiarazioni del concilio possono qui essere riassunte solo nei loro aspetti più importanti. Degli obiettivi generali fanno parte:

- Nuovo apprezzamento della liturgia, poiché «nessun’altra azione della chiesa, ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (SC 7).

- La promozione della partecipazione attiva da parte dei fedeli (SC 14).

- Rivalutazione della scienza liturgica e della formazione liturgica (SC 15-19).

- Rinnovamento generale della liturgia nelle sue parti suscettibili di cambiamento (SC 21-24) in quanto lo richieda «una vera e accertata utilità della chiesa» (SC 23).

- Particolare importanza viene data alla stima e all’aumento di numero delle letture bibliche nelle celebrazioni liturgiche «la lettura della sacra Scrittura sia più abbondante, più varia e più adatta» (SC 35), al carattere comunitario delle celebrazioni liturgiche, alla semplificazione e maggiore trasparenza (SC 34), all’adattamento alle tradizioni e all’indole dei popoli, inclusa una certa decentralizzazione (SC 37-40) e alla maggior considerazione della lingua parlata (SC 36).

Questi aspetti generali trovano applicazione nei capitoli seguenti sui singoli settori della liturgia (SC 47-130). In una appendice il concilio prende posizione sulle richieste spesso avanzate di una fissazione della festa di pasqua in una determinata domenica e di un calendario perpetuo.

Di importanza decisiva per l’attuazione delle decisioni conciliari fu l’istituzione del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia (Consiglio per l’attuazione della Costituzione sulla sacra Liturgia) con un Motu proprio di Paolo VI del 25 gennaio 1964. Ai più importanti atti di questo gruppo e di quelli che gli succedono appartengono le seguenti sei istruzioni: tre istruzioni sulla ordinata applicazione della SC (Inter oecumenici, 1964; Tres abhinc annos, 1967; Liturgicae instaurationes, 1970); Musicam sacram (1967); Eucharisticum mysterium (1967); Istruzione sulla traduzione dei testi liturgici per le celebrazioni col popolo (1969). Si aggiungano i riti e i libri liturgici, pubblicati con rapida successione, che vogliamo elencare (a gruppi) nell’ordine di pubblicazione dell’edizione latina (e poi in lingua italiana):


- Celebrazione eucaristica: Missale Romanum, 1970, 19752 - Messale Romano, 1973, 19832; Lectionarium Missae, 1969’, 19812 - Lezionario, 1972-73 in 6 volumi; Fascicolo supplementare, 1982; Kyriale simplex, 1965; Graduale simplex, 1967, 19752; Ordo cantus missae, 1972; per i canti in lingua italiana, di ufficiale c’è il Repertorio. Canti per la Liturgia, a cura della Commissione episcopale per la liturgia della CEI, Bergamo 1981.


- Liturgia delle ore: Liturgia horaram, 4 volumi, (1971-72, 19852 s.) - Liturgia delle ore, 4 volumi, 1974-75; La preghiera del mattino e della sera, 1975.


- Pontificale (fascicoli singoli):

* Liber de ordinatione diaconi, presbyteri et episcopi, 1968; edizione italiana con lo stesso titolo, 1979;

* Ordo benedictionis abbatis et abbatissae, 1970 - Istituzione dei ministeri. Consacrazione delle vergini. Benedizione abbaziale, 1980);

* Ordo consecrationis virginum, 1970;

* Ordo confirmationis, 1971 - Rito della Confermazione, 1972;

* Ordo benedicendi oleum catechumenorum et infirmorum et conficiendi chrisma, 1971 – ed. italiana, vedi Dedicazione della chiesa;

* Liber de institutione lectorum et acolythorum; de admissione inter candidatos ad diaconatum et presbyteratum; de sacro caelibatu amplectendo, 1972;

* Ordo dedicationis ecclesiae et altaris, 1977 - Benedizione degli oli e Dedicazione della chiesa e dell’altare, 1980;

* Caeremoniale episcoporum, 1984;


- Rituale (fascicoli singoli):

* Ordo baptismi parvulorum, 1969, 19732 - Rito del Battesimo dei bambini, 1970;

* Ordo celebrandi matrimonium, 1969 - Sacramento del Matrimonio, 1975.

* Ordo exequiarum, 1969 - Rito delle esequie, 1974;

* Ordo professionis religiosae, 1970 - Rito della Professione religiosa, 1975;

* Ordo initiationis christianae adultorum, 1972, 19742 - Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, 1978;

* Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, 1972 - Sacramento dell’Unzione e cura pastorale degli infermi, 1974;

* De s. communione et de cultu mysterii eucharistici extra missam, 1973 - Rito della Comunione fuori della Messa e culto eucaristico, 1979;

* Ordo Paenitentiae, 1974 - Rito della Penitenza, 1974;

* De benedictionibus, 1984 – Benedizionale, 1992;

* Senza corrispondenza con una edizione tipica latina: la Messa dei fanciulli, 1976; Lezionario per la Messa dei fanciulli, 1976.

* Calendarium Rormanum, 1969 - edizione parziale latina e italiana in Enchiridion Vaticanum, Bologna, v. III, 512-543.

* Inistructio de calendariis particularibus..., 1970 (edizione latina e italiana in Enchiridion Vaticanum, Bologna, v. III, 1540-1569.

* Martyrologium Romanum, 2001;


Alla ricerca della migliore organizzazione possibile per l’ampia mole di lavoro dei compiti liturgici ancora da assolvere, Paolo VI l’8 maggio 1969 divise la Congregazione dei riti in una Congregazione per culto divino e una Congregazione per le cause dei santi. Con ciò cessa il lavoro del Consilium come organizzazione di diritto proprio. Esso fu incorporato come commissione speciale alla Congregazione per il culto divino; nel 1970 però esso fu sciolto e i suoi compiti trasferiti a determinati gruppi di lavoro. L’11 luglio 1975 Paolo VI con la Costituzione apostolica «Constans nobis gaudium» fuse la Conegazione per il culto con la Congregazione per la disciplina dei sacramenti fondata nel 1908, in un’unica Congregazione con il titolo non del tutto felice di Congregazione per i sacramenti e il culto divino. Il 5 aprile 1984 Giovanni Paolo II ha nuovamente sciolto questa unione e ha ridato alle due Congregazioni la loro autonomia. Come (primo) prefetto comune fu nominato l’arcivescovo di curia tedesco Augustin Mayer OSB (cardinale dal 1985).

Anche se la revisione della maggior parte dei libri liturgici è conclusa, rimane tuttavia come compito permanente la realizzazione delle linee e dei valori di fondo nella vita dei fedeli e delle comunità. A ogni generazione è assegnato sempre di nuovo il compito di educare i fedeli a una partecipazione intelligente e attiva alla liturgia.

I numerosi cambiamenti nella liturgia furono in generale salutati dai fedeli come un vero miglioramento e realizzati volentieri, specialmente nelle parrocchie dove ne era stata fatta in antecedenza una conveniente presentazione. Tuttavia non è neppure da trascurare il fatto che critica e opposizione furono sollevate da due diverse parti.

Per gli uni (indicati spesso come progressisti) la riforma è troppo timida e di scarsa portata, ed essi si credettero perciò autorizzati a ulteriori cambiamenti di propria iniziativa. Gli altri (indicati come conservatori) considerano quasi tutte le riforme un tradimento della tradizione e una disgrazia. In particolare si criticò aspramente l’apertura della liturgia alle lingue parlate (cf. i gruppi "Una voce"). Parti di questa opposizione conservatrice sotto la guida dell’arcivescovo (missionario) francese M. Lefèbvre provocarono uno scisma, un fatto peraltro che si presentò in modo simile dopo molti concili ecumenici.

Il 3 ottobre 1984 la Congregazione per il Culto pubblicò con sorpresa di molti un indulto del papa in cui si concede ai vescovi la possibilità di permettere a quei sacerdoti e fedeli «che erano rimasti ancorati al cosiddetto "rito tridentino" di celebrare la messa usando il Messale Romano secondo l’edizione dell’anno 1962», attenendosi però alle seguenti indicazioni: tali sacerdoti e fedeli in nessun modo possono condividere le posizioni di coloro «che mettono in dubbio la legittimità e l’esattezza dottrinale del Messale Romano pubblicato dal papa Paolo VI nel 1970»; tale celebrazione deve aver luogo solo per coloro che la richiedono, nei luoghi, nel tempo e alle condizioni fissate dal vescovo del luogo; la celebrazione deve essere fatta nella lingua latina senza mescolanza con i riti e i testi del nuovo Messale. Con questa concessione non deve essere recato pregiudizio all’osservanza della riforma liturgica nella vita delle rispettive comunità ecclesiali. Il documento si presenta come un segno «della sollecitudine che il Padre comune ha per tutti i suoi figli».

III. La riflessione del Vaticano II
Prendere le mosse del concilio Vaticano II significa riconoscerne il valore provocatorio, ancor più che gli stessi risultati. Il concilio, infatti, fa sue alcune istanze fondamentali sviluppate dal movimento liturgico, e apre orizzonti nuovi per la ricerca. Si tratta di un’apertura, prima di tutto, a livello di metodo, ed è sotto questo aspetto che qui si vuole condurre l’indagine. Ci occuperemo brevemente della rilettura teologica della liturgia.
Il dato di fondo, su cui convergono movimento e riforma liturgica, è il superamento di una visione rubricistica in favore di una concezione più teologica del culto cristiano. Il superamento del rubricismo è già chiaramente registrato nella «Mediator Dei» di Pio XII (1947), ma trova solo nel Vaticano II una conformazione teoreticamente più rigorosa, condotta sulla base di differenti piste, cristologica, soteriologica, ecclesiologica, escatologica. Il documento fondamentale, ovviamente, è la «Sacrosanctum concilium».

III.1. La pista cristologica
La "presenza di Cristo" nei misteri celebrati è uno degli elementi fondamentali sottolineati dal concilio. In SC 7 si legge:
«Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro… sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. E’ presente con la sua virtù nei sacramenti… E’ presente nella sua parola… Giustamente perciò la liturgia è ritenuta come l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo; in essa, per mezzo di segni sensibili, viene significata e, in modo ad essi proprio, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale». Come si può vedere, la presenza di Cristo è qualificata come «sacerdotale»; la liturgia, quindi, rivela Cristo sacerdote e, per derivazione, la sacerdotalità della Chiesa. E da notare come la categoria sacerdotale porti a insistere sul soggetto della liturgia: sul soggetto cristologico ma già anche sul soggetto ecclesiologico.

III.2. La pista soteriologica
La presenza di Cristo e la sua attività sacerdotale sono strettamente connesse alla storia della salvezza e ne costituiscono un momento centrale. Leggiamo in SC 6:«Come il Cristo fu inviato dal Padre, così anche egli ha inviato gli Apostoli, ripieni di Spirito Santo, non solo perché, predicando il Vangelo a tutti gli uomini, annunziassero che il Figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e dalla morte, e trasferiti nel regno del Padre, ma anche perché attuassero, per mezzo del sacrificio e dei sacramenti, sui quali s’impernia tutta la vita liturgica, l’opera della salvezza che annunziavano».
In questo passo, come pure in altri (SC 5), la forte connessione esistente tra Cristo, la Chiesa e i sacramenti restituisce alla liturgia tutto il suo respiro vitale, irriducibile a codice rubricale. Essa appare quanto mai qualificata e valorizzata dal suo oggetto più proprio: la storia della salvezza. Ovviamente, si tratta di un «oggetto» dinamico; la liturgia, infatti, è immersa nella storia della salvezza.

III.3. La pista ecclesiologica: liturgia e senso della Chiesa
La SC ci presenta un testo molto discusso e destinato a diventare famoso nel dibattito post-conciliare; si tratta del n. 10:
«La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù. Infatti il lavoro apostolico è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei "sacramenti pasquali", a vivere "in perfetta unione", e domanda che "esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede". La rinnovazione poi dell’alleanza di Dio con gli uomini nell’eucaristia introduce e accende i fedeli nella pressante carità di Cristo. Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dalla eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene, con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa».
Il testo stabilisce i rapporti tra la liturgia e le altre attività della Chiesa, rapporti che non si esauriscono nella liturgia stessa (si veda anche il n. 9 di SC).
Tale rapporto indica, anzitutto, un modo di intendere la Chiesa. La liturgia stabilendo la sorgente e il fine (la fonte e il culmine) della Chiesa, ne fornisce il «perché»; essa si pone, cioè, come l’orizzonte di senso della Chiesa. Si è obiettato, in proposito, che solo l’«amore» può avere questo molo, e si è risolta la difficoltà sottolineando il riferimento all’eucaristia, sacramento dell’amore, per eccellenza.
In relazione a quest’ultima precisazione, però, credo, opportuna un’osservazione. In molte discipline (logica, linguistica, psicologia, sociologia, ecc.) si è fatto sempre più evidente che tra una totalità e le sue parti vi è una relazione tale per cui la totalità o è funzione delle sue parti o costituisce l’orizzonte di senso delle sue parti. Ora, l’eucaristia, in quanto parte dell’intera celebrazione liturgica (che copre l’intero anno liturgico), può avere ed ha di fatto un ruolo privilegiato rispetto alle altre celebrazioni, ma sempre e solo all’interno dell’intero percorso di queste celebrazioni (la «totalità» liturgica). Se l’eucaristia è il vertice della vita cristiana, lo è in virtù del posto che essa ricopre nell’intera dinamica liturgica e per la luce che tale dinamica getta sull’eucaristia stessa. La globale vicenda liturgica è manifestazione dell’amore di Dio.
Il rapporto Chiesa-liturgia indica anche la necessità che ha la liturgia di confrontarsi con tutta la vita ecclesiale e di verificarsi sulla base di questo confronto. La Chiesa ha il compito di condurre gli uomini di tutti i tempi alla salvezza; ciò implica la capacità della Chiesa di accogliere e di adeguarsi ai mutamenti della storia. Le celebrazioni liturgiche sono chiamate a confrontarsi con tale lavoro di adattamento della Chiesa.

III. 4. La pista ecclesiologica: liturgia e natura della Chiesa
Un’altra pista, sempre ecclesiologica, è quella che si interessa ai rapporti tra la liturgia e la natura della Chiesa, il «che cosa» della Chiesa: La dimensione sacramentaria media questi rapporti sotto due profili: quello dell’unità e quello della struttura dialettica.
Anzitutto, liturgia e Chiesa si incontrano in ordine al valore dell’unità. Un testo particolarmente importante su questo punto si trova al n. 26 di SC, in cui si dice che:«le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è "sacramento di unità"».
La dimensione non-privata della «liturgia» dipende dalla dimensione non-privata della «Chiesa», e la dimensione non-privata della Chiesa dipende da ciò di cui la Chiesa è «sacramento»; ma il riferimento alla dimensione sacramentale ci riporta alla liturgia. Si può anche dire che se la Chiesa è «sacramento» di unità e se il «sacramento» è l’avvenimento fondamentale della liturgia, l’unità, ossia la dimensione comunitaria, è l’avvenimento fondamentale della liturgia stessa.
Liturgia e Chiesa si incontrano anche in ordine alla dimensione dialettica, ossia al modo particolare con cui, in esse, sono coinvolte la realtà umana e la realtà divina. In SC 2 leggiamo che la liturgia:«contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina».
Chiesa e liturgia, dunque, sono strettamente unite grazie alla comune «struttura dialettica» che è lo statuto proprio della «dimensione sacramentale»: visibile/non visibile, umano/divino, presenza/assenza, ecc. Ora, il polo visibile della dialettica sacramentale è costituito dagli elementi reperibili nell’ambito storico-culturale: non dimentichiamo che anche gli elementi di natura, come l’acqua, sono sempre dati in uno schema culturale. Ne consegue che la fedeltà della Chiesa al «sacramento» debba percorrere anche questa via della cultura, anzi delle culture e della loro storia. Nella stessa natura sacramentale della Chiesa è inscritta l’esigenza pastorale dell’adattabilità e della creatività liturgica.
Il rapporto tra Chiesa e liturgia, in riferimento ai sacramenti, è sottolineato anche dalla «Lumen gentium» (LG) e dalla «Unitatis redintegratio» (UR). In LG 7 leggiamo che nel corpo ecclesiale:«la vita di Cristo si diffonde nei credenti, che attraverso i sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a Cristo sofferente e glorioso. Per mezzo del battesimo siamo resi conformi a Cristo: "Infatti noi tutti fummo battezzati in un solo Spirito per costruire un solo corpo" (1Cor 12, 13). Con questo sacro rito viene rappresentata e prodotta la nostra unione alla morte e risurrezione di Cristo…».
Due parole chiave sono «arcano» e «rito», che caratterizzano qualsiasi mistero la cui natura è di essere una prassi celebrativa (rito) indisponibile alla riduzione interpretativa proveniente da ambiti extrarituali (arcano). Si veda anche UR, 2.
Importante, anche il riferimento alla Chiesa locale, soggetto delle celebrazioni liturgiche. In LG 26 troviamo scritto che la:«Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime comunità locali di fedeli», nelle quali «con la predicazione del Vangelo di Cristo vengono radunati i fedeli e si celebra il mistero della Cena del Signore».

III.5. La pista escatologica
La liturgia condivide la sorte della Chiesa anche in ordine all’escatologia. Se l’intero piano del documento conciliare sulla Chiesa indica questa stretta relazione tra Chiesa e celebrazione liturgica, in LG 50 si trova anche un legame strettissimo tra la liturgia celebrata dalla chiesa su questa terra e la lode che la comunità dei salvati rivolge a Dio in cielo. Il sorgere, l’evolversi e il compiersi escatologico della vita della Chiesa sono attraversati dalla celebrazione liturgica. Questo legame stimola una comprensione della liturgia soprattutto dal punto di vista del «soggetto» (ecclesiale), ossia dal punto di vista della prassi di coloro che utilizzano i segni liturgici. E questa è già una prospettiva pastorale.
In SC 8, inoltre, leggiamo una frase che, richiamando la dimensione storica, ci pone, indirettamente, di fronte alla questione pastorale: «Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste».
Il carattere di anticipazione presente in questa affermazione, dovrebbe mettere in guardia verso una concezione verticalistica tra liturgia terrena e liturgia del cielo.

III.6. Conclusione
Le diverse piste teologiche esaminate sopra sono riconducibili a una triplice serie di interessi, secondo i quali la liturgia:
- si rivolge a Cristo e appartiene alla storia della salvezza;
- si rivolge alla Chiesa della cui vita è parte costitutiva;
- si rivolge al mondo, ossia fa pane della vita dell’uomo e non può estraniarsi dalle esigenze più autentiche dell’umanità.
Vorrei fare notare come il «mondo» e la sua «storia» non costituiscano degli elementi occasionali, ma coessenziali della celebrazione liturgica.

IV. Anno Liturgico
«Facendosi uomo, il Figlio di Dio è entrato nel tempo. Ha introdotto nel tempo degli uomini la lode eterna che egli fa salire al Padre. Ma ha anche santificato il tempo, facendo sua la preghiera del suo popolo. Egli pregava tutti i giorni nelle ore prescritte, era assiduo alle riunioni nella sinagoga al sabato e, ogni anno, andava a Gerusalemme per le feste. La preghiera cristiana delle ore, il memoriale settimanale e annuale della morte e risurrezione del Signore rientrano nelle forme periodiche della santificazione del tempo nelle quali il corpo di Cristo comunica con la preghiera del suo capo». «Nel corso dell’anno la Chiesa ricorda tutto il mistero di Cristo, dall’Incarnazione al giorno della Pentecoste e all’attesa del ritorno del Signore» (NG 17; cf. SC 102).

IV.1. Questioni introduttive
La liturgia della Chiesa é la celebrazione del mistero di Cristo, centro della storia della salvezza. Tutte le azioni liturgiche, con il loro coronamento nell’Eucaristia, sono celebrazioni e proiezioni di questo mistero, attualizzazioni e comunicazioni della pienezza del sacramento della salvezza, che é Cristo Gesù.
Tuttavia, appartiene a quella espressione della liturgia che é l’anni circulus, il ciclo liturgico annuale, il compito di presentare nella sua più compiuta esattezza tutto 1’arco del mistero e dei misteri di Cristo nella Chiesa.
Cosi il Popolo di Dio, anno dopo anno, ha la possibilità di immergersi nel mistero e di riviverlo, facendo di esso il cammino del proprio mistero di salvezza.
Ho voluto dedicare questa introduzione alla spiritualità dell’anno liturgico poiché in esso si esprime concretamente la vita liturgica della Chiesa ed esso plasma uno stile da assimilare. L'anno liturgico, come ambito nel quale si celebra la liturgia eucaristica e quella delle Ore, i sacramenti ed i sacramentali, esprime bene quello che é la spiritualità ecclesiale della Sposa di Cristo che vive con il suo Signore i misteri della sua vita, morte e risurrezione.
Possiamo dire che la Chiesa offre questa spiritualità già programmata nei suoi libri, ma é ancora aperta alla celebrazione, alla assimilazione personale e comunitaria, porgendo al Popolo di Dio la chiave di comprensione e la forma di comunione e di celebrazione del mistero del Signore.

IV.2. Denominazioni dell’Anno Liturgico
Per molto tempo, il complesso delle feste liturgiche nel corso del1'anno non è stato concepito come un'unità e un tutt'uno e, quindi, nelle fonti antiche dell'Oriente e dell'Occidente non ha un nome proprio. Il caso si verifica ancora nei libri ufficiali della liturgia romana del XVI/XVII sec..

a) La prima testimonianza nota di un nome particolare proviene dalla liturgia luterana del tardo XVI sec. Si tratta del nome Kirchenjahr (= anno della Chiesa), che si trova per la prima volta in Johannes Pomarius. Il concetto si è imposto per lo più solo nella liturgia evangelica e luterana, più tardi anche nella liturgia romano-cattolica.
Nel sec. XVII in Francia appare la nozione di Année chrétienne nell'opera omonima in 13 volumi di N. Letourneux; nell'ambito linguistico inglese: Christian Year. Alla fine del sec. XVIII compare il nome di Année spirituelle. Nel XIX sec. dom P. Guéranger usa (per la prima volta!) 1'espressione Année liturgique. Usa la stessa parola (per la prima volta in documenti ecclesiastici ufficiali!) anche 1'Enciclica Mediator Dei del 1947 (nn. 159. 163), infine la Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium (n. 107) del Concilio Vaticano II (1963) e, in collegamento con questa, le Normae universales de anno liturgico et de calendario 1969 (per es. il titolo e il n. 48). Si deve infine fare menzione di altri nomi: Jahr des Heiles (Anno della salvezza) (P. Parsch) e Herrenjahr (Anno del Signore) (J. Pinsk e Ae. Löhr).

b) Questa terminologia o tutte queste denominazioni particolari sembrano insinuare 1’idea che la struttura liturgica della settimana e dell'anno consista, per un verso, in un sistema sostanzialmente chiuso generato da un'idea fondamentalmente teologica di organizzazione del tempo, e che, per altro verso, questo tempo liturgico, tratto in verità dall’anno civile, cosmico, profano, sia tuttavia contrapposto a quest'ultimo o almeno come parallelo ad esso, quasi un tempo specifico e particolare. Per evitare questa strettoia, si tenta di parlare semplicemente dell’insieme delle feste cristiane o della santificazione del tempo.

IV.3. Teologia, Pedagogia, Mistagogia, Celebrazione e Mistica dell’AL

Sembra utile riprendere questi concetti dinamici di liturgia in chiave spirituale per applicarli al tema dell'Anno liturgico.

IV.3.a)Teologia e spiritualità dell’Anno liturgico
Si deve affermare subito che l’anno liturgico è assai di più di un insieme di cicli e di tempi della celebrazione con i suoi propri ritmi. Tale sarebbe caso mai il calendario liturgico, espressione visibile e strutturata dell'anno liturgico. L'anno liturgico invece, che fa da quadro alle attività pastorali della comunità cristiana, è un segno sacro della liturgia, frutto non di un'idea preconcetta e neppure il risultato del lavoro di qualche specialista, addetto ai lavori, in una o in un'altra epoca della storia della liturgia. Quello che noi chiamiamo anno liturgico è il risultato di un lungo cammino percorso da ogni Rito particolare della Chiesa, in accordo con la sua visione e celebrazione del mistero di Cristo nella storia e nei luoghi in cui si è insediato, anche se esistono coincidenze fondamentali nell'anno liturgico dei diversi Riti. In realtà l''anno liturgico è nato e si è sviluppato in Oriente e in Occidente come risposta alle stesse esigenze e agli stessi imperativi: ricordare e rivivere il mistero di Cristo per renderlo presente e attuale nel tempo degli uomini. Nella terra fertile della fede, alla luce della Parola di Dio e sotto 1'ispirazione dello Spirito, le Chiese hanno dato forma a quello che chiamiamo anno liturgico.

* Protagonismo di Cristo nell’anno liturgico
II protagonismo di Cristo nell'insieme, in tutte e in ciascuna delle celebrazioni dell'anno liturgico, è qualcosa che zampilla dalla viva coscienza della Chiesa apostolica che vide in Gesù di Nazaret, il Cristo - Figlio di Dio, il perfetto esecutore e realizzatore nella sua vita e nelle sue opere di quanto hanno annunziato, prefigurato e significato le antiche feste di Israele, e in genere di tutta la storia del popolo di Dio prima di lui.
Dai Sinottici fino a san Giovanni, dagli Atti fino all'Apocalisse, Cristo appare come 1'autentico e vero protagonista delle feste dell'anno liturgico ebraico; della Pasqua, perché è l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo o, come dirà san Paolo, «la nostra Pasqua immolata» (1Cor 5, 7); della Pentecoste, perché è salito al cielo per ricevere dal Padre ed effondere sugli uomini la nuova Legge dello Spirito, come primizia di salvezza escatologica; delle Tende, perché è la fonte dell'Acqua viva dello Spirito e, come Luce del mondo, riempie con la sua presenza tutta la terra; dell'Espiazione, perché è entrato una volta per tutte nel tabernacolo eterno con il suo sangue che ha ottenuto la purificazione degli uomini; dell'Anno Nuovo, perché egli, novità assoluta, ha inaugurato una nuova era, un anno di grazia e di amnistia che non avrà mai fine; della Dedicazione, perché egli è il nuovo Tempio dove si rende culto al Padre in Spirito e verità; delle Sorti perché egli è il primogenito, vincitore della morte e restauratore della vita; del Sabato, perché egli è il suo Signore e Padrone dal momento che ha compiuto le opere del Padre accettando la morte per rigenerare 1'uomo e restituirgli 1'immagine e la somiglianza divina con la quale fu creato. Da questo intreccio di feste liturgiche, che avevano già dato al popolo di Dio un potente strumento sacramentale e un irresistibile ritmo di crescita nella fedeltà allo spirito dell'Alleanza, la Chiesa antica prese con libertà e discernimento molti elementi che si integrarono nell'anno liturgico cristiano. Nella luce del Mistero pasquale, sotto la potente assistenza dello Spirito che dà 1'intelligenza delle Scritture, nella costante esperienza della fede nel Signore risorto e, conseguentemente, nella sua promessa di essere presente tra i suoi, non senza sforzo, la liturgia cristiana organizzò il suo proprio ciclo festivo, sottolineando ora un aspetto ora un altro, ma sempre mettendo in rilievo tutti i misteri della vita di Gesù Cristo. In questo modo afferma con vigore la signoria di Cristo su tutta la storia e lo rende di nuovo protagonista e centro di ognuna delle feste o cicli dell'anno liturgico, che perciò diventa l’anno di Cristo, l'anno cristiano che vive di Cristo. Egli, il Signore, nel suo mistero sovra storico continua a possedere il tempo e a renderlo l’ambito della sua presenza salvifica.

* L’imitazione di Cristo

La seconda idea motrice della formazione dell'anno liturgico è la necessità dei cristiani non soltanto di celebrare Gesù Cristo, ma di conformarsi a lui. Si tratta di una delle caratteristiche fondamentali del culto della nuova alleanza: 1'esigenza della santità interiore, la necessità che al gesto esterno, qualunque sia, corrisponda un atteggiamento del cuore, l'ossequio della volontà. «Siate santi, perché io sono Santo» (1Pt 1, 16; cf. Mt 5, 48… ecc.) è la suprema norma della vita di perfezione annunciata da Cristo. Se già 1'antica alleanza implicava, come continuamente ricordavano i profeti, il sacrificio del cuore umiliato e contrito, la nuova, fondata sull'amore del Padre, promulgata dal sangue di Cristo e sigillata dal dono dello Spirito, chiede assolutamente la verità del culto interiore. Per questo 1'anno liturgico, proposto ai fedeli come mezzo per glorificare Gesù Cristo e come cammino di fedeltà al Padre nello Spirito, deve essere anche strumento e occasione per imitare il Signore. Ma che significa imitare Gesù Cristo? È forse sufficiente intendere questa imitazione in senso etico e morale, come ubbidienza al Padre e accettazione della sua volontà? Imitare Gesù Cristo nel senso a cui mi riferisco, comporta certamente questi atteggiamenti. Qui però parlo di imitare Gesù Cristo nel senso che si dava a questa espressione nell'antico vocabolario cristiano: biblico, patristico e liturgico: si alludeva alla configurazione o conformità dell’uomo battezzato e confermato a Cristo, immagine e icona della gloria del Padre (cf. 1Cor 11, 7; 2Cor 4, 4; Co1 1, 15). Questa «imitazione», che certi autori hanno chiamato «Legge della mímêsis della vita di Cristo» (mímêsis = imitazione, rappresentazione per mezzo dell’imitazione), è un intero processo che comincia con i sacramenti detti dell'Iniziazione - perché iniziano e consacrano gli inizi della vita cristiana - e che deve svilupparsi mediante la penitenza e 1'Eucaristia fino a quando giunga 1'ora del transito del cristiano da questo mondo al Padre, allorché sarà restaurata e completamente ricuperata 1'immagine e somiglianza divina con cui 1'uomo fu creato (cf. Gn 1, 26-27; Col 3, 10; 1Cor 15, 49).
L'uomo nuovo che vive questo processo iniziato nel battesimo, ha il suo tipo e il suo modello in Gesù, immagine perfetta del Padre, Figlio di Dio e fratello degli uomini, che si incarnò, nacque, soffrì, morì, risuscitò e salì al cielo; seduto alla destra della Maestà, inviò il dono dello Spirito del Padre e del Figlio, e di là ritornerà glorioso. Tutti questi eventi salvifici della vita di Gesù che chiamiamo misteri, in quanto presenti e operanti nel tempo mediante le azioni liturgiche, hanno un valore tipico e rivelatore di ciò che avviene nella nascita, crescita e sviluppo dell'essere cristiano, configurato sacramentalmente e misticamente a Gesù Cristo. Nei segni e simboli liturgici, ex opere operato gli uni ed ex opere operantis Ecclesiae gli altri, Cristo si rende presente con il potere salvifico di tutti e di ciascuno dei suoi misteri che un giorno furono visibili, e dopo la sua glorificazione, si resero invisibili, essendo passata la loro apparenza e visibilità ai sacramenti della Chiesa, prolungamento dell'umanità glorificata del Verbo Incarnato mediante la forza dello Spirito (cf. Gv 19, 30.34; 1Gv 5, 6). Quindi, grazie ai sacramenti e a ogni liturgia il cristiano è, per la fede e lo Spirito, configurato al modello che è Cristo e, come lui, diventa figlio di Dio, anche se adottivo, ed erede della vita eterna. Questa è dunque 1'imitazione di Cristo della quale sto parlando: riprodurre in ciascuno di noi i suoi misteri e far rivivere le sue azioni salvifiche, riunite nell'evento della sua morte e risurrezione. Notiamo, però, che quest'opera, anche se riguarda ogni cristiano in particolare, non è un compito individuale né si può realizzare ai margini o al di fuori della comunità che lo stesso Cristo istituì con questo scopo. Cioè, nessuno può dare a se stesso 1'immagine del suo essere cristiano. Questo dono viene solo da Dio per mezzo di Gesù che, mediante la presenza e il potere dello Spirito si serve del ministero della Chiesa, depositaria e amministratrice della parola e dei gesti salvifici di Dio in Gesù Cristo. È quindi nel seno della comunità cristiana, cioè nella Chiesa riunita dalla divina Parola e dalla forza dello Spirito Santo, che Cristo parla, perdona, battezza e alimenta, per fare degli uomini altri «cristi», altri figli di Dio ed eredi della vita eterna.

* La presenza del Signore nell’Anno liturgico
Sulla base teologica dell'anno liturgico esiste pure una profonda intuizione della Chiesa che riguarda quanto si è detto sul valore sacramentale del tempo liturgico. In realtà la liturgia, per moltiplicare le forme di inserimento della presenza di Cristo nell'esistenza umana, fonda in un solo momento storico quel tempo (in illo tempore; in diebus illis) nel quale avvennero gli eventi salvifici e in modo particolare la vita storica di Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, e il tempo attuale della celebrazione, i nostri qui e ora. In questo modo quel che ascoltiamo nelle letture o nella proclamazione del Vangelo non soltanto ritorna alla nostra memoria, ma si ri-produce sotto i segni della celebrazione.
Certamente i fatti storici del passato non possono ripetersi nella loro entità spazio-temporale. In questo senso gli eventi salvifici sono irripetibili in se stessi, anche se la comunità e il popolo che li richiama e celebra ha la coscienza di prendere parte nella salvezza che essi racchiudono e attualizzano. Questa coscienza è visibile nel rituale della cena pasquale giudaica, prototipo del significato e del valore attualizzante del rito memoriale. Ora, però, non parliamo soltanto di attualizzazione dell'efficacia salvifica degli eventi passati, ma anche di una certa presenza di quegli eventi di salvezza, in modo particolare di quelli che hanno avuto come protagonista il Verbo incarnato e che chiamiamo misteri di Cristo o della vita storica di Gesù.
In questo tema affiora la dottrina dei misteri di Odo Casel assai controversa ai suoi tempi, ma che oggi possiamo meglio interpretare alla luce dell'enciclica Mediator Dei di Pio XII (1947)e, soprattutto, del Vaticano II. Quello che Casel voleva dire non era che gli eventi della vita di Cristo si rendono di nuovo presenti nella loro realtà umana e storica, ma in quanto azioni salvifiche attribuite alla persona del Figlio di Dio fatto uomo. Per Casel quello che si rende presente nell'agire liturgico è 1'aspetto divino ed eterno di quelle azioni «teandriche» e non semplicemente umane.
La chiave del pensiero caseliano era certamente la rappresentazione misterica o presenza dell'evento di salvezza nei riti e nel tempo della celebrazione.
Pio XII nell'enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947), senza alludere a Odo Casel, raccoglie la sostanza del suo pensiero: «L'anno liturgico... non è una fredda e inerte rappresentazione di fatti che appartengono al passato, o una semplice e nuda rievocazione di realtà d'altri tempi. Esso è, piuttosto, Cristo stesso che vive sempre nella sua Chiesa e che prosegue il cammino di immensa misericordia... allo scopo di mettere le anime umane al contatto dei suoi misteri, e farle vivere per essi; misteri che sono perennemente presenti ed operanti, non nel modo incerto e nebuloso del quale parlano alcuni recenti scrittori, ma perché, come ci insegna la dottrina cattolica e secondo la sentenza dei Dottori della Chiesa, sono esempi illustri di perfezione cristiana, e fonte di grazia divina per i meriti e 1'intercessione del Redentore; e perché perdurano in noi col loro effetto, essendo ognuno di essi, nel modo consentaneo alla propria indole, la causa della nostra salvezza» (n. 140).
Non è infatti una rappresentazione fredda e inerte di fatti passati, ma neppure un ricordo puro e semplice degli eventi. L'enciclica afferma che i misteri di Cristo sono «esempi illustri di perfezione cristiana e fonte di grazia divina per i meriti e 1'intercessione del Redentore; e perché perdurano in noi col loro effetto». In questo senso sono causa della nostra salvezza e continuano a presentarsi affinché i fedeli si mettano in contatto con loro.
Lo stesso insegnamento risuona nel Concilio Vaticano II che ha ripreso le espressioni della Mediator Dei, rafforzandole con un'allusione al potere santificatore di Cristo (la sua virtus divina) affinché i fedeli possano venirne a contatto (cf. Lc 6, 19; Mc 5, 28-30). Secondo questo concetto la presenza dei misteri di Cristo nell'anno liturgico è una presenza misterico-sacramentale, cioè, nell'azione rituale, nei segni e nell'insieme della celebrazione liturgica. Si può, dunque, parlare di una presenza di Cristo e dei suoi misteri nei tempi liturgici, nelle feste e nel corso dell'anno, come fa il Vaticano II in SC 102, cioè concretizzando questo modo di presenza nelle azioni liturgiche che la Chiesa compie in giorni determinati nel corso dell'anno per attualizzare 1'opera della nostra salvezza. In definitiva, la presenza di Cristo nei tempi della celebrazione si produce e si esprime nell'assemblea riunita per la festa, nella proclamazione della Parola, negli atti sacramentali e soprattutto nell'Eucaristia. Per mezzo di queste celebrazioni Cristo si rende presente alla sua Chiesa e santifica i giorni, le settimane e gli anni.
Ma questi giorni determinati, tra i quali primeggia la domenica, sono pure un ambito della presenza del Signore del tempo e della storia. I cristiani che celebrano la domenica e le feste, i tempi e 1'anno liturgico, sono coscienti che è la totalità del tempo festivo che è inondato dalla presenza di Cristo e non soltanto il momento della celebrazione. Perciò essi «santificano» il tempo anche quando mettono in relazione al Signore ogni attività umana, familiare, culturale, sportiva, ecc., e, com'è logico, ogni attività evangelizzatrice, caritativa, spirituale e pastorale a cui si dedicano nei «giorni del Signore». Così anche i giorni festivi e i tempo liturgici sono segni efficaci della presenza del Signore, come lo sono l'assemblea liturgica, il ministro sacro, la Parola proclamata, gli atti sacramentali e 1'Eucaristia (cf. SC 7). Ciascuno secondo il modo ad esso proprio. In questo senso il culmine sarà sempre 1'Eucaristia e più concretamente nelle specie sacramentali e mentre esse sussistono. I tempi liturgici, comunque, confermano che Cristo è entrato per sempre - ephápax - nel tempo per redimerlo e trasformarlo in tempo di grazia e di salvezza (cf. Rm 13, 11-12; 2Cor 6, 2). Un giorno, nella sinagoga di Nazareth, Gesù dichiarò aperti per sempre i tempi ultimi, il permanente anno giubilare del Signore (cf. Lc 4, 19.21).
Nei giorni stabiliti per la celebrazione Cristo si manifesta come pienezza dei tempi (cf. Ga1 4, 4), ricapitolando quanto esiste (cf. Ef 1, 9-11; Col 1, 18-19), perché egli è «ieri, oggi e sempre» (Eb 13, 8). In questa prospettiva della presenza di Cristo nei tempi della celebrazione, il giorno e l'anno liturgico si inseriscono nel mistero di Cristo pienezza del tempo e Signore della storia. «L’anno liturgico è il gesto salvifico di Cristo che è entrato nel tempo e in esso rimane. È il mistero del tempo cristificato».

* L’Anno liturgico e l’Eucaristia
L’anno liturgico, contemplato come epifania di Cristo nel tempo in funzione del processo della nostra identificazione con lui per mezzo dei sacramenti, è celebrazione e attualizzazione mediante il sacro ricordo di quanto è successo in Cristo e per Cristo per la nostra salvezza. Questo non suppone soltanto la rievocazione per mezzo della proclamazione della Parola divina nelle letture e nei salmi, ma anche la preghiera della Chiesa e l’azione rituale nella quale si compie quanto è stato annunziato. Qui il sacro ricordo che la Chiesa fa di Cristo e della sua opera salvifica coincide con la anamnesi-epiclesi eucaristica, cioè con la celebrazione dell’Eucaristia, memoriale consegnato da Cristo alla sua Sposa (cf. 1Cor 11, 24-26 e par.).
L’Eucaristia è come il centro del giorno e dell’anno liturgico, come il nucleo che sintetizza tutto il mistero di salvezza che si svolge nei diversi tempi della celebrazione. Se ogni segno sacramentale e ogni realtà ecclesiale ha la sua radice e la sua sorgente nel mistero eucaristico e verso esso si orienta, altrettanto può dirsi dei tempi liturgici: si svolgono tutti attorno alla celebrazione eucaristica. Per cui, al centro di ogni festa dell’anno liturgico e di ogni domenica ci sarà sempre l’Eucaristia, senza la quale la memoria efficace che compie la Chiesa dell’opera di Cristo resterebbe una semplice rievocazione soggettiva. Per questo non c’è domenica, né festa, né solennità alcuna senza Eucaristia.

IV.3.b) Pedagogia
La liturgia é la prima scuola della vita spirituale della Chiesa (Paolo VI), la «prima e la più necessaria sorgente» della vita spirituale (SC 14). E’ il luogo per eccellenza della evangelizzazione e della catechesi, come hanno sottolineato i recenti Sinodi. E’ il magistero normalmente esercitato dalla Chiesa verso i suoi figli. I contenuti essenziali della fede vengono trasmessi attraverso le formule liturgiche, la parola di Dio predicata e proclamata. Nell’Anno liturgico la Chiesa esercita in maniera completa ed organica questa evangelizzazione e catechesi, questa pedagogia essenziale della fede e della vita, riconducendo tutti all’unico Maestro che spiega le Scritture, mettendo il Popolo di Dio in grado di reimparare costantemente i misteri della Scrittura in una catechesi completa e permanente che lega idealmente tutti i cristiani viventi nel mondo nell'unità della stessa liturgia celebrata. È in modo speciale dell'anno liturgico che si può dire la celebre frase del teologo ortodosso C. KERN: «Il coro della Chiesa è una cattedra di teologia».

IV.3.c) Mistagogia
La liturgia é iniziazione ai misteri e comunicazione ed esperienza di misteri. Quello che la Parola annunzia e la teologia spiega, la liturgia lo offre alla esperienza della fede, in una comunione-comunicazione alla quale la assemblea é invitata a partecipare.
Nell’Anno liturgico, in una maniera particolare, si rende evidente questo ruolo della liturgia. Essa celebra, ricorda, attualizza tutti i misteri del Signore, invita ad entrare in comunione con il Verbo Incarnato che é morto ed è stato glorificato; anzi, allarga la comunione di questo mistero globale alla realtà della Chiesa glorificata in Maria, nei Santi... A Natale ed a Pasqua, in Quaresima ed in Avvento, nel tempo ordinario e nelle feste dei Santi, siamo invitati a vivere quelle stesse realtà che celebriamo, ad appropriarci nella fede di quanto ci viene proposto e donato attraverso la parola, le preghiere, i riti, il mistero eucaristico.
La Liturgia è, quindi, la mistagogia della Chiesa, la sua esperienza oggettiva e fondamentale, unica e necessaria, che deve essere riportata alla vita quotidiana nella sintesi di vivere il mistero di Cristo (o vivere in Cristo) attraverso le azioni liturgiche, per vivere come Cristo nella concretezza evangelica della propria esperienza.
Nella armonica congiunzione di liturgia e vita alla quale rimanda sempre la spiritualità liturgica ed in modo tutto proprio quella dell'Anno liturgico, abbiamo la sintesi di un ministero ecclesiale da compiere, di una esperienza cristiana da vivere, capace di nutrire la preghiera e la vita, al ritmo stesso dei misteri che vengono celebrati.

IV.3.d) Celebrazione
La liturgia ha un suo aspetto celebrativo, festivo, una sua capacita di dare senso al passato, al presente ed al futuro, per mezzo di quei tempi di celebrazione che danno senso compiuto alla vita. Nella celebrazione si ha sempre la concretezza dell'attimo vissuto e pure sfuggevole, il ricordo commemorativo del passato, 1'impegno verso il futuro. Nel duplice ritmo di contemplazione e di impegno, caratteristico della festa, di gratuità e di continuità, ogni atto liturgico é insieme comunicativo di una esperienza ed insieme impegnativo di una vita.
L’Anno liturgico é pieno di celebrazioni dell'unico mistero - sempre e dovunque! - e di ciascuna delle sue parti o dei suoi aspetti.
Armonizza la solennità e il tempo ordinario, i ritmi di attesa e quelli di pienezza. Accentua la festa nel momento opportuno e chiede la fedeltà del quotidiano.
Le due assi dell'Anno liturgico - la Pasqua ed il Natale - rappresentano molto bene il necessario dinamismo di una celebrazione che é preparata con un tempo particolarmente intenso ed é pure prolungata in una gioiosa continuità per scandagliare tutte le possibili risorse. Un tale ritmo di preparazione, di celebrazione e di prolungamento, non può non chiedere una incisività nella vita, una cooperazione del cristiano che si lascia plasmare, per cosi dire, da quanto celebra, per essere interiormente modellato dalla liturgia della Chiesa. Accetta cosi di vivere, oppure di lasciarsi condurre alla soglia di una mistica liturgica, secondo il modo di celebrare e di vivere della Chiesa.

IV.3.e) Mistica
La vita della Chiesa e di ogni singola comunità, pur rimanendo aperta alla storia profana e alle sue imprevedibili o programmate circostanze, rimane fortemente ancorata alla celebrazione dell'Anno liturgico. La quotidianità dell'impegno nel mondo, del lavoro e della famiglia, del servizio della carità ai fratelli, in mezzo alle gioie e ai dolori, ha sempre un punto di riferimento fisso: il mistero di Cristo celebrato. Il futuro e le speranze della storia dipendono essenzialmente da quanto é avvenuto ormai in Gesù di Nazareth, ed il mistero Pasquale di Cristo diventa sorgente di vita e modello pure di vita. Ritmando la propria storia con il mistero celebrato, la Chiesa afferma che la sua vita é Cristo, partecipazione al suo mistero; che la sua vicenda storica, protesa verso il ritorno del Signore, riceve costantemente dal mistero pasquale luce e conforto, guida e stimolo. Nessuna altra realtà di questo mondo può diventare un assoluto per la Chiesa; la celebrazione del mistero di Cristo relativizza quindi ogni altro fondamento e guida archetipicamente la vita della Chiesa, di ogni comunità, di ogni cristiano: essa dà senso alla vita e alla storia.
La spiritualità della Chiesa diventa in questa prospettiva liturgica la capacità di capire, vivere consapevolmente quanto viene celebrato, di impegnarvisi in una risposta di assimilazione libera che faccia passare la celebrazione alla esperienza, secondo la capacità di ognuno, secondo le esigenze concrete, comunitarie e sociali che invitano a tradurre in gesti storici ed incarnati le attese dell'Avvento, la grazia incarnata del Natale, la solidarietà della Quaresima, la gioia fattiva della Pasqua.
Solo in questa prospettiva di una vita che dalla liturgia nasce e si incarna si può parlare di una spiritualità dell'Anno liturgico che sia la presenza nel mondo e nella storia di quanto viene celebrato, che sia irradiazione del mistero pasquale e del soffio vivificante dello Spirito di Cristo nella storia, senza rinchiudere la spiritualità liturgica in un estetismo celebrativo o in un godimento soggettivo. La spiritualità dell'Anno liturgico deve essere capace di rimanere come il fulcro di una celebrazione del vissuto della comunità, 1'occasione per tradurre in impegni di vita quanto viene celebrato, 1'opportunità di plasmare una comunione fraterna e familiare che prolunga in gesti concreti di servizio gli atteggiamenti della liturgia.
La mistica dell’Anno liturgico: dalla predicazione dei Padri della Chiesa alle esperienze spirituali del medioevo nella spiritualità liturgica e monastica, dalle esperienze mistiche di Teresa di Gesù e di Giovanni della Croce, ai mistici moderni, quali Suor Elisabetta della Trinità o Adrienne von Speyr troviamo una vita cristiana profonda e soprannaturale che testimonia come la Chiesa-Sposa vive in dimensione mistica la liturgia della Chiesa, specialmente nel ritmo delle feste dell'Anno liturgico. È qui che la mistica assume la sua logica configurazione di una esperienza mistica misterica e cioè esperienza del mistero di Cristo attinto alle sorgenti pure della Parola e della Liturgia, vissuta nella profondità che lo Spirito Santo é capace di suscitare nell'animo dei cristiani. Esiste quindi una mistica dell’Anno liturgico che può essere ampiamente documentata.
In un altro senso possiamo parlare di mistica - o di mistagogia accolta ed assimilata - per parlare di quell'atteggiamento di docilità interiore con cui ci lasciamo penetrare e plasmare dai misteri celebrati, per entrare «misticamente», passivamente, con una docilità di figli di Dio e di discepoli, nel piano di Dio, nel sacramento della salvezza del quale la Chiesa celebra tutti gli aspetti. Si tratta allora non tanto di programmare una spiritualità, ma piuttosto di unificare la nostra vita spirituale in una totale docilità a quanto viviamo e celebriamo, di essere aperti e malleabili alle azioni soprannaturali delle quali siamo insieme protagonisti - in quanto celebranti - e persone che accolgono la grazia.
La vera mistica cristiana non può non essere che l’esperienza del mistero di Cristo nel cristiano, la vita in Cristo per mezzo dei sacramenti e della parola, assimilata nella preghiera e nella volontà di Dio, tradotta in amore e servizio del prossimo. A tutto questo rimanda con urgenza la celebrazione dell'Anno liturgico, chiedendo di conformare i nostri sentimenti a quanto celebriamo, lasciandosi plasmare dalla celebrazione dei santi misteri. E’ cosi che la Chiesa possiede nella grazia dell’Anno liturgico l’alveo della propria vita e la sua pedagogia perenne e programmata per il Popolo di Dio.

IV.4. Dimensione trinitaria, ecclesiale e antropologica dell’Anno Liturgico

Dobbiamo essere sensibili a scoprire nell'Anno liturgico i protagonisti concreti di quanto viene celebrato. È la Trinità che si comunica all'umanità nella Chiesa; quindi la triplice dimensione.

IV.4.a) Dimensione trinitaria dell’Anno liturgico
La storia della salvezza é «oikonomica» nel senso che é una attuazione, rivelazione e comunicazione della Trinità, dal Padre, per Cristo e nello Spirito Santo. Il mistero pasquale é la rivelazione e la comunicazione in Cristo dell'amore del Padre e della «koinonia» (= comunione)dello Spirito. In ogni mistero di Cristo che si celebra - Natale, Pasqua, Pentecoste, Epifania, Trasfigurazione - non possiamo dimenticare lo speciale protagonismo del Padre e dello Spirito. E questo non per avere uno schema trinitario a tutti i costi, ma per avere la chiave totale di lettura dei misteri celebrati.
- Il Padre: protagonista indiscusso di ogni mistero del Figlio é lodato e benedetto nell'anamnesi (= memoria, ri-memorazione) del mistero che si celebra, riconoscendo finalmente in lui la sorgente e la meta di ogni celebrazione.
- Cristo: è nella liturgia della Chiesa il centro della celebrazione poiché é Lui il Rivelatore ed il Donatore della pienezza trinitaria. Ma il Cristo ha vissuto tutto per il Padre e nello Spirito. Celebrare uno dei suoi misteri senza arrivare a questa divina profondità della sua koinonia trinitaria (comunione) sarebbe non celebrare quanto egli realmente ha vissuto. Mettendo quindi 1'accento sul cristocentrismo dell'Anno liturgico non possiamo mai dimenticare la rivelazione trinitaria che egli ci dona, anche se 1'accento é posto sul suo mistero, ma in una indissolubile prospettiva trinitaria.
- Lo Spirito Santo: è il misterioso protagonista della storia della salvezza insieme a Cristo, vero precursore di Cristo, presenza nascosta ma efficace nella memoria ed attuazione del mistero di Cristo. Bisogna saper scoprire ogni tempo liturgico come «tempo dello Spirito». Infatti in Avvento come in Quaresima, a Natale come nel tempo Pasquale siamo sempre a contatto con la sua mirabile opera.
Siamo quindi nella totalità ed in ogni frammento dell’Anno liturgico in «sinergia» con l’opera della Trinità, celebriamo la sua mirabile opera di salvezza, benché l’accento sia posto specialmente su Cristo. C'è in ogni festa - anche della Madonna e dei Santi – l’impronta trinitaria.

IV.4.b) Dimensione ecclesiale dell’Anno liturgico
Nella totalità della Chiesa universale e nella concretezza della comunità locale o della chiesa particolare, il mistero di Cristo viene offerto e comunicato alla Chiesa che rimane quasi interiormente plasmata dalle celebrazioni.
L’unità della liturgia, pur con le varianti proprie dei diversi riti, assicura alla comunità ecclesiale un punto costante di convergenza, una esperienza di cammino misterico fatto insieme da tutti i credenti in Cristo, ritrovandosi tutti attorno al mistero del Natale o nella gioiosa celebrazione della veglia pasquale. E’ la comunione nella festa che unifica la Chiesa nel mistero del Signore.
La varietà dei riti, le tradizioni proprie, la stessa pietà popolare con le iniziative moderne che vi possano sorgere, sono anche la testimonianza di una stessa Chiesa che si realizza in diversi popoli, culture, situazioni.

IV.4.c) La dimensione antropologica dell’Anno liturgico
La celebrazione tocca sempre l’uomo nelle sue profondità antropologiche, nel suo senso religioso, attraverso il simbolismo. L’Anno liturgico, in quanto celebrazione dell'uomo nuovo - Cristo - del suo cammino pasquale, e della sua offerta di rinnovamento per 1'uomo e la società, é di una forte carica realista.
La profondità del senso ecclesiale della celebrazione si rivela e si misura dalla concretezza di sentimenti umani che nella fede sono messi a confronto con il mistero; il realismo del Natale o della Pasqua si cala in esperienze, atteggiamenti, propositi di vita nuova.
L’Anno liturgico é archetipo - nel senso più profondo della parola - per 1'uomo e per 1'umanità, perché celebra in Cristo l’utopia, divenuta realtà, di una piena realizzazione dell'uomo, con la prospettiva della vita gloriosa ed eterna ma anche con la necessaria «pasqua» attraverso la morte, come in Cristo e nei Santi. Di questa umanità già redenta Maria é l’icona escatologica ed il modello concreto del vivere umanamente-soprannaturalmente il mistero di Cristo, come sottolinea SC 103.
La dimensione antropologica si esprime nei diversi elementi, forme, riti che sono proposti per celebrare la multiforme grazia di Cristo;
la stessa categoria di festa, di celebrazione, esprime a livello antropologico, una categoria del vissuto divenuto per un momento concentrazione di senso e di gratuità. Si capisce in questo contesto quanto delicata sia la questione di celebrazioni veramente sentite, percepite, impegnate, del mistero del Signore, con i vantaggi ed i rischi dell'animazione, della creatività, della stessa pietà popolare.

IV.5. Insegnamento ufficiale della Chiesa nel XX sec.

IV.5.a) L’Enciclica Mediator Dei di Pio XII (1947)
E'
è il primo documento della Chiesa, che considera 1'anno liturgico come un tutto e si occupa della sua interpretazione (nn. 149-167). In esso Vengono espresse le seguenti concezioni:

1. L’Anno liturgico (annus liturgicus) viene visto chiaramente come cristocentrico. Si tratta primariamente della persona di Cristo con i misteri della sua vita nascosta, della sua opera redentrice e del suo trionfo (n. 149). I misteri di Cristo vengono richiamati alla memoria (in memoriam revocare) con 1'intenzione che tutti i fedeli ne partecipino così (participare), che il Capo del Corpo mistico possa sviluppare nei singoli membri la vita nella sua completa dedizione. Si tratta della presenza di Cristo nei partecipanti (n. 150).

2. Quest’inizio felice in verità non viene attuato ulteriormente. In seguito l’Enciclica porta avanti una concezione psicologico -morale del1'anno liturgico: la liturgia a tempi fissi propone alla meditazione la vita di Cristo e richiama la nostra attenzione sugli esempi che sono da imitare (nn. 151-158).

3. Infine l’Enciclica, immediatamente prima dell'esposizione delle feste dei santi, ritorna ancora una volta sulla questione della pre-senza salvifica: «L'anno liturgico non è una fredda e inerte rappresentazione di fatti che appartengono al passato o una semplice e nuda rievocazione di realtà di altri tempi. Esso è piuttosto Cristo stesso, che vive sempre nella sua Chiesa» (n. 163). In questo contesto l’Enciclica parla espressamente dei misteri di Cristo, «che sono perennemente presenti e operanti». Con un colpo nel fianco per la teologia dei misteri (a dire il vero non nominata espressamente) viene detto che questa presenza non avverrebbe però «nel modo incerto e nebuloso, del quale parlano alcuni recenti autori, ma come ci insegna la dottrina cattolica». Secondo l’opinione dei teologi (non citati più precisamente, quindi definiti altrettanto «nebulosamente») gli avvenimenti salvifici sono esempi di perfezione cristiana e in forza dei meriti di Cristo fonti della grazia divina. Gli avvenimenti salvifici perdurano in noi nel loro effetto (effectu suo in nobis perdurant). La questione della presenza viene qui ridotta tramite lo schema causa-effetto della teologia scolastica dei sacramenti alla presenza dei frutti degli avvenimenti salvifici.
Il concetto dell'anno liturgico che l’Enciclica sviluppa, è poco unitario; diverse concezioni ineguali stanno l’una accanto all’altra. Evidentemente si è imparato poco dalla precedente teologia dei misteri come pure dalla feconda discussione intorno ad essa.

IV.5.b) La Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium del Vaticano II (1963)
Questo documento si occupa espressamente dell’Anno liturgico nel cap. V (nn. 102-111), nel quale viene presentata a grandi tratti una concezione teologica compatta (spec. nn. 102-106), senza entrare più da vicino in questioni dettagliate come per esempio quella del modo della ripresentazione. Anche riguardo all’anno liturgico si può valutare la SC come un «salto in avanti».

1. Senza voler dare una definizione propria del concetto, nell’art. 102 viene descritto più precisamente il significato della celebrazione dell'anno. La Chiesa considera suo dovere «celebrare con sacra memoria in giorni determinati nel corso dell'anno 1'opera della salvezza del suo Sposo divino». La Costituzione parte da due concetti centrali: si tratta innanzitutto di una commemorazione (sacra recordatione celebrare), cioè dell’anamnesi. Pertanto è esclusa ogni restrizione a un ricordo puramente psicologico. Il Concilio non esclude la funzione pedagogico-educativa dell'anno liturgico, ma la mette espressamente in una posizione subordinata (cf. n. 105). Il contenuto della memoria è l’opera della salvezza del Salvatore. Al centro non sta tanto là persona di Cristo, quanto la sua opera di redenzione. Anche se in questo contesto si parla solo dell’opera salvifica di Cristo, per la Costituzione tuttavia vi è inclusa tutta la storia della salvezza (cf. SC 5-7).

2. Il vero centro dell’opera della salvezza di Cristo è il Mistero pasquale, morte e risurrezione. Nel ciclo settimanale questo viene celebrato alla domenica, nel ciclo annuale a Pasqua. Quindi la domenica e la Pasqua annuale sono il centro della struttura liturgica dell’anno. Il Mistero pasquale viene anche visto come centro del culto dei santi: «Nella memoria dei santi la Chiesa proclama il mistero pasquale realizzato nei santi, che hanno sofferto con Cristo e con Lui sono glorificati» (SC 104).

3. È significativo che in questo contesto venga menzionata espres-samente la celebrazione dell'attesa del ritorno del Signore e della speranza degli ultimi tempi (SC 102; cf. 8).

4. Altrettanto espressamente viene richiamata l’attenzione sul rendere presente nella celebrazione dei misteri le ricchezze, le manifestazioni di potenza e i meriti di Cristo, senza tuttavia entrare più dettagliatamente nella questione del modo. Innanzitutto non ci si lega più allo schema neo-scolastico di «causa instrumentalis» ed «effectus» del sacramento. Qui diviene chiaro che la discussione sulla teologia dei misteri ha allargato l’orizzonte. La presenza salvifica non avviene solo nel momento dell’atto sacramentale, ma in tutta la celebrazione, perché, come viene già detto anche nell’art. 7, la presenza di Cristo nella liturgia è multiforme.

IV.6. Elementi che hanno influito sullo sviluppo dell’Anno liturgico
Qui voglio tentare di delineare le forze più importanti, che stanno dietro allo sviluppo dell’Anno liturgico.

a) Innanzitutto è la natura dell’uomo, dell’homo ludens e dell’homo festivus, che anche nell’ambito religioso spinge alla festa e alla celebrazione.
b) Inoltre è determinante il corso dell’anno naturale, improntato su quello degli astri, e indipendentemente da ciò il decorso delle stagioni.
c) Importanti forze formatrici sono le feste giudaiche e pagane che precedettero le feste cristiane.
d) La forza formatrice decisiva è la storia della salvezza, trasmessa precisamente anche come forza formante dalla liturgia veterotestamentaria e giudaica, centrata, nel Cristianesimo, intorno all’avvenimento salvifico di Cristo.
e) Inoltre davano motivo a feste alcuni avvenimenti della storia della Chiesa.
f) In Occidente si svilupparono altre feste dalla riflessione teologica e da determinate correnti di pietà: si tratta delle feste di idea e delle feste di devozione (talvolta non nettamente separabili tra loro).
g) Di per sé non si possono creare feste: esse si sviluppano spontaneamente per iniziativa e recezione.

IV.7. Tipi e ordinamenti delle feste cristiane
Le feste hanno per base eventi degni di essere celebrati con ricordo e rendimento di grazie. Ciò vale sia per feste naturalistiche con ricorrenza periodica che per eventi significativi nella vita dei singoli, delle famiglie (riti di passaggio) e delle piccole e grosse comunità. Nel calendario liturgico ebraico, sulle feste naturalistiche originarie si esercitò sempre più 1'influsso degli eventi salvifici di Israele, nei quali Jahvé, il Dio dell'Alleanza, era venuto incontro al suo popolo per salvarlo. La comunità primitiva di Gerusalemme conobbe molto bene queste feste salvifiche dei propri connazionali. Ma dopo 1'esperienza dell'evento - Cristo (vita, passione, morte, risurrezione e ascensione) fu chiaro per essa che il suo mistero pasquale stesso era divenuto 1'oggetto centrale della festa e della celebrazione dei cristiani, tanto più che la sua regolare celebrazione era stata fatta risalire proprio a Cristo (cf. 1Cor 11, 24; Lc 22, 19). Bisognerà inoltre dire più precisamente che dapprima il mistero pasquale fu celebrato la domenica quale pasqua settimanale; ad essa al più tardi, verso il passaggio al secondo secolo, fu aggiunta la festa di Pasqua quale Pasqua annuale. A questa seguì nello sviluppo storico una serie di altre feste celebrative di eventi del Signore o di momenti della vita di sua Madre, e giorni commemorativi di martiri e di santi.
Un particolare gruppo di celebrazioni si incontra a partire dal Medioevo nelle cosiddette feste di idea, che hanno per oggetto determinate verità e aspetti della dottrina e della pietà cristiana, o anche determinati titoli del Signore, di sua Madre o di un santo. Vengono chiamate anche feste di devozione, oppure si parla di feste dogmatiche, tematiche, e - in opposizione alle feste dinamiche, celebrative delle azioni salvifiche di Cristo - statiche. Ad esse appartengono ad es. le solennità della Trinità, del Corpus Domini, del Sacro Cuore e di Cristo Re, la festa del Preziosissimo Sangue, del Nome di Gesù, della Sacra Famiglia, e numerose feste mariane. Tali feste possono aumentare a dismisura; talune sono un inutile doppione. L'autorità centrale della chiesa si è opposta a taluni tentativi di introduzione di nuove feste del genere. Il commento alla riforma dell'anno liturgico e del nuovo calendario in Norme generali per l'ordinamento dell'anno liturgico e del calendario (= NG) considera come scopo della riforma diminuire di numero tali feste o lasciarle ai calendari particolari (NG II, I, 1).
Un riserbo ancora maggiore si è avuto nel caso di fatti della storia della chiesa, di cui si voleva rilevare il significato con una festa.
Poiché una festa cristiana culmina nella celebrazione della liturgia e specialmente dell'eucaristia, essa non è solo una celebrazione commemorativa, ma una ripresentazione del mistero pasquale di Cristo, nel quale sono coinvolti il singolo come la comunità. Grazie a ciò la loro vita viene contrassegnata sempre più dalla conformità a Cristo (cf. Rm 8, 29). Poiché 1'Anno liturgico per coloro che lo celebrano contiene un intimo dinamismo, esso si lascia paragonare più che a un cerchio, a una spirale che porta in alto, e che dopo un giro conduce un po' più su del punto di partenza, «incontro a Cristo».
Però, quanto più numerose e differenziate divennero nel corso della storia della Chiesa le feste liturgiche tanto più crebbe il pericolo che la struttura fondamentale dell'Anno liturgico venisse oscurata e che 1'essenziale venisse soffocato da una pietà particolare e periferica. A ciò cercò di ovviare con varie disposizioni la legislazione liturgica. Ma ciò condusse negli ultimi secoli a un complicato ordinamento delle feste che portò a non meno di sei gradi diversi con ulteriori classificazioni. Così a partire da Pio V, che per incarico del concilio Tridentino pubblicò il Breviario (1568) e il Messale (1570), si conobbero gradi di Doppio di prima classe, Doppio di seconda classe, Doppio maggiore, Doppio, Semidoppio, Semplice. Numerose feste di grado Doppio avevano ottave (settimane festive), che a loro volta secondo il proprio rango vennero divise in privilegiate, ordinarie e semplici. Inoltre le ottave privilegiate vennero ancora divise in ottave di 1°, 2° e 3° ordine. Così ad es. 1'ordine gerarchico di Pasqua, quale festa più grande, era: Doppio di prima classe con ottava privilegiata di primo ordine, mentre Natale aveva solo una ottava privilegiata di terzo ordine. Già a partire da Benedetto XIV si ebbero sempre nuovi tentativi di una semplificazione; così ancora nel 1955 e nel 1960 (Codex rubricarum del 25 luglio). Ma solo il nuovo ordinamento voluto dal Vaticano II (SC 107) portò nell'anno 1969 a una semplificazione sostanziale, contenuta nelle Norme generali per l'ordinamento dell'anno liturgico e del calendario. Qui le feste secondo il loro significato vengono suddivise in solennità, feste e memorie; tra queste ultime si deve ancora distinguere tra memorie obbligatorie e facoltative. Solo le due solennità di Pasqua e Natale hanno una ottava.

IV.8. Struttura dell’Anno liturgico
Come inizio dell’Anno liturgico consideriamo oggi la prima domenica di Avvento. Ma non fu sempre così. Anche 1'inizio dell'anno civile non era lo stesso nelle nazioni cristiane del Medioevo. Il calendario giuliano di Caio Giulio Cesare (dal 45 a.C.). aveva già spostato l’antico capodanno romano dal primo marzo al primo gennaio. Anche se questo calendario si diffuse e si affermò dappertutto in Occidente ci furono tuttavia per un certo tempo capodanni differenti: il 1° marzo fu considerato inizio dell’anno nel regno franco fina al sec. VIII e a Venezia fino all’anno 1797; Pasqua, soprattutto in Francia, fino al sec. XV; Natale, principalmente in Scandinavia e in Germania, fino al sec. XVI; il 25 marzo (festa dell’Annunciazione del Signore, come giorno proprio dell’Incarnazione di Cristo), soprattutto in Italia, ma anche nella provincia ecclesiastica di Treviri; il 1° settembre a partire dal sec. VII nell'impero bizantino e nei territori sotto il suo influsso.
Accanto all’anno civile così diversamente determinato non si ebbe dapprima il concetto di un anno ecclesiastico o liturgico. Quando tuttavia a partire dal sec. X-XI si usò sempre più collocare all'inizio dei libri liturgici (sacramentari) i testi della prima domenica di Avvento, poté lentamente svilupparsi la convinzione che con la prima domenica di Avvento iniziasse il ciclo annuale delle feste della chiesa.
La molteplicità delle feste può certo trovare un limite nella capacità ricettiva umana. Ciò è stato di tanto in tanto dimenticato, ma proprio l’autorità centrale della Chiesa non di rado di fronte al premere di nuove feste dalle diverse chiese particolari e dalle comunità religiose ha tirato i freni e opposto un rifiuto. D’altra parte la molteplicità delle feste e memorie liturgiche rende più facile mostrare l’unico mistero di Cristo sotto aspetti particolari e con accenti svariati e così far incontrare i fedeli con il «Cristo multiforme» (A.A. Häussling) e la ricchezza della salvezza. In ciò occorre naturalmente evitare il pericolo di «vedere gli alberi e non vedere la foresta», cioè a motivo dei tanti aspetti particolari di perdere di vista l’insieme.
Già si è detto più volte che il mistero pasquale di Cristo è la fonte e il centro dell’Anno liturgico. Come pasqua settimanale, celebrata ogni domenica, esso già nell'epoca apostolica attraversa e penetra 1'intero ciclo annuale. Segue ben presto la pasqua annuale, che lentamente si sviluppa nel ciclo pasquale con un tempo di preparazione che precede la festa e un tempo che la segue quasi a modo di solenne risonanza. Esso, secondo NG, comincia con il Mercoledì delle ceneri e si conclude, con una durata complessiva di 13 settimane e mezza, la domenica di pentecoste. In modo simile anche la celebrazione annuale della nascita di Cristo si è sviluppata in un ciclo festivo con un tempo di preparazione e uno di risonanza solenne (dalla prima domenica di Avvento alla domenica dopo l’Epifania = festa del battesimo del Signore). Questi due cicli festivi sono i pilastri portanti dell’Anno liturgico. Le 33 o 34 settimane intermedie, nelle quali «si ricorda il mistero stesso di Cristo nella sua pienezza» portano il nome di tempo per annum o di tempo ordinario (NG 43). Esso si inizia con il lunedì dopo la festa del battesimo del Signore e si conclude con il sabato precedente la prima domenica di Avvento.
I due cicli festivi, il tempo ordinario e le rimanenti solennità e feste dedicate al mistero della redenzione sono designate anche come Temporale o Proprio del tempo (NG 50). Esso deve sempre essere conservato nella sua integrità e «deve godere della dovuta preminenza sulle celebrazioni particolari» (ivi). Il calendario delle celebrazioni dei santi è designato come Santorale.
In questa materia si dovrà inoltre distinguere tra il calendario generale romano e i calendari particolari, che devono essere approvati da Roma e cioè i calendari di determinate aree linguistiche, i calendari diocesani e i calendari degli ordini religiosi.

IV.9. La Domenica come celebrazione primordiale del Mistero Pasquale

IV.9.a) Fondamenti biblici e sviluppo storico
Già negli scritti del NT il primo giorno della settimana ebraica, che noi chiamiamo domenica, raggiunge un significato rilevante. È il giorno della risurrezione del Signore come tutti gli evangelisti concordemente riferiscono, il giorno preferito delle sue apparizioni (Mt 28, 9; Lc 24, 13; Gv 20, 19s.) e il giorno nel quale il Signore glorificato effonde il dono dello Spirito Santo promesso (Gv 20, 22; At 2, 1s.). Nella consapevolezza dei discepoli esso diventa così «il giorno fatto dal Signore» (Sal 117, 24), e il giorno preferito delle riunioni della comunità (At 20, 7). Il giorno per fare la carità per i bisognosi: raccolte (cf. 1Cor 16, 1s.).
Certo la celebrazione comunitaria domenicale non conosceva alcun rituale unitario, però colpisce il fatto che Paolo considera la Cena del Signore come centro delle assemblee (1Cor 11, 17-34; cf. At 20, 7).
Una conferma è fornita da antichissimi testimoni non biblici, come la Didachè(Insegnamento dei Dodici Apostoli), la Lettera di Plinio all'imperatore Traiano e Giustino martire. Secondo Ignazio di Antiochia la celebrazione della domenica diventa proprio il segno di distinzione dei cristiani nei confronti di coloro che secondo 1'antico ordinamento festeggiano ancora il sabato. I cristiani però sono chiamati a una nuova speranza e «vivono nell’osservanza del giorno del Signore, nel quale anche la nostra vita è sorta, per mezzo di lui e della sua morte».
Poiché la domenica era allora un giorno di lavoro ordinario i cristiani dovevano tenere i loro incontri nella tarda serata o, dopo il divieto di riunioni serali da parte dell'imperatore Traiano, nel primo mattino. Ciò comportava sicuramente una certa scomodità e richiedeva un'alta misura di spirito di sacrificio. Non deve quindi neppure stupire che già la Lettera agli Ebrei dovesse richiamare alla regolare frequenza (10, 25). Lo stesso fa ancora più insistentemente la Didascalia degli apostoli a metà del sec. III. Poco dopo il 300 il concilio di Elvira (Spagna) stabilisce: «Se qualcuno che abita in città, per tre domeniche non va alla chiesa deve essere escluso dalla comunità per breve tempo affinché appaia richiamato all'ordine».
Il significato della domenica nel cristianesimo primitivo si riflette anche nelle sue denominazioni. Il nome più antico, primo giorno, voleva indicare non solo l’inizio della settimana, ma conteneva anche un’allusione al primo giorno della settimana della creazione, che era il giorno della luce. Con la domenica si inizia la «nuova creazione» (cf. 2Cor 5, 17). Già in Ap 1, 10 incontriamo il nome, in seguito molto frequente, di giorno del Signore, che come dies dominica si è mantenuto non solo nella lingua ufficiale della chiesa, ma anche nelle lingue romanze. Il nome giorno ottavo significa che dopo i sette giorni della settimana della creazione con il suo sabato, il giorno della risurrezione introduce la nuova creazione, che sbocca nell'eterno riposo sabbatico del compimento finale. In Tertulliano e numerosi autori greci si trova il nome di giorno della risurrezione, che sopravvive in talune lingue slave. Dopo una esitazione iniziale i cristiani accolgono anche il nome dies solis, che deriva dalla settimana planetaria greco-romana. Essi fanno ciò nel senso di s. Girolamo, che scrive: «Se esso (il giorno del Signore) è chiamato dai pagani giorno del sole, anche noi siamo volentieri d'accordo: poiché oggi è sorta la luce del mondo e il sole della giustizia, e tra le sue ali trova riparo la salvezza».
Per l’ulteriore sviluppo della domenica fu di grande importanza la legge dell'imperatore Costantino del 3 marzo 321. Essa dichiara «il venerabile giorno del sole» giorno di riposo per tutti i giudici, gli abitanti delle città e coloro che esercitano una professione. Gli abitanti delle campagne devono attendere al loro lavoro per non perdere le ore di tempo favorevoli. Poche settimane più tardi un’altra legge dispone che la auspicabile liberazione degli schiavi non cada sotto il comando del riposo. Con queste disposizioni la celebrazione liturgica della domenica era sostanzialmente facilitata. Lentamente però il riposo dal lavoro si pone sempre più al centro della santificazione della domenica e ne diventa il criterio essenziale. Le opere servili in domenica diventano fatti passibili di pena e al riguardo si prende a modello la dura legislazione sabbatica veterotestamentaria. L'alta Scolastica distingue di nuovo chiaramente la domenica dal sabato ebraico e motiva il divieto dei lavori servili dicendo che ciò facilita la partecipazione alla liturgia. Anche nei secoli seguenti il divieto del lavoro domenicale fu troppo in primo piano e quindi oscurò il senso cristologico primario. Nel tardo Medioevo e nell'epoca moderna si insistette fortemente sul precetto della messa domenicale e ogni infrazione al riguardo fu dichiarata colpa grave.

IV.9.b) La domenica nell’epoca attuale
Con riguardo alla celebrazione cristiana della domenica largamente compromessa, il Vaticano II ha chiaramente rilevato il significato cristiano della domenica come celebrazione del mistero pasquale. «In questo giorno infatti i fedeli devono riunirsi in assemblea per ascoltare la parola di Dio e partecipare all’Eucaristia, e così far memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù e rendere grazie a Dio...» (SC 106). La domenica deve essere nello stesso tempo un giorno di riposo e di tempo libero. Poiché essa è «fondamento e nucleo di tutto 1’anno liturgico» non le devono essere preferite altre celebrazioni a meno che non siano veramente di grandissima importanza» (ivi).
Con riguardo a quest'ultima direttiva le NG del 1969 stabiliscono che solo una solennità o una festa del Signore può sostituire la liturgia della domenica, mentre la liturgia delle domeniche di Avvento, Quaresima e Pasqua non può assolutamente essere soppiantata (5).
Recentemente è sorto il pericolo che queste norme a difesa della liturgia domenicale vengano eluse dalla frequente finalizzazione e tematizzazione di numerose domeniche e dalla nuova moda delle messe a tema.
Un arricchimento della liturgia domenicale consiste nell'approntamento di dieci prefazi delle domeniche del tempo ordinario, che proclamano il mistero pasquale. Anche le nuove inserzioni delle Preghiere eucaristiche I-III a ricordo della domenica sono adatte a evidenziare il significato della domenica stessa.
Anche il CIC del 1983 ha felicemente ripreso quasi alla lettera la prospettiva cristologica della domenica, propria di SC 106 (can. 1246§1). Anche esso accentua insistentemente il precetto della messa e del riposo domenicale (allontanandosi alquanto dal CIC del 1917), afferma: I fedeli «devono astenersi da quei lavori e affari che impediscono la doverosa partecipazione alla liturgia, la gioia propria del giorno del Signore e il necessario sollievo dello spirito e del corpo» (can. 1247). Dove per la mancanza di sacerdote o per un altro motivo non è possibile una celebrazione eucaristica domenicale viene raccomandata caldamente la partecipazione a una liturgia della Parola o un particolare tempo di preghiera (come preghiera personale o familiare; can. 1248§2).
Come una deplorevole rottura con la tradizione cristiana va considerata la raccomandazione R 2015 della Organizzazione internazionale per la standardizzazione (ISO), una organizzazione secondaria delle Nazioni Unite, di ritenere la domenica, a partire dal 1° gennaio 1976, nel campo economico-tecnico e quindi complessivamente nell'ambito pubblico, come l’ultimo giorno della settimana. La conseguenza fu, nonostante talune proteste, che nei calendari la domenica appare alla fine della settimana e non più, come finora, come il primo giorno di una nuova settimana. C’è da temere che così, nell'opinione pubblica, la domenica venga ancora più deprezzata religiosamente come 1'ultimo giorno dello spazio di tempo libero fine settimana, e che la sua stima come giorno della risurrezione di Cristo, che inaugura una nuova epoca del mondo, decresca ulteriormente. L’Istituto austriaco per la normalizzazione ha accolto la raccomandazione dell'ISO, con maggiore considerazione della tradizione cristiana, aggiungendo a modo di chiarimento: «Solo a scopo di numerazione il lunedì... è considerato come il primo giorno della settimana... Rimane invariato che secondo il computo cristiano ed ebraico la domenica è il primo giorno della settimana» (OENORM A 2740). In corrispondenza il calendario tipo austriaco, con semplici mezzi tipografici, ha tenuto conto della nuova norma in modo tale che 1'ordinamento finora in uso apparisse immutato.
Il pericolo che corre attualmente la domenica cristiana appare con particolare evidenza dal decremento della partecipazione alla liturgia. Da statistiche risulta che in certi paesi europei la percentuale della frequenza alla messa si è ridotta di più della metà dall'anno 1935 al 1984. La giovane generazione diserta la messa domenicale fino al 90% . Tra i motivi addotti per la mancata partecipazione potrebbe stare al primo posto il calo della fede cristiana. Nelle chiese della Riforma la problematica è uguale, se non ancora più acuta.

IV.10. La caratterizzazione liturgica dei giorni della settimana
A differenza della domenica i giorni della settimana conoscono solo lentamente e in modo non omogeneo una caratterizzazione religioso-liturgica. La messa in risalto della domenica come il giorno della risurrezione, nella quale si compie la redenzione, lasciò dapprima gli altri giorni in ombra. Una eccezione è rappresentata già presto dal mercoledì e dal venerdì. Così l’Insegnamento dei dodici apostoli (Didachè) ordina di non digiunare a differenza degli ipocriti (cf. Mt 6, 16) il lunedì e il giovedì, ma il mercoledì e il venerdì. Una ragione per questo digiuno, conosciuto anche da Tertulliano, la dà lo scritto siriaco Didascalia degli Apostoli, della prima metà del sec. III, che motiva il digiuno del mercoledì con il tradimento di Giuda e quello del venerdì con la morte in croce di Cristo. Ugualmente il digiuno del sabato, già molto presto in uso a Roma, è giustificato con il lutto degli apostoli per la morte di Gesù.
Diventa così evidente che gli eventi della Settimana Santa hanno avuto un ruolo importante nella caratterizzazione liturgica dei giorni della settimana. Infine, nel Medioevo anche il giovedì riceve un inconfondibile accento cristologico nel ricordo dell’istituzione dell’eucaristia nell’Ultima Cena e della passione iniziata con l’agonia nell’Orto degli Ulivi. «Così come la domenica rappresenta una Pasqua di tutte le settimane, anche la settimana appare come una copia attenuata della Settimana santa. I grandi fatti della storia della salvezza dovevano passare sotto gli occhi dei fedeli non una volta solo nel corso dell'anno, ma ogni volta anche nel piccolo ciclo della settimana».
Questa caratterizzazione storico-salvifica della maggior parte dei giorni della settimana nel Medioevo viene soppiantata per un certo tempo, cominciando con Alcuino (†804), da numerose serie di messe votive caratterizzate differentemente. In esse hanno un ruolo particolare la venerazione della Trinità e dei santi, ma anche la preoccupazione della perfezione e della salvezza dell’anima. Il tentativo di rapportare anche l’Incarnazione di Gesù ai giorni della settimana non ebbe un successo permanente. Finalmente nel processo posttridentino d’unificazione e di fissazione della liturgia, quale troviamo soprattutto nel Messale di Pio V, si delineò la seguente serie di messe votive, che insieme con alcune aggiunte più tardive rimase in vigore esattamente 400 anni fino al Messale di Paolo VI del 1970.
Lunedì: SS. Trinità
Martedì: Angeli e anche Angelo Custode
Mercoledì: Apostoli; dal 1920 anche s. Giuseppe e ss. Pietro e Paolo
Giovedì: Spirito Santo; dal 1604 anche Eucaristia, dal 1935 anche Cristo sommo ed eterno sacerdote
Venerdì: Croce; dal 1604 anche passione di Cristo
Sabato: Maria
Il nuovo Messale Romano della CEI (19832) conosce 17 messe votive, tra le quali quelle citate sono tutte rappresentate. Esso però rinuncia ad assegnarle a particolari giorni della settimana. Così il singolo sacerdote è lasciato più o meno libero di mantenere la caratterizzazione dei giorni della settimana essenzialmente medievale.

IV.11. Il Mistero Pasquale come nucleo dell’Anno liturgico
Nucleo dell'anno liturgico è la passione e la risurrezione di Cristo. Questa azione salvifica centrale viene spesso designata dal Vaticano II come mistero pasquale (Paschale mysterium). Mistero in senso liturgico significa l’insondabile azione salvifica divina in Cristo per gli uomini. La parola greco-latina Pascha risale all’ebraico pesach. Questa indica originariamente il passaggio dell'angelo sterminatore che risparmia le case degli ebrei, che vivono nella schiavitù egiziana. In seguito essa viene riferita anche al passaggio di salvezza del popolo attraverso il Mar Rosso e il deserto pieno di pericoli, fino alla Terra promessa. Pesach sta poi a indicare anche il pasto rituale, memoriale di tutto ciò che si celebrava il 14 nisan (il plenilunio del primo mese di primavera), nel quale veniva mangiato l’«agnello di Pesach» come pasto sacrificale. Per la primitiva comunità cristiana era evidente il rapporto tra questa azione divina salvifica di un tempo e 1'evento redentore di Cristo, tanto più che la crocifissione di Cristo coincise con il giorno di preparazione della festa ebraica di pasqua (cf. Gv 19, 14 e par.). Era l’ora in cui nel Tempio venivano immolati gli agnelli pasquali. Così Paolo ispirandosi chiaramente al contenuto della festa pasquale ebraica può scrivere: «E infatti Cristo, nostra pasqua, è stato immolato!» (1Cor 5, 7; cf. Gv 19, 36; 1Pt 1, 19; Ap 5, 6.9).
Egli col suo passaggio attraverso la spogliazione di sé, la passione e la morte, attraverso la risurrezione e la glorificcazione, ha condotto il popolo di Dio della nuova Alleanza alla comunione salvifica di grazia e di vita con Dio Padre (cf. Col 1, 12).
Parlando del mistero pasquale non dobbiamo pensare solo alla risurrezione il mattino di Pasqua, ma dobbiamo includere, come diceva Sant’Agostino: «l’intero triduo santissimo del Signore crocifisso, sepolto e risorto», dalla sera del Giovedì Santo alla domenica di Pasqua inclusa.
Questo nucleo dell'anno liturgico come fatto storico appartiene certo al passato, ma il suo elemento essenziale, il dono di sé e l’obbedienza fino alla morte continuano a vivere e a operare in Cristo glorificato. Poiché la sua volontà salvifica è universale egli, come sommo sacerdote della nuova Alleanza, ne rende partecipi gli uomini di tutti i tempi, ogni volta che essi si riuniscono in assemblea per le celebrazioni liturgiche.
Questo irradiamento attraverso l’anno liturgico non può tuttavia essere inteso erroneamente come un dono di grazie operante automaticamente. Si tratta di un’offerta di grazia da parte di Dio a uomini liberi in vista di un incontro di partecipazione, nel quale l’uomo deve portare la fede nella sua piena espressione. Ciò significa, nel senso del NT, sia professione di fede che fiducia e disponibilità alla volontà del Padre. E’ la fede che è caratterizzata dalla carità ed è operante attraverso di essa (cf. Gal 5, 6). Quando l’uomo si apre in tal modo all’offerta di salvezza di Dio, il mistero pasquale diventa efficace e fruttuoso.

IV.12. Pasqua e il suo ciclo

Però, prendendo in mano gli scritti neotestamentari, vi potete accorgere che essi non hanno ancora alcuna chiara affermazione su una celebrazione annuale del Mistero Pasquale, anche se alcuni testi lasciano supporre che già la comunità primitiva celebrasse la festa ebraica di Pasqua con senso cristiano (cf. 1Cor 5, 7s.). Testimonianze chiare si hanno solo nel sec. II. Nella seconda metà di questo secolo scoppia la cosiddetta controversia pasquale. Mi spiego: mentre i cristiani dell’Asia Minore e della Siria compivano la celebrazione annuale, indipendentemente da un determinato giorno della settimana, sempre il 14 di nisan, il plenilunio del primo mese di primavera, la rimanente parte della cristianità si decise per la domenica dopo il 14 di nisan. Il concilio di Nicea del 325 pose termine a questa controversia interna della Chiesa a motivo della data pasquale con la prescrizione di celebrare sempre la Pasqua la domenica dopo il primo plenilunio di primavera. Con questo ordinamento dipendente dalle fasi lunari si accettò che questa data di Pasqua, in un computo del tempo basato sul sole, avesse un'oscillazione di cinque settimane (22 marzo - 25 aprile) e che così una gran parte dell'anno liturgico fosse caratterizzata da feste mobili. Recenti sforzi per una fissazione (più stabile) della data di Pasqua sono rimasti finora senza esito.
La lingua latina come denominazione per la celebrazione annuale ha ripreso il greco Pascha (dall'ebraico Pesach), e di qui derivano anche le corrispondenti denominazioni in numerose lingue moderne (invece 1'origine ad es. del termine tedesco Ostern o dell'inglese Easter è controversa).

IV.12.a) Il triduo pasquale
Originariamente la chiesa celebrava la propria festa di Pasqua in un solo giorno e precisamente nella sola notte tra il Sabato Santo e la Domenica di Pasqua. Dal sec. IV, a partire da una prospettiva più storicizzante e da una forma di rappresentazione imitativa, si formò il «triduo santissimo del Signore crocifisso, sepolto e risorto». Le celebrazioni liturgiche di questi tre giorni, dalla sera del Giovedì Santo alla Domenica di Pasqua, rappresentano da allora la vera celebrazione annuale del mistero pasquale. Poiché queste celebrazioni si erano rese molto bisognose di riforma già Pio XII dispose un rinnovamento radicale (1951 e 1955), una sostanziale anticipazione della riforma postconciliare del Messale Romano del 1970. La breve descrizione che ora farò fa riferimento al Messale Romano della CEI del 19832.

* La celebrazione del Giovedì Santo
Poiché secondo la concezione degli ebrei e in genere degli antichi il giorno si inizia la sera precedente, anche la sera del Giovedì Santo fa già parte dei tre giorni santi. Ciò si giustifica anche dal punto di vista del contenuto, poiché nell'Ultima Cena Gesù anticipa sacramentalmente il dono di sé nella morte sulla croce: cioè, durante l’Ultima Cena inizia propriamente la passione.
La messa della Cena del Signore deve essere 1'unica in questo giorno (a prescindere dalla missa chrismatis = Messa del S. Crisma del vescovo nella mattina). A essa è unita l’usanza della lavanda dei piedi (detta anche Mandatum = comando), dopo il Vangelo (facoltativamente). Detta 1'orazione dopo la comunione i doni preconsacrati per il Venerdì Santo vengono portati al tabernacolo di un altare (cappella) laterale e viene rimosso 1'ornato dell’altare maggiore (denudatio altaris = spogliazione dell’altare). La successiva adorazione davanti al SS. Sacramento deve possibilmente essere mantenuta. La denominazione di questo luogo della reposizione come santo sepolcro deve essere considerata meno felice. E’ il caso ancora di ricordare l’uso, che si mantiene, di suonare le campane per il Gloria, per poi farle tacere fino al Gloria della Veglia Pasquale. All’altare del posto del campanello si usa in taluni luoghi uno strumento di legno (crotalo o raganella).

* La liturgia del Venerdì Santo
I primi secoli cristiani in questo giorno della morte di Gesù rinunciarono ad una particolare liturgia e tennero in esso, come nel Sabato Santo, uno stretto digiuno di lutto. Verso la fine del sec. IV si conosceva a Gerusalemme, nella mattinata, 1'adorazione della Santa Croce e nel pomeriggio una liturgia della Parola con la lettura della Passione. Di una liturgia della Parola riferisce anche s. Agostino per il Nordafrica. Inoltre nelle chiese locali si svilupparono attorno ad una reliquia della croce (ad es. a Roma) delle cerimonie di adorazione della croce. Attraverso la liturgia romana importata nei paesi franchi e la elaborazione del Pontificale romano-germanico del sec. X, da una semplice liturgia di comunione si sviluppò lentamente la missa praesanctificatorum senza Preghiera eucaristica. L'uso medievale di comunicare raramente portò alla pratica che solo il sacerdote comunicasse in tale messa. In tale forma il Messale tridentino del 1570 assunse la liturgia del Venerdì Santo e la conservò per quasi 400 anni. Il nuovo ordinamento introdotto nel 1955 semplificò la tradizionale divisione in tre parti: liturgia della Parola, adorazione della croce, liturgia di comunione, e tolse il divieto della comunione dei fedeli. Il Messale Romano del 1970 ha sostanzialmente accolto tale riforma.
Di norma la celebrazione inizia verso le ore 15.00; il colore liturgico è il rosso. Dopo la prostrazione davanti all'altare interamente spoglio e la breve introduzione con 1'orazione del giorno segue la liturgia della Parola con due letture, la narrazione della passione del Signore secondo Giovanni, 1'omelia e la preghiera universale. Questa nelle sue intenzioni è stata resa più concisa e formulata con maggior riguardo nei confronti degli ebrei e di coloro che prima erano detti eretici e scismatici. All'adorazione della croce sono possibili due forme di ostensione della santa croce: scoprimento graduale o processione con la croce svelata. Mentre clero e fedeli compiono 1'atto di venerazione alla croce (genuflessione o bacio o altro segno), il coro e (o) l’assem-blea eseguono gli antichi e venerabili canti per 1'adorazione della santa croce, nei quali già si esprime la gioia pasquale. La semplice liturgia di comunione con i dona praesanctificata (consacrati Giovedì Santo) comporta come preparazione il Padre nostro, l’embolismo Liberaci… e l’acclamazione Tuo è il regno. L’orazione dopo la comunione e l’orazione sul popolo fanno intravedere 1'unità del mistero pasquale di morte e risurrezione.

* La celebrazione della Veglia Pasquale
Il Sabato Santo, come giorno del riposo nel sepolcro e del digiuno di lutto, fin dai tempi antichi non ebbe alcuna liturgia propria. Col cadere dell'oscurità si iniziava la «madre delle veglie» (s. Agostino), la santa veglia notturna a celebrazione della morte e risurrezione del Signore. «Nella grande antitesi tra notte e luce del mattino, digiuno e banchetto eucaristico, lutto e gioia festiva si viveva in modo irresistibile il contrasto tra morte e vita, caduta e risurrezione, Satana e Kyrios, antico e nuovo eone». Molti oggi non possono capire come, a partire dal sec. XIV, si poté giungere a quel processo involutivo, per cui questa liturgia della veglia pasquale poté essere spostata alla prima mattina del Sabato Santo.
La rinnovata liturgia della Veglia Pasquale si compone di lucernario, liturgia della Parola, liturgia battesimale e liturgia eucaristica.
Il Lucernario si inizia con la benedizione del fuoco, la preparazione e accensione del cero quale luce di Cristo, e la processione con cui è introdotto nella chiesa buia, che è quindi illuminata dai ceri dei fedeli accesi al cero pasquale. Segue il solenne annunzio pasquale, detto anche dalla parola iniziale latina Exultet.
La liturgia della Parola ha nove letture bibliche, di cui le due ultime dal NT (Rm 6, 3-11 e un vangelo della risurrezione da uno dei sinottici, secondo 1'anno del ciclo). Per motivi pastorali il numero delle letture veterotestamentarie può essere ridotto al massimo a due. A ciascuna segue un salmo responsoriale e una orazione. Dopo 1'ultima lettura dell'AT il sacerdote intona il Gloria (suono delle campane). Per la prima volta viene quindi cantato di nuovo l'Alleluia.
Liturgia battesimale: poiché la Veglia Pasquale fin dai tempi antichi era una data preferita per il battesimo, è desiderabile anche oggi che si celebri il battesimo.
Dopo la presentazione dei battezzandi e le litanie dei santi in forma abbreviata, si ha la benedizione dell'acqua con una preghiera epicletica (e l’immersione del cero, facoltativa). Dopo la rinunzia a Satana e la professione di fede è amministrato il battesimo; gli adulti e i ragazzi nell'età del catechismo vengono anche confermati dal vescovo se è presente, o dal sacerdote celebrante. Se non ci sono battezzandi né si deve benedire il fonte battesimale si fa la benedizione dell'acqua lustrale (acqua benedetta). Dalla restaurazione della veglia pasquale nel 1951 è prevista a questo punto la rinnovazione delle promesse battesimali, cui segue l’aspersione dell'assemblea con 1'acqua benedetta. Si ha quindi la preghiera universale.
Essa fa da ponte alla liturgia eucaristica nella quale l’azione salvifica pasquale è espressa particolarmente, prescindendo dalle orazioni presidenziali, nel prefazio, nelle inserzioni delle Preghiere eucaristiche I-IV (ricordo e/o intercessioni particolari per i neobattezzati), nella benedizione solenne tripartita e nel doppio Alleluia del congedo.
Le successive ore diurne della Domenica di Pasqua non avevano originariamente alcuna celebrazione eucaristica. Questa sorse solo quando verso la fine del sec. VI la messa della risurrezione finiva già prima della mezzanotte. Del resto la pietà popolare in certi paesi si era creata negli ultimi secoli un surrogato della Veglia Pasquale perduta, nella tradizionale Celebrazione della risurrezione nel primo mattino della Domenica di Pasqua, prima che iniziasse la prima messa.
Dubbio sembra anche il tentativo, considerando i frequentatori della messa solenne del giorno di Pasqua, che non hanno partecipato alla celebrazione notturna, di riprendere in tale messa alcuni elementi della veglia. Non tutto ciò che piace a prima vista è la conclusione più sapiente (liturgicamente). I vespri di Pasqua formano la significativa conclusione del Triduo Pasquale.

IV.12.b) Il Tempo Pasquale (pentekoste)
Come le grandi feste abbiano bisogno di un certo tempo di risonanza si può vedere già nel calendario liturgico ebraico, in cui 50 giorni (= sette settimane) dopo la festa di Pesach veniva celebrata la Festa delle settimane (= Shavuot) come festa della mietitura del grano e memoriale dell'Alleanza al Sinai.
Corrispondentemente già il II secolo conosce il tempo pasquale dei 50 giorni (in greco Pentekoste), che secondo At 2, 1s. si compie con 1'effusione dello Spirito Santo promesso, il vero frutto del mistero pasquale. Le NG rimangono sul terreno della più antica tradizione quando affermano: «I cinquanta giorni che si succedono dalla domenica di Risurrezione alla domenica di Pentecoste si celebrano nell'esultanza e nella gioia come un solo giorno di festa, anzi come "la grande domenica"» (22). Espressione simbolica di questa ininterrotta gioia festiva è la prescrizione di lasciare il cero pasquale come simbolo del Signore risorto, durante i 50 giorni, davanti all'assemblea, in prossimità dell'altare, e di accenderlo durante le celebrazioni.
La prima settimana del tempo pasquale forma 1’ottava di pasqua. La liturgia di questa ottava è caratterizzata non solo dal mistero pasquale, ma anche dall'attenzione per i neobattezzati, i quali nelle celebrazioni eucaristiche quotidiane venivano introdotti più profondamente nei misteri dei sacramenti dell’iniziazione da essi ricevuti (catechesi mistagogiche). Questa settimana si chiamava un tempo, a motivo delle vesti bianche dei neobattezzati, anche settimana in albis, e la domenica seguente domenica in albis. L'uso di celebrare la prima comunione in tale domenica risale al sec. XVIII.
Nel sec. VII sorse la Pascha annotinum come una commemorazione annuale del battesimo ricevuto. Poiché il vero anniversario, a motivo della data pasquale oscillante, non di rado cadeva prima della festa di Pasqua, si delineò infine come giorno commemorativo il lunedì dopo la domenica in albis.
Per sottolineare più fortemente l’unità del tempo pasquale le rispettive domeniche vengono chiamate ora domeniche di Pasqua, e la domenica in albis forma la seconda, mentre pentecoste forma 1'ottava domenica. I loro testi liturgici sono intensamente caratterizzati dal mistero pasquale. La tradizionale domenica del Buon Pastore è stata spostata dalla terza alla quarta domenica di Pasqua per non interrompere i vangeli delle apparizioni del Risorto.
Nel sec. IV sorse, il quarantesimo giorno dopo pasqua, la festa dell’Ascensione, soprattutto ispirata ad At 1, 3. «I giorni dopo 1'ascensione, fino al sabato prima di pentecoste, preparano la venuta dello Spirito Santo» (NG 26). In questo modo la novena di pentecoste formatasi nel clima della pietà popolare è accolta anche nella liturgia ufficiale.
Il cinquantesimo giorno dopo pasqua = Pentecoste (dal greco pentekoste = cinquantesimo, sottinteso giorno), è la conclusione del tempo pasquale. Sempre più, tuttavia, si vide in essa la festa autonoma dell'invio dello Spirito Santo, le si diede una propria ottava e in certe parti della Chiesa un secondo e un terzo giorno festivo, e si parlò di un proprio ciclo di pentecoste. La riforma liturgica postconciliare si preoccupò di collegare di nuovo più saldamente questo giorno a Pasqua. Cade così anche l’ottava di Pentecoste e nei testi liturgici si fa di nuovo fortemente riferimento a Pasqua (colletta e prefazio). La sequenza Veni, Sancte Spiritus è stata mantenuta obbligatoria per Pentecoste.
Una particolarità che colpisce nel quadro del Tempo Pasquale contrassegnato dalla gioia è quella delle Litanie (maggiori e minori) con le loro processioni penitenziali. Si tratta di riti più antichi (Litania maior) il 25 aprile, e più recenti (Litaniae minores) nei tre giorni prima dell'Ascensione. La prima è di pura origine romana e doveva sostituire una processione agricola pagana (ambarvale) a onore del dio Robigus o della dea Robigo. Non c'è nessun rapporto con la festa di s. Marco. Il nuovo ordinamento ha soppresso questa processione penitenziale perché basata su un uso locale romano.
Le Litaniae minores devono la loro origine al vescovo Mamerto di Vienne, il quale nel 469, dopo un periodo di grandi tribolazioni per il paese, ordinò nei tre giorni prima dell'Ascensione processioni penitenziali e digiuni. Roma accolse queste processioni penitenziali (senza i digiuni) solo sotto Leone III (†816). Le NG le hanno mantenute e ne hanno spiegato il senso, in collegamento con le quattro Tempora, nel modo seguente: «Con le Rogazioni e le Quattro Tempora, la Chiesa vuole pregare il Signore per le necessità degli uomini, soprattutto per i frutti della terra e per il lavoro dell'uomo, e ringraziarlo pubblicamente» (45). Il loro assetto più preciso è lasciato alla determinazione delle Conferenze episcopali. I vescovi italiani hanno stabilito che «la prassi delle "rogazioni", espresse sia nella forma litanica che accompagna anche le processioni da un luogo all'altro, sia nella forma di supplica nelle liturgie eucaristiche per varie necessità o in altre celebrazioni... può essere opportunamente rivalorizzata... in momenti particolari dell'anno liturgico: a) nella settimana di preghiera per 1'unione dei cristiani... b) in uno o più giorni prima dell'Ascensione... c) in occasione delle esposizioni solenni annuali dell'Eucaristia... d) in occasione della giornata nazionale del ringraziamento... e) in occasione dei pellegrinaggi ai santuari... In tutte queste circostanze nella celebrazione della messa si può usare un formulario adatto scelto tra quelli indicati nelle messe per varie necessità o votive...» .

IV.12.c) La Quaresima
Quanto allo sviluppo storico, occorre innanzitutto riferirsi al digiuno di lutto di due giorni, il Venerdì e il Sabato Santo, che nel sec. III venne esteso all'intera Settimana Santa (anche se non come digiuno pieno). Il concilio di Nicea del 325 conosce già prima del Triduo Pasquale un digiuno di 40 giorni, che a Roma iniziava la sesta domenica prima di Pasqua = prima domenica di digiuno. Poiché però non si digiunava la domenica e tuttavia si volevano avere 40 veri giorni di digiuno, si anticipò 1'inizio di quattro giorni e si contarono inoltre anche il Venerdì e il Sabato Santo. Nel sec. VI per vari motivi si attribuì alle tre domeniche precedenti una particolare importanza e si diede loro il nome (con un calcolo approssimativo) di Quinquagesima (= il 50°), di Sessagesima (= il 60°) e di Settuagesima (= il 70°); le due settimane e mezza prima del Mercoledì delle Ceneri formarono così una sorta di prequaresima. Non venne richiesto il digiuno, ma il colore viola delle vesti liturgiche, e 1'omissione del Gloria, dell’Alleluia e del Te Deum conferì a questo tempo un carattere penitenziale.
Il digiuno della chiesa antica consisteva nel limitarsi a un pasto (la sera) e nell'astenersi dalla carne e dal vino, più tardi anche dai latticini (latte, burro, formaggio) e dalle uova. La caratterizzazione liturgico-ascetica di queste settimane era determinata essenzialmente dalle istituzioni del catecumenato (preparazione al battesimo) e della penitenza pubblica. Nel Medioevo il motivo della passione (mistica della passione) raggiunse, in rapporto alla Quaresima nel suo insieme un'importanza maggiore.
Il nuovo ordinamento, secondo le direttive del Vaticano II (SC 109s.), venne determinato attraverso le NG 27-31. Il tempo preparatorio alla Quaresima venne lasciato cadere; i grandi temi della Quaresima relativi al contenuto (battesimo, conversione, penitenza) e all'orientamento al mistero pasquale vennero più fortemente accentuati.
L’ingresso nella Quaresima è sempre formato dal Mercoledì delle Ceneri. Il rito dell'imposizione delle ceneri fu destinato originariamente solo ai pubblici peccatori, ma dopo 1'abolizione della penitenza pubblica (sec. X) venne mantenuto per tutti i fedeli. La prescrizione secondo la quale per ottenere le ceneri si devono bruciare rami di palma dell'anno precedente, risale al sec. XII. La benedizione delle ceneri si compie dopo il vangelo. L'imposizione che segue è accompagnata dalle parole di Gn 3, 19 o Mc 1, 15b. Il rito delle ceneri può essere compiuto anche fuori della messa come liturgia della Parola.
Le sei domeniche di Quaresima ricevono ognuna una propria caratterizzazione soprattutto attraverso il vangelo della messa. Una caratteristica della quarta domenica di Quaresima (Laetare) consiste nelle vesti liturgiche di colore rosaceo (dal sec. XVI), che non devono essere collegate solo al suo carattere gioioso, ma anche all'uso papale di benedire in essa una rosa d'oro. Ciò si rifà probabilmente a una festa primaverile romana, nella quale si andava alla liturgia portando dei fiori (sec. X).
La quinta domenica di Quaresima a partire dall'alto Medioevo fu chiamata anche Domenica di passione e fu caratterizzata dall'uso di velare la croce e le immagini, dal prefazio della santa croce e dalla parziale omissione del Gloria Patri. Il nuovo ordinamento ha rinunciato alla denominazione di Domenica di passione «per conservare 1'unità interna della Quaresima».
Il tema della passione trova una forte espressione nella denominazione della sesta domenica di Quaresima, che ora si chiama Domenica delle Palme e della passione del Signore. In essa la commemorazione dell'ingresso di Cristo in Gerusalemme si collega con quella della sua passione.
Di una processione delle palme a Gerusalemme verso il 400 ci informa già la pellegrina Egeria. In Occidente essa appare per la prima volta verso la fine del sec. VIII e assume presto elementi ludico-drammatici e folcloristici. Il nuovo Messale prevede svariate forme per la «Commemorazione dell'ingresso del Signore in Gerusalemme». La Messa è caratterizzata particolarmente dalla lettura della passione del Signore secondo i sinottici a seconda dell’anno del ciclo.
Anche i successivi giorni della Settimana Santa sono completamente contrassegnati dal tema della passione; in essi però si è potuto rinunciare alla lettura della passione secondo Marco (lunedì) e Luca (mercoledì), perché tali brani sono previsti nel ciclo triennale di lettura per la Domenica delle Palme.
Quanto ai rimanenti giorni feriali della Quaresima ognuno di essi ha un proprio formulario per la messa. Le loro pericope bibliche sono uguali ogni anno e prima lettura e vangelo formano una unità tematica. Con l’inizio della quarta settimana di Quaresima il vangelo della Messa è costituito dalla lettura semicontinua di Giovanni.
Mentre la sera del Giovedì Santo appartiene già al Triduo Pasquale, al mattino è prevista la missa chrismatis del vescovo con la benedizione degli oli occorrenti per 1'amministrazione del battesimo, della confermazione, del sacerdozio e per la consacrazione delle nuove chiese. Per motivi pratici questa messa può essere celebrata anche in uno dei precedenti giorni della Settimana Santa, e precisamente come concelebrazione del vescovo col suo presbiterio, possibilmente nella chiesa cattedrale. Secondo la tradizione latina la benedizione degli oli ha luogo in modo tale che l’olio degli infermi è benedetto prima della dossologia conclusiva della Preghiera eucaristica, l’olio dei catecumeni e il crisma, però, solo dopo l’orazione dopo la comunione. Per motivi pastorali tuttavia l’intero rito della benedizione può essere compiuto anche al termine della Liturgia della Parola.
Con la missa chrismatis può essere unita anche la rinnovazione delle promesse sacerdotali.

IV.13. Natale e il suo ciclo

IV.13.a) Origine e liturgia della festa di Natale
Dalle liste dei giorni della morte dei vescovi romani (Depositio episcoporum) e dei martiri romani (Depositio martyrum) nel calendario di F.D. Filacalo nell'anno 354, risulta che il Natale era già celebrato a Roma il 25 dicembre dell’anno 336. L'introduzione di questa festa di Cristo della città di Roma viene spiegata dalla ipotesi apologetica e storico-religiosa come la reazione della comunità romana alla festa pagana di stato del Natale Solis invicti (= festa della nascita del dio Sole invitto), che 1'imperatore Aureliano introdusse nell’anno 274 a onore del dio Sole di Emesa in Siria, e con la quale egli sperava anche di consolidare il suo immenso impero. Per rendere immuni i cristiani romani da questa festa popolare la chiesa di Roma avrebbe introdotto una festa della nascita di Cristo quale «sole della giustizia» (Mal 3, 20) e «luce del mondo» (Gv 8,12). La cosiddetta ipotesi del computo parte dal fatto che già nel sec. III dei teologi cristiani cercarono di calcolare la data di nascita di Cristo, non ricordata nei vangeli. Dato il diffuso simbolismo di Cristo-sole essi rivolsero una particolare attenzione agli equinozi e ai solstizi e pensarono che Giovanni Battista fosse nato nel solstizio di estate. Ma allora Cristo, secondo Lc 1, 26, doveva essere nato nel solstizio di inverno. In un ponderato confronto degli argomenti delle due parti si è indotti a supporre che i tentativi di calcolo - anche se a noi oggi appaiono aprioristici e quindi sbagliati - hanno prodotto una disposizione e posto una certa premessa, ma che la festa del sole di Aureliano ha dato l’impulso decisivo.
Il fatto che la nuova festa nella Chiesa di allora, poco centralizzata, si sia diffusa con così sorprendente rapidità in Occidente e in molte chiese particolari dell'Oriente ancora nel sec. IV si spiega probabilmente considerando anche che la lotta contro 1'eresia ariana aveva messo più fortemente in risalto la persona - e non solo 1'opera - dell'Uomo-Dio, e una festa della nascita di Cristo poteva dare anche una adeguata espressione liturgica alla professione di fede di Nicea, che aveva condannato tale eresia (325).
L’antico uso romano per cui il sacerdote a Natale può celebrare tre messe è stato mantenuto anche dal nuovo MR. Questa pratica risale a una particolarità della liturgia papale, che si era formata prima della metà del sec. VI e che con la diffusione dei libri liturgici romani fu imitata anche altrove. Queste tre messe vengono chiamate: messa della notte, messa dell'aurora e messa del giorno.
Alla liturgia della festa di Natale appartiene anche la messa vespertina nella vigilia, prima o dopo i primi vespri. Queste messe della vigilia delle feste secondo il nuovo ordinamento non sono più delle vigilie = veglie notturne, con carattere di penitenza e di preparazione. «Se si eccettua la veglia pasquale, che deve essere celebrata nel corso della santissima notte, col nome di "messa della vigilia" si indica d'ora in poi la messa che può essere celebrata nelle ore serali, con rito festivo, sia prima sia dopo i primi vespri di alcune solennità» .
Perciò anche la nuova messa vespertina nella vigilia di Natale contiene solo pochi testi della precedente messa della vigilia, che veniva celebrata il mattino del 24 dicembre con vesti liturgiche viola.
Da numerosi testi delle messe di natale è evidente che anche Natale viene celebrato come una festa della nostra redenzione, anche se qui è in primo piano 1'incarnazione (come concezione e nascita). In effetti ripetutamente si fa riferimento anche al mistero pasquale. Considerando questa comunanza di contenuti con la festa di Pasqua si è avanzata la proposta di «distinguere meglio una "celebrazione pasquale della redenzione" e una "celebrazione natalizia della redenzione"».
Poiché la vita della vergine Maria è unita inseparabilmente col mistero dell'incarnazione di Cristo, il suo nome è ricordato espressamente anche nelle inserzioni delle Preghiere eucaristiche I-III. Soprattutto però la sua memoria è particolarmente celebrata nel giorno dell'ottava di natale.

IV.13.b) Il Tempo di Natale
Oltre a Pasqua, Natale è l’unica festa che ha conservato la sua ottava. Lo stesso giorno dell'ottava coincide con l'inizio dell'anno civile, che Gaio Giulio Cesare nell'anno 45 a.C. per la prima volta aveva spostato dal 1° marzo al 1° gennaio. Poiché i pagani celebravano tale capodanno a onore del dio Giano bifronte, con grande sfrenatezza e con usi superstiziosi, la Chiesa in molti luoghi cercò di rendere immuni i fedeli da ciò con liturgie penitenziali. A Roma vi si sostituì temporaneamente la memoria (natale) della Madre di Dio, in Spagna e nella Gallia si introdusse la festa della Circoncisione sulla base di Lc 2, 21. Solo nel sec. XIII-XIV troviamo questa festa anche a Roma, dove essa fu celebrata come Circoncisione del Signore e ottava di Natale con carattere mariano-natalizio fino alla riforma liturgica del 1960 (Codex rubricarum). Le NG ritornarono all'originario uso romano (solennità della Madre di Dio), unendovi la memoria dell'imposizione del nome di Gesù.
Con buoni motivi ci si è rammaricati che l’inizio del nuovo anno celebrato solennemente presso quasi tutti i popoli abbia così poca considerazione nella liturgia. In effetti nel nuovo Messale tra le messe in diverse circostanze della vita sociale c'è al primo posto una messa All'inizio dell'anno civile, ma la rubrica che la precede sorprendentemente avverte: «Questa messa si può celebrare nei primi giorni dell'anno, escluso il primo gennaio, solennità di Maria, Madre di Dio». Chiaramente viene qui applicata la norma generale, per cui nelle solennità non possono essere celebrate messe votive. Una nuova normativa sembrerebbe opportuna e urgente.
Già i più antichi calendari liturgici hanno una serie di feste di santi immediatamente dopo Natale. Il Medioevo vide in questi santi il seguito d'onore di Gesù bambino e li chiamò comites Christi (seguito di Cristo). Nella liturgia romana si tratta del protomartire (= primo martire) Stefano, il 26, dell'apostolo ed evangelista Giovanni, il 27, e degli Innocenti di Betlemme uccisi da Erode, il 28 dicembre. Il 29 ricorre la memoria facoltativa del vescovo e martire Tommaso Becket di Canterbury, e il 31 quella del papa Silvestro I.
La domenica nell'ottava si celebra la festa della Sacra Famiglia. Tuttavia se Natale e la sua ottava cadono in una domenica, allora essa è celebrata il 30 dicembre. Si tratta di una recente festa di devozione, che si è diffusa nel sec. XIX soprattutto dal Canada e che venne caldamente patrocinata da Leone XIII (dal 1920, nella prima domenica dopo 1'epifania).

IV.13.c) Solennità dell’Epifania del Signore
Una festa rilevante nel Tempo di Natale è la solennità dell'Epifania del Signore, il 6 gennaio (il nome deriva dal greco epiphanias = manifestazione). Le sue prime tracce si trovano già all'inizio del sec. III ad Alessandria. Molte cose fanno pensare che la scelta della data sia stata influenzata da una festa pagana (giorno della nascita del dio Eone).
Si tratta dell'originaria festa della nascita di Gesù nella chiesa orientale, alla quale si unì ben presto la memoria del suo battesimo (per questo è anche importante data battesimale) e del primo miracolo di Gesù alle nozze di Cana . Nella seconda metà del sec. IV si ebbe, come già notato a proposito di Natale, l’accoglienza da entrambe le parti della festa della nascita, orientale e occidentale, e precisamente in modo tale che 1'Oriente celebrava il 25 dicembre la nascita di Gesù e la venuta dei Magi, mentre dedicava il 6 gennaio alla memoria del battesimo di Gesù e delle nozze di Cana, e in tal giorno celebrava il battesimo, 1'Occidente invece il 6 gennaio celebrava la venuta dei Magi, il battesimo di Gesù e il suo primo miracolo quali segni chiari della sua manifestazione.
Nella gerarchia delle feste l’Epifania, nella chiesa occidentale, era la seconda festa dell'anno liturgico (doppio di prima classe con ottava privilegiata di secondo ordine). Oggi essa è solennità senza ottava, e dove il 6 gennaio non è giorno festivo essa viene trasferita alla domenica tra il 2 e il 18 gennaio (NG 37).
Nella pietà popolare del Medioevo i tre santi re Magi presero un tale rilievo che l’Epifania fu chiamata festa dei re Magi e considerata quasi una festa di santi.
Dal 1960 la memoria del Battesimo di Gesù, da sempre componente importante della festa dell’Epifania, è stata elevata a festa indipendente (dapprima ottava dell'epifania). Si volle così mettere particolarmente in rilievo il suo significato storico-salvifico come rivelazione della filiazione divina di Gesù, la sua unzione con lo Spirito Santo per il compito messianico all'inizio della sua attività pubblica, e la santificazione dell'acqua come segno del perdono dei peccati nel battesimo. Le NG hanno collocato tale festa nell'ottava dell’Epifania. Se l’Epifania, nella prospettiva della norma citata, viene spostata alla domenica 7 o 8 gennaio, allora la festa del Battesimo del Signore viene celebrata il lunedì seguente.
Con questa festa termina il Tempo di Natale. La settimana seguente conta già come la prima delle 33 o 34 domeniche del tempo ordinario.

IV.13.d) L’Avvento come tempo di preparazione natalizio
Anche alla festa di Natale è premesso un tempo di preparazione, che dalla parola latina adventus = venuta (del Signore Gesù Cristo) chiamiamo Avvento. Le sue prime tracce si ritrovano in Gallia e in Spagna, dove l’Epifania, a motivo dello stretto collegamento con Bisanzio, fu la più antica festa della nascita di Cristo e per un certo tempo anche una importante data battesimale. Come la veglia pasquale anche questa data battesimale fu provvista di un tempo di preparazione di quaranta giorni. Poiché secondo 1'uso orientale il sabato non era giorno di digiuno esso comprese otto settimane e cominciò il giorno dopo 1'11 novembre (Quadragesima sancti Martini).
Il sacramentario della città di Roma, di Gregorio I (Gregoriano – IX sec.) conosce quattro messe domenicali e tre messe delle Tempora con caratteristiche di Avvento. Al centro di esse si trova non il ritorno di Cristo alla fine dei tempi, ma la sua venuta nella carne.
Le cose erano diverse in Gallia, dove sotto l’influsso dei missionari irlandesi in primo piano c'’era l’attesa escatologica, e 1'Avvento divenne tempo penitenziale (vesti liturgiche viola, omissione del Gloria, dell'Alleluia e del Te Deum). Alcuni di questi elementi nel sec. XII penetrarono nella liturgia romana. Roma tuttavia attraverso la conservazione dell'Alleluia festivo ha dato a capire di non vedere nell'Avvento alcun vero tempo penitenziale. La soluzione romana di quattro domeniche di Avvento si impose solo lentamente. Il rito ambrosiano (in Lombardia) ha oggi ancora sei domeniche di Avvento.
Le NG vedono il senso dell’Avvento sia come preparazione al natale sia come attesa della venuta del Signore alla fine dei tempi.
«Per questi due motivi il tempo di Avvento si presenta come tempo di devota e gioconda attesa» (39). Con più precisione vengono distinte due fasi dell'Avvento: il tempo dal 17 al 24 dicembre è ordinato in modo particolare alla celebrazione della festa di Natale, la parte che precede invece, più al ritorno escatologico (cf. I. domenica di Avvento). In entrambe le parti però si affermano tutt'e due gli aspetti. Non si parla affatto di un tempo penitenziale. Già nel CIC del 1917 non si richiedeva più di un digiuno di Avvento.
La liturgia della messa delle quattro domeniche è determinata essenzialmente dal loro vangelo: a tale tematica sono riferiti in minore o maggiore misura gli altri testi. Sono preferite le letture di Isaia e i brani relativi a Giovanni Battista. Entrambi sono i veri «predicatori dell'Avvento». Si è avuto un arricchimento della liturgia dell'Avvento con 1'approntamento di quattro prefazi di Avvento (MR della CEI; il MR del 1970 ne ha solo due; mentre il Messale di Pio V non ne aveva alcuno).
Una particolarità è presentata dalla terza domenica di Avvento (Gaudete), la quale con il suo carattere gioioso e le vesti liturgiche di colore rosaceo rappresenta una specie di parallelo con la quarta domenica di Quaresima.
La liturgia della messa dei giorni feriali di Avvento è stata pure arricchita. Mentre essi prima della riforma non avevano alcun formulario proprio per la messa, ora ogni giorno della seconda fase dell’Avvento ha il suo Proprio. Per i giorni feriali che precedono c'è una serie settimanale che si ripete, così che ad es. ogni lunedì ha lo stesso Proprio eccettuata la Colletta e le letture bibliche, che presentano ogni giorno testi particolari. I giorni feriali tra il 17 e il 23 dicembre hanno ricevuto un particolare arricchimento in quanto le famose antifone della liturgia delle ore (Magnificat) sono state inserite nei rispettivi formulari come versetti del canto al vangelo. Esse uniscono ogni volta un appello elogiativo all'atteso Messia ad una invocazione della sua venuta soccorritrice.
Le usanze dell'Avvento riguardano in parte l’attesa del natale, in parte si rifanno a tradizioni precristiane per il solstizio d'inverno.

IV.13.e) Due feste natalizie fuori del ciclo
In connessione tematica con il mistero dell'incarnazione sono due feste, che finora erano trattate per lo più come feste mariane, ma che per i misteri celebrati sono da considerare più come feste di Cristo, e che perciò nel nuovo ordinamento hanno conosciuto un cambiamento di nome.

1. La festa della Presentazione del Signore (2 febbraio), 40 giorni dopo il Natale, si fonda sui fatti riferiti in Lc 2, 22-39 e nei quali in realtà protagonista è più Gesù che sua madre. In Oriente questa festa, della quale parla già la pellegrina Egeria, ha ricevuto il nome festa dell'incontro (greco: hypapanté): incontro di Gesù con il tempio, con Simeone e Anna. A Roma a questa festa, della quale si hanno testimonianze già dal sec. V, si unì presto una processione con candele attraverso la città, che doveva sostituire un'antica processione espiatoria, che veniva tenuta ogni cinque anni all'inizio di febbraio come processione cittadina ( = Amburbale). Il suo carattere penitenziale era ricordato dal colore viola delle vesti liturgiche, prescritto fino al 1960. Le candele portate in processione ricordano la parola di Simeone su Cristo come «luce per illuminare le genti». La loro benedizione sorse in Gallia già prima del passaggio al secondo millennio. Il nome ufficiale, fino al 1969, di Purificazione di Maria (Purifcatio BMV) deve essere considerato come inadeguato. La festa popolarmente viene chiamata con il nome Candelora.

2. La Solennità dell’Annunciazione del Signore (25 marzo), nove mesi prima della festa della nascita di Cristo, ha per oggetto 1'incarnazione del Figlio di Dio nel grembo di Maria. In Oriente essa è testimoniata la prima volta al sec. VI, in Occidente, al sec. VII, se si eccettuano certi indizi precedenti. Poiché il 25 marzo cade per lo più in Quaresima, la festa non poté avere grande affermazione. Se essa viene a cadere nella Settimana Santa o - in casi rari – nella Settimana di Pasqua, viene trasferita al lunedì dopo l’ottava di Pasqua. Le NG hanno preferito la denominazione, già conosciuta anche precedentemente, di Annunciazione del Signore; però anche il nome di Annunciazione di Maria è pienamente significativo con riferimento a Lc 1, 26-38. Qualunque sia il significato dell'oggetto della festa non si dovrebbe dimenticare che 1'incarnazione fu da sempre già oggetto della festa di Natale.

IV.14. Il Tempo Ordinario

IV.14.a) La nuova divisione
Il tempo tra i due grandi cicli festivi viene chiamato tempo ordinario o tempo per annum. Esso, insieme con i cicli festivi, forma il Temporale o Proprio del tempo. Si tratta di 33 o 34 settimane, che si articolano in due sezioni con numerazione continua: dal lunedì dopo la festa del Battesimo del Signore al Mercoledì delle Ceneri, e dal lunedì dopo Pentecoste all'Avvento. In questo computo le domeniche del Battesimo del Signore e di Pentecoste valgono (del tutto fittiziamente) come domeniche del tempo ordinario. Se un anno ha solo 33 domeniche ordinarie, si salta quella settimana che seguirebbe immediatamente Pentecoste. Viene così garantito che i testi liturgici (nella messa e nella liturgia delle ore) delle settimane 33 e 34, con il loro carattere escatologico, non debbano mai venire a cadere.
Prima del nuovo ordinamento si distingueva un tempo dopo 1'epifania fino alla Settuagesima, per il quale nel Messale e nel Breviario erano previste sei settimane, e un tempo dopo Pentecoste con 24 formulari domenicali. Poiché con una Pasqua bassa non si potevano celebrare tutte le domeniche dopo l’Epifania (al limite, soltanto due) e dopo Pentecoste potevano esserci fino a 28 settimane, si era adottata la seguente norma: le domeniche tralasciate dopo l’Epifania venivano inserite tra la 23a e la 24a domenica dopo Pentecoste (= domeniche avanzate), il che non era certo una soluzione ideale.
La numerazione delle domeniche dopo Pentecoste emerge solo nei libri liturgici franchi del sec. VIII. Prima si usava numerare tali domeniche secondo la loro posizione riguardo a certe feste dopo Pentecoste. Dopo 1'introduzione della domenica della Trinità (1334) si conobbe anche la numerazione delle domeniche dopo la Trinità: questa designazione più tardi venne accolta ed è rimasta in uso fino a oggi nelle chiese della Riforma.

IV.14.b) Solennità mobili del tempo ordinario
Nel secondo millennio dell'era cristiana si sono formate nell'ambito del tempo ordinario quattro solennità, dipendenti dalla data della Pasqua e quindi mobili. Sono le solennità della Trinità, del Corpo e del Sangue di Cristo, del Sacratissimo Cuore di Gesù e di Cristo Re. Tutte hanno in comune di essere il prodotto dell'atteggiamento devozionale di un'epoca, e sono da considerare come feste di devozione.

* La solennità della SS.ma Trinità
Nel clima della difesa dall'arianesimo si sviluppò, specialmente in Spagna e in Gallia, una particolare accentuazione della fede nella Trinità nella predicazione e nella pietà, per la quale si hanno molte testimonianze nel sec. VI-VII. Verso la metà del sec. VIII appare nel sacramentario Gelasiano antico 1'attuale prefazio della Trinità, una formulazione breve della teologia classica della Trinità. Verso 1'800 si incontra per la prima volta una messa votiva della Trinità per le domeniche, alle quali si cerca ora di dare una più forte impronta trinitaria. Una festa della Trinità la domenica dopo Pentecoste fu forse celebrata già prima del 1000 nei monasteri benedettini franco-gallicani. Roma si oppose durevolmente alla nuova festa, ma infine il papa Giovanni XXII nel 1334 durante 1'esilio di Avignone la introdusse per tutta la Chiesa. Per la sua collocazione alla domenica dopo Pentecoste essa può essere interpretata come uno sguardo retrospettivo riconoscente sul mistero della salvezza compiuto, mistero che, secondo la teologia dei Padri, il Padre opera attraverso il Figlio nello Spirito Santo.

* La solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo
Essa viene celebrata il giovedì (o la domenica) dopo la festa della Trinità. La sua origine deve essere rapportata con il culto del sacramento dell'altare, che si sviluppa potentemente nel sec. XII. Tale culto riguardava, più che una celebrazione appropriata dell’Eucaristia, la presenza reale e permanente di Cristo nel pane consacrato. A esso si unì un grande desiderio di vedere 1'ostia, che portò tra 1'altro all'elevazione dell'ostia consacrata dopo la consacrazione, testimoniata la prima volta per Parigi verso il 1200. Una visione della monaca agostiniana beata Giuliana di Liegi, che si ripeté più volte a partire dal 1209, divenne in questa situazione 1'impulso efficace per 1'introduzione di una particolare festa in onore del SS. Sacramento. Il vescovo Roberto di Liegi la introdusse la prima volta nella sua diocesi nel 1246; nel 1264 il papa Urbano IV la prescrisse per tutta la Chiesa. S. Tommaso di Aquino, su desiderio dello stesso papa, compose probabilmente i testi per la messa e per il Breviario, anche se a dire il vero oggi la sua esclusiva paternità dei magnifici inni dell'ufficio del Breviario viene messa in dubbio. La morte del papa, seguita nello stesso anno, ritardò la diffusione della festa, la quale entrò in vigore per tutta la Chiesa solo sotto Giovanni XXII con la pubblicazione della bolla di indizione di Urbano IV nelle Decretali clementine. La nuova denominazione della festa, che menziona espressamente anche il sangue di Cristo, ha reso superflua la festa del Preziosissimo Sangue, che era stata introdotta da Pio IX nel 1849 in ringraziamento per il suo ritorno dall'esilio (ultimamente era celebrata il primo luglio): si tratta infatti di un doppione evidente.
Una processione del Corpus Domini è testimoniata la prima volta a Colonia tra il 1274 e il 1279. Ancora nel sec. XIV essa trova nella maggior parte dei paesi una accoglienza entusiasta e una messa in opera fastosa. In essa 1'ostia consacrata viene portata in un ostensorio. In certi paesi le vengono uniti elementi delle processioni delle rogazioni. Si compiono delle tappe a quattro altari all'aperto e in esse vengono cantati gli inizi dei quattro vangeli in direzione dei quattro punti cardinali, vengono fatte delle preghiere di intercessione e viene impartita la benedizione sacramentale. Specie nell'epoca barocca questa processione si sviluppa in un giorno di splendore trionfalistico e sfarzoso. La Congregazione dei Riti dichiarò nel 1959 che la processione del Corpus Domini non deve essere considerata come atto ufficiale della liturgia romana, ma che come pio esercizio cadeva sotto la competenza dei vescovi.
Un disagio diffuso nei confronti della forma tradizionale della processione del Corpus Domini portò nei decenni dopo il concilio a tentativi di messa in opera diversa ad es. come solenne celebrazione dell'eucaristia in pubbliche piazze, alla quale le singole parrocchie di una città si portavano processionalmente (cf. le liturgie stazionali dell’antica Roma) «per sentirsi, nel "sacramento dell'unità", grande comunità con Cristo e 1'uno con 1'altro». Più recentemente si moltiplicano però le voci a favore di un mantenimento o di un ripristino della processione teoforica.

* La solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù
In questa solennità fissata per sé al 3° venerdì dopo Pentecoste, il giorno più vicino all'ottava del Corpus Domini, troviamo una tipica festa di devozione, la quale onora 1'Uomo-Dio dal punto di vista del suo amore simbolizzato nel cuore. Spunti di un tale culto si trovano già presso i Padri, che si richiamano specialmente a luoghi del vangelo di Giovanni (ad es. 7, 37; 19, 34). Ad essi si riallacciarono teologi del Medioevo, sporadicamente già nel sec. XII, ma soprattutto nel sec. XIII. Specialmente la mistica dei secc. XIII e XIV ha dato un forte impulso a questo culto, attraverso personalità come Metilde di Magdeburgo, Geltrude di Hefta, Enrico Susone. Più tardi la Devotio moderna e nel sec. XVI l’ordine dei Gesuiti si sono particolarmente presi a cuore questa devozione. Nel sec. XVII con gli oratoriani francesi di P. Bérulle (†1629) e s. Giovanni Eudes (†1680) si giunse a un altro momento culminante. S. Giovanni Eudes fu anche colui che con il permesso del suo vescovo celebrò per primo una festa a onore del Cuore di Gesù nelle chiese della sua comunità (20 ottobre 1672). Tra il 1673 e il 1675 Margherita Maria Alacoque, dell'ordine della Visitazione, ebbe a Paray-le-Monial molte visioni, nelle quali Cristo la incaricò di adoperarsi per l’introduzione di una festa del Cuore di Gesù il venerdì dopo l’ottava del Corpus Domini, e per la diffusione dei primi venerdì del mese e dell'ora santa. Roma si oppose per quasi 100 anni; solo Clemente XIII nel 1765 permise ai vescovi polacchi e all'arciconfraternita romana del Sacro Cuore di Gesù di celebrare tale festa. Pio IX nel 1856 la introdusse come obbligatoria per tutta la Chiesa. Leone XIII nel 1899 ne alzò il grado e all'avvicinarsi dell'inizio del nuovo secolo ordinò la consacrazione del mondo al Sacratissimo Cuore di Gesù. Un rifacimento della liturgia della festa si ebbe nel 1928 sotto Pio XI, unita a un altro innalzamento di grado. Per la celebrazione del primo centenario dell'estensione della festa a tutta la chiesa, papa Pio XII nel 1956 pubblicò 1'enciclica dedicata al Sacro Cuore, Haurietis aquas.
Soprattutto il Giansenismo e i teologi dell'Illuminismo hanno contrastato fortemente il culto del Sacro Cuore. Anche nel nostro secolo si sono avute riserve espresse più o meno apertamente, delle quali anche Pio XII si é occupato diffusamente nell'enciclica citata. Molte esitazioni fondate su malintesi possono essere superate se si intende la parola cuore come una parola o un concetto primordiale nel senso di Karl Rahner: «poiché quando gli scritti, la dottrina e la prassi della chiesa parlano del Cuore di Gesù presuppongono quella accezione primordiale e universale di cuore che indica il nucleo intimo e originario della totalità psicofisica della persona. L'oggetto del culto al Sacro Cuore è quindi il Signore con riferimento al suo cuore visto in questa luce».
Altre forme del culto al Sacro Cuore si trovano nella pratica dei primi venerdì del mese e nella cosiddetta Ora santa la sera precedente gli stessi. Per i primi venerdì del mese Leone XIII approvò nel 1899 una speciale messa votiva. In molte parrocchie le due pratiche, con una catechesi e una messa in opera adeguata e opportuna, hanno da tempo dato prova del loro valore pastorale.

* La solennità di Cristo Re
Occasione per 1'introduzione di questa recente festa di idea da parte di Pio XI nell'anno 1925 fu la celebrazione del 1600° anniversario del primo concilio ecumenico di Nicea. Nella sua enciclica Quas primas dell’11 dicembre 1925 il papa sviluppò 1'idea che il mezzo più efficace di salvezza contro le forze devastatrici dell'epoca era il riconoscimento della regalità di Cristo. Come data della festa il papa scelse 1'ultima domenica di ottobre, in considerazione della successiva festa di Tutti i Santi. In essa doveva aver luogo anche l’annuale consacrazione al cuore del Redentore. Anche se la nuova festa dapprima incontrò un’accoglienza entusiasta, sorsero ben presto dei dubbi perché la festa di idea si esprime già in modo organico in altri giorni dell'anno liturgico come in Avvento, a Natale, all’Epifania, a Pasqua, all’Ascensione e anzi in ogni domenica in quanto giorno celebrativo del Kyrios Cristo. E’ certo un progresso che il nuovo ordinamento abbia spostato questa «solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo», come suona la denominazione completa della festa nel Messale della CEI, all’ultima domenica dell'anno liturgico, che per il suo carattere escatologico sottolinea l’idea che il Signore glorificato è il punto centrale dell'universo e della vita cristiana.

IV.14.c) Le altre feste del tempo ordinario

* Festa della Trasfigurazione del Signore (6 agosto)
Alla base di essa sono i racconti dei sinottici, che concordano per 1'essenziale (Mt 17, 1-8 e par.). Mentre una tale festa era conosciuta nelle chiese orientali già nel sec. V, essa fu introdotta per tutta la Chiesa occidentale solo nel 1457 da Callisto III, e precisamente a grata memoria della vittoria sui Turchi nell'anno 1456.

* Festa dell’Esaltazione della Santa Croce (14 settembre)
Essa ha origine a Gerusalemme. Ivi, il 13 settembre del 335 venne dedicata la doppia basilica della risurrezione e della crocifissione (Anastasis e Martyrium). Il giorno seguente il vescovo di Gerusalemme innalzò la grande reliquia della croce e la presentò alla venerazione del popolo (Exaltatio crucis = esaltazione della croce). Questa seconda festa superò ben presto come importanza la festa vera e propria della dedicazione, e trovò vasta diffusione. In Occidente si determinò attorno a questa festa una certa confusione. La liturgia gallicana infatti celebrò una festa della croce il 3 maggio (dal sec. VIII). Questo era il giorno nel quale 1'imperatore Eraclio nel 628 aveva riportato a Gerusalemme la reliquia della croce rapita dai Persiani. Anche questa festa fu accolta nel calendario liturgico romano; a Roma a motivo della reliquia della croce ivi conservata (basilica della S. Croce di Gerusalemme) già era celebrata solennemente il 14 settembre. Invertendo le connessioni storiche, si chiamò la festa del 3 maggio invenzione della croce (il ritrovamento da parte di Elena è testimoniato per il 14 settembre) e la festa del 14 settembre Esaltazione della croce, pensando però alla reliquia della croce riportata dall’imperatore Eraclio. Sotto Giovanni XXIII la festa del 3 maggio venne soppressa (1960). Le NG hanno confermato questa abolizione e hanno ridato alla festa della croce del 14 settembre il suo senso originario.

* Festa della Dedicazione della Chiesa
Impulsi per una solenne celebrazione anniversaria della dedicazione di una chiesa vennero sicuramente anche da 1Mac 4, 59 e dalla tradizione pagana, nella quale era comune la celebrazione del natale templi. Il più antico testimone della dedicazione di una chiesa cristiana è lo storico ecclesiastico e vescovo Eusebio di Cesarea, il quale nel 314 aveva dedicato 1a chiesa episcopale di Tiro celebrando l’Eucaristia e tenendo una omelia. Siamo informati per Gerusalemme verso l’anno 400 che anche 1'anniversario della dedicazione di una chiesa era celebrato solennemente. Queste feste della dedicazione di una chiesa avevano dapprima solo un'importanza locale. Eccezioni esistenti ancor oggi sono le feste della dedicazione delle basiliche romane del Laterano (9 novembre), di S. Pietro (18 novembre), di S. Paolo fuori le mura (ugualmente il 18 novembre) e di S. Maria Maggiore (5 agosto). Particolare importanza per ciascuna diocesi ha la festa della dedicazione della rispettiva cattedrale, la quale è celebrata in tutte le parrocchie come festa propria della diocesi e, nella cattedrale stessa, come solennità. Il giorno della dedicazione delle altre chiese, se conosciuto, è celebrato alla sua data come solennità. Se esso non è conosciuto, viene celebrato come solennità nella commemorazione annuale comune fissata per ogni diocesi.

* Le Quattro Tempora
Si intendono con questo nome il mercoledì, venerdì e sabato di quattro settimane nel corso dell'anno, che coincidono approssimativamente con 1'inizio delle quattro stagioni e che vennero designate a Roma, a partire dal sec. VIII, come Quattro Tempora = quattro tempi.
Si tratta di una specifica istituzione romana, che rimase sconosciuta in Oriente. La sua origine non è chiarita definitivamente. Recenti ricerche individuano le radici di questi giorni di digiuno in corrispondenti disposizioni veterotestamentarie sul digiuno; devono aver avuto qui un ruolo particolare Zc 8, 19 e Gl 2, 12-19: una supposizione confermata soprattutto dalle omelie sulle Tempora di Leone I. Diversità di data in Occidente furono eliminate da papa Gregorio VII nel sinodo romano del 1078. Da allora valse la norma che inizio delle Tempora è di volta in volta il mercoledì dopo la prima domenica di Quaresima, dopo pentecoste, dopo l’esaltazione della croce e dopo la festa di s. Lucia.
Da diverse testimonianze storiche e liturgiche, il loro significato risulta essere quello di un particolare sforzo ascetico all’inizio delle quattro stagioni specialmente nell'ambito della terna: preghiera, digiuno ed elemosina. Nello stesso tempo i giorni delle Tempora costituivano un ringraziamento per i diversi raccolti nel corso dell’anno e, a partire dal sec. V, servirono alla preparazione e all'amministrazione degli ordini sacri. In epoca più recente si aggiunse la preghiera per le vocazioni sacerdotali e religiose.
Il nuovo ordinamento dello celebrazione delle Tempora mantiene fondamentalmente i giorni delle Tempora, rimette però la determinazione della loro data e della loro messa in opera alle Conferenze episcopali, affinché si possa meglio tenere conto delle situazioní locali (NG 46). Quanto al significato, il commento ufficiale alle NG sottolinea che gli attuali problemi mondiali della pace, della giustizia e della fame danno alle pratiche periodicamente ricorrenti della penitenza e della carità cristiana un senso particolare. In applicazione della direttiva citata e tenuta presente la situazione locale, la Conferenza episcopale italiana in Precisazioni su alcune ricorrenze dell'anno liturgico ha stabilito che: «La tradizione delle "Quattro Tempora", originariamente legata alla santificazione del tempo nelle quattro stagioni, può essere opportunamente ravvivata con momenti di preghiera e di riflessione che pongano in rilievo il mistero di Cristo nel tempo. In tali occasioni si potrà ad esempio usare qualche formulario particolare di preghiera universale o dei fedeli o anche, nel Tempo Ordinario, valersi dei formulari delle messe per varie necessità nei giorni del cambio della stagione».

IV.15. Le celebrazioni dei Santi (Santorale)
Accanto al Temporale o Proprio del tempo c'è anche un gran numero di feste e memorie in onore dei santi, che vengono riunite sotto il nome di Santorale.

IV.15.a) La storia del culto dei santi
Si può porre l’inizio del culto cristiano dei santi alla metà del sec. II. Dapprima vennero venerati i martiri come testimoni di Cristo in senso eminente. Il primo deve essere stato il vescovo Policarpo di Smirne (attorno al 155), al quale la sua comunità tributò un culto di venerazione. Dapprima il culto di un martire fu limitato a quella comunità in mezzo alla quale si trovava la sua tomba. Solo più tardi vennero accolti nel calendario liturgico taluni martiri anche di altre comunità. Alla mancanza della tomba si cercò di supplire con reliquie - in seguito anche reliquie di contatto (= brandea) - o anche con immagini. Un culto particolare ricevettero quindi anche i confessori, che nella persecuzione avevano dovuto soffrire tortura, prigionia ed esilio. Ben presto il culto di venerazione fu rivolto anche agli apostoli quali primi testimoni di Cristo. Con la fine delle grandi persecuzioni lentamente furono venerati anche vescovi eminenti come Gregorio il Taumaturgo in Oriente e Martino di Tours in Occidente. Questa venerazione toccò infine anche agli asceti e alle vergini, a motivo della loro eccezionale sequela di Cristo. Il culto di questi martiri e santi, sulle cui tombe già presto furono edificati altari, cappelle e basiliche, furono letti gli atti dei martiri e fu celebrata 1'eucaristia, consisteva non solo nella commemorazione del giorno della loro morte (natale) e nella imitazione delle loro virtù, ma anche nella domanda della loro intercessione (invocatio).
Di un culto di venerazione della Madre di Dio non si ha ancora nei primi tre secoli una chiara testimonianza proprio perché in primo piano c'era il culto dei martiri e degli apostoli. La cosa però cambiò improvvisamente nel sec. IV, come si vedrà più innanzi. Per prevenire un'espansione incontrollata del culto dei santi si formò un procedimento ecclesiastico per la canonizzazione. Criterio ne divenne lentamente 1'eroica sequela di Cristo, ben dimostrata, e la prova dei miracoli dopo che si erano fatte preghiere. Attualmente normativo per le canonizzazioni è il Motu proprio «Sanctitas clarior» di Paolo VI, del 19 marzo 1969. La crescita eccessiva del culto dei santi nel Medioevo aveva ampiamente oscurato la celebrazione del Proprio del tempo. Il Messale e il Breviario editi dopo il concilio di Trento da Pio V ridussero le feste dei santi a solo 158, che però fino all'inizio del nostro secolo erano di nuovo aumentate a 230, senza contare le feste proprie delle diocesi, delle quali talune presentavano più di 100 celebrazioni.

Prima di parlare del nuovo ordinamento è il caso di fare alcune brevi affermazioni sulla teologia del culto dei santi.

IV.15.b) La teologia del culto dei santi
Nonostante tutte le esagerazioni e anche una certa pratica abusiva del culto dei santi in talune epoche e paesi, 1'insegnamento ufficiale della Chiesa non ha mai perso di vista 1'affermazione centrale di 1Tm 2, 5s. (Cristo come unico mediatore). Quando venera i santi la Chiesa proclama la grazia vittoriosa dell'unico redentore e mediatore, Cristo, grazia che nei santi è divenuta efficace. Espressione liturgica di ciò sono soprattutto i prefazi delle messe dei santi, ma anche numerose orazioni. Affermazioni del magistero si trovano tra 1'altro in diversi documenti del Vaticano II (SC 103s., 111; LG cap. 7s.). Quanto detto vale per il culto di Maria, Madre di Dio, «congiunta indissolubilmente con 1'opera della salvezza del Figlio suo; in Maria [la Chiesa] ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione, ed in lei contempla con gioia, come in una immagine purissima, ciò che essa, tutta, desidera e spera di essere» (SC 103 ).
Del culto dei santi però fa parte non solo il riconoscimento che essi, per grazia di Dio, sono divenuti segni, testimoni e modelli della vita cristiana, ma anche 1'esporre fiducioso a essi, come a fratelli e sorelle in Cristo, le preoccupazioni e le necessità personali, e il chiedere la loro intercessione presso Dio, datore di ogni buon dono, nella consapevolezza della fraterna solidarietà di tutti i componenti del mistico Corpo di Cristo. In questo senso il culto cattolico dei santi è molto lontano da ciò che chiamiamo adorazione.

IV.15.c) Il nuovo calendario generale romano
Il grande criterio per la riforma del calendario generale fu la preminenza del Proprio del Tempo, «in modo che sia convenientemente celebrato 1'intero ciclo dei misteri della salvezza» (SC 108). Perché ciò sia possibile un gran numero di feste di santi deve essere assegnato alle singole chiese particolari o alle Famiglie religiose; «siano invece estese a tutta la chiesa soltanto quelle che celebrano Santi di importanza veramente universale» (SC 111 ). Un altro criterio fu la diminuzione o la riduzione di grado delle feste di idea. Quanto alle celebrazioni dei santi, la verità storica deve essere il presupposto perché esse siano accolte nel calendario. Devono essere inseriti solo santi di grande importanza. Occorre inoltre far in modo che tutti i paesi e tutte le epoche siano rappresentate (universalità geografica e cronologica). Possibilmente deve anche essere rappresentato ogni stato di vita e le diverse espressioni della pietà. Il 21 marzo 1969 la Congregazione dei Riti pubblicò il Calendario Romano preceduto dalle Norme Generali e dal Commento al nuovo calendario.
Anche se la riduzione del calendario dei santi in singoli casi suscitò rammarico, si restò tuttavia al di qua della meta prefissata di un sostanziale alleggerimento del calendario generale a favore del Temporale. Ci sono infatti ancora - senza considerare le feste e le memorie mariane - quattro solennità (s. Giuseppe, Nascita di s. Giovanni Battista, ss. Pietro e Paolo e Ognissanti), 17 feste, 50 memorie obbligatorie e 88 facoltative: in tutto 168 celebrazioni (nel 1988). Si è anche criticato il fatto che tra i santi ve ne siano 89 dai paesi neolatini e 63 degli ordini religiosi. Una particolarità è la commemorazione di tutti i fedeli defunti il 2 novembre. Essa risale all'anno 998 (s. Odilone di Cluny, abate) e ha il grado di una solennità. Se essa cade in domenica, la messa della commemorazione prevale su quella della domenica.
L'alto numero di feste e memorie mariane è certo espressione della venerazione amorosa e riconoscente che la chiesa porta alla Madre del Signore. La maggior parte delle feste mariane sorse (a partire dal sec. IV) in Oriente e divenne presto familiare anche in Occidente. A dire il vero sembra che in talune epoche si sia ignorato che c'è anche un eccesso di feste che può essere pregiudizievole all'intento di un vero culto mariano. Anche se nel nuovo ordinamento alcuni doppioni furono eliminati, rimane ancora oggi un numero molto grande di solennità, feste e memorie mariane. Mi limito solo a una enumerazione senza commento; a proposito si deve ricordare che le feste finora dette Purificazione di Maria e Annunciazione di Maria sono già state trattate nelle feste del Signore, e ugualmente la Solennità di Maria, Madre di Dio, in connessione con 1'ottava di Natale.

Solennità e feste mariane (secondo il seguito dell'anno liturgico): Immacolata (Solennità dell'Immacolata concezione della B.V. Maria), 1'8 dicembre; festa della Visitazione di Maria, il 31 maggio; solennità dell'Assunzione di Maria in cielo, il 15 agosto; festa della Natività di Maria, 1'8 settembre.

Memorie mariane: Nostra Signora di Lourdes (memoria facoltativa = f), 1'11 febbraio; Cuore immacolato di Maria (f), il sabato dopo la festa del Sacro Cuore; Nostra Signora dal Monte Carmelo (f), il 16 luglio; Dedicazione della basilica di s. Maria Maggiore (f), il 5 agosto; Maria Regina (memoria obbligatoria = o), il 22 agosto; B.V.M. Addolorata (o), il 15 settembre; B.V.M. del Rosario (o), il 7 ottobre; Presentazione della B.V. Maria (o), il 21 novembre.
Voglio anche ricordare in questo contesto la speciale venerazione della Madre di Dio nel Mese di Maria, maggio, e nel Mese del rosario, ottobre; e inoltre le messe votive della B.V. Maria (dal Comune, secondo i diversi tempi dell'anno; prima erano dette di santa Maria in sabato).

IV.15.d) Calendario regionale, diocesano e religioso
Per l’Italia non c'è un calendario (e un Proprio degli uffici e delle messe) regionale; al riguardo la Conferenza episcopale italiana si è limitata nelle Precisazioni su alcune ricorrenze dell’anno liturgico a stabilire che «nel calendario liturgico per 1'Italia sono celebrate con il grado di festa le memorie liturgiche dei patroni d'Italia: santa Caterina da Siena (29 aprile) e san Francesco di Assisi (4 ottobre); dei patroni d'Europa: i santi Cirillo e Metodio (14 febbraio) e san Benedetto (11 luglio)».
Sulla base delle NG 48-59 e della Istruzione della Congregazione dei riti del 24 giugno 1970 si sono venuti preparando anche i calendari diocesani delle diocesi italiane, con i rispettivi Propri degli uffici e delle messe, volta a volta approvati da Roma. In essi il numero delle celebrazioni proprie è assai diverso.
Hanno il calendario religioso: «gli ordini maschili; di questo loro calendario devono far uso anche le monache e religiose del medesimo ordine se vi sono, come pure i terziari aggregati che vivono vita comune ed emettono voti semplici. Inoltre, le congregazioni religiose, le società e gli istituti di diritto pontificio se, in qualsiasi modo, sono tenuti alla celebrazione dell’Ufficio divino». Nei calendari religiosi vengono accolti «oltre alla celebrazione del Titolo, del Fondatore e del Patrono, i Santi e i Beati, che furono membri della famiglia religiosa, o ebbero particolare relazione con essa» (NG 52b). Per assicurare e approfondire il collegamento delle comunità religiose con le chiese locali, queste celebrano insieme l’anniversario della dedicazione della cattedrale e del patrono principale del luogo o del territorio in cui risiedono.
Un calendario dei santi di genere particolare è il Martirologio Romano che ha le sue radici negli elenchi delle feste e dei martiri della chiesa antica. L’ultima volta che esso venne fondamentalmente rielaborato fu nel 1583 e conobbe numerose edizioni e traduzioni. La nuova edizione della riforma conciliare è del 2001.

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